Le pioniere del nuovo mondo – 1

A cura di Domenico Rizzi
Puntate: 1, 2, 3, 4, 5, 6.

Scorrendo le infinite pubblicazioni sulla storia del West, balza subito all’occhio che la maggior parte di esse riguarda soprattutto personaggi di sesso maschile, che si tratti di esploratori, emigranti, cowboy, pistoleri, sceriffi, militari o Pellirosse. Invece, fin dai primissimi anni della colonizzazione del Nord America emersero figure femminili di spicco, che, come si è premesso, avrebbero ottenuto scarsa attenzione da parte di letteratura e cinema.
E’ vero che la presenza femminile non fu mai troppo numerosa nelle aree della Frontiera fin dalla nascita delle prime colonie.
Particolarmente per quanto riguarda la Nuova Francia, nel 1666 su 3.215 abitanti di origine europea, 1.881 erano di sesso femminile, ma il governo riteneva che ne occorressero molte di più per popolare in fretta l’immenso territorio ambìto. Perciò venne promossa l’emigrazione femminile verso il Nuovo Mondo, inviandovi dapprima 262 ragazze nubili reclutate con l’aiuto di ordini religiosi e successivamente, per iniziativa di Luigi XIV, altre 700 – non tutte francesi: alcune provenienti da Paesi Bassi e Germania – per la maggior parte di estrazione media o medio-bassa. Con ciò, i coloni francesi insediati nel Nord America all’inizio della Guerra dei Sette Anni non erano più di 70.000, con una popolazione maschile prevalente rispetto a quella femminile.
Per la Nuova Inghilterra il problema si presentò minore, data la fortissima migrazione verso le sue colonie, che possedeva già 364.000 abitanti alla vigilia della Guerra dei Sette Anni. Comunque, allo scopo di popolare più rapidamente i rispettivi possedimenti, entrambe le potenze ricorsero anche alla deportazione dal continente europeo di donne che si erano macchiate di qualche reato, in genere ladre, truffatrici o adultere. Una volta sbarcate nel Nuovo Mondo, le pioniere forzate venivano messe all’asta ed acquistate, alla stregua delle schiave, da coloni più o meno benestanti. Non di rado, ne diventavano le mogli.
Mary Farley
Anche in Europa le donne conducevano a quell’epoca una vita durissima, dividendosi fra il lavoro dei campi, di qualche malsana filanda o conceria e le incombenze delle famiglie numerose a cui dovevano accudire. Sposandosi molto giovani, generalmente fra i 14 e i 18 anni e non sempre per libera scelta, si ritrovavano spesso con una decina di figli prima di avere compiuto i 30, affrontando nella maggior parte dei casi un’esistenza di sacrifici e privazioni, costantemente minacciata da carestie, epidemie e guerre.
La vita di una deportata in America non era peggiore di quella di una qualsiasi altra donna già insediata nella colonia, salvo il fatto che spesso fosse costretta a sposare un uomo controvoglia, oppure che ne diventasse la schiava, la serva o la concubina. Non tutte accettarono passivamente il proprio destino: Mary Farley, sbarcata in Carolina nel 1725 insieme al marito, essendo stati entrambi condannati per fellonia, si diede alla pirateria; quando la sua banda venne sgominata, lei se la cavò. Analogo caso fu quello di Mary Crickett (o Critchett) anch’essa inglese e deportata in Virginia nel 1728. Un anno dopo fu catturata insieme al marito e ad altri 4 pirati e impiccata. Altre detenute sfuggirono alla custodia cui erano state affidate o ai loro padroni, facendo perdere le proprie tracce nella foresta e di molte non si seppe più nulla, perché morte o cadute nelle mani di qualche tribù pellerossa.
La medesima sorte delle deportate toccava del resto alle Negre importate dalle Barbados, perché fin dal 1622 i colonizzatori si servivano di Africani per i lavori nelle piantagioni. In questi casi il trattamento più duro era riservato agli uomini, mentre le donne venivano impiegate più spesso, quando non erano adibite alla raccolta del cotone, nelle abitazioni dei padroni, i quali approfittavano delle più giovani e graziose per il proprio diletto. Si sa che il primo presidente degli Stati Uniti, George Washington (1732-1799) proprietario di 300 schiavi nella sua tenuta di Mount Vernon, in Virginia, ebbe come amante una diciassettenne di nome Venus, ma forse questa è soltanto la sua relazione più nota. Varie fonti sostengono che dal rapporto nacque, nel 1784 o 1785, un figlio a cui venne dato il nome di West Ford, sebbene alcuni ritengano improbabile che Washington fosse il padre del bambino, essendo considerato sterile.
Uno dei suoi successori, Thomas Jefferson (1743-1826) generò con una delle sue schiave almeno 2 figli mulatti. La sua amante, in parte di sangue europeo, fu Sally Hemings, nata in Virginia nel 1773 e vissuta fino al 1835 senza avere mai abbandonato lo Stato natìo.
Nel 1790, pochi anni dopo l’ottenuta indipendenza degli insorti americani dall’Inghilterra, gli Afro-Americani presenti negli Stati Uniti erano già saliti a 757.300, dei quali oltre 59.000 affrancati. A quell’epoca, la popolazione complessiva dell’Unione sfiorava i 4 milioni di persone e gli immigrati dall’Europa crescevano di continuo, mentre i Pellirosse presenti nell’area delle Tredici Colonie erano solo 76.000; comprendendo anche la fascia estesa fino al fiume Mississippi, non superavano i 200.000 individui. In due secoli si può calcolare che il loro numero si fosse ridotto del 60% a causa di epidemie, guerre fra le diverse tribù e partecipazione ai conflitti che opponevano di frequente i Francesi agli Inglesi e questi ultimi agli Olandesi.
Proprio gli Indiani rappresentavano il terrore delle donne che popolavano le nuove colonie.
Essere catturate dai selvaggi significava subire umiliazioni, percosse e torture, assistere all’uccisione dei propri famigliari e subire abusi sessuali senza limite da uno o più guerrieri; spesso anche essere sottoposte alla durissima prova del gauntlet, che toccava indistintamente a soggetti di sesso maschile e femminile. I prigionieri venivano spogliati completamente e costretti a percorrere, in piedi o strisciando, un corridoio formato da due file di Indiani – uomini, donne e bambini – che le percuotevano con bastoni, rami spinosi o strisce di cuoio: se la vittima riusciva a giungere fino in fondo al percorso, veniva adottata e integrata nella tribù, ma erano molti coloro che non resistevano alla difficile prova. Infine, dopo l’eventuale liberazione, le donne dovevano difendersi dalle malelingue della loro stessa comunità, che non le perdonava di avere condiviso il giaciglio con un selvaggio pagano.
Le guerre fra i nativi e i colonizzatori europei iniziarono assai presto: dai tempi della prima colonia britannica di Jamestown, in Virginia, le ostilità erano scoppiate a più riprese, portando nel 1622 alla distruzione della città per opera della Confederazione dei Powhatan, guidata da Opechancanough, uno zio di Pocahontas. Nell’attacco furono trucidate 347 persone di ogni sesso ed età, ma il massacro dei civili si estese anche alle aree circostanti.
Nei pressi dell’attuale città di New York, a quell’epoca denominata Nuova Amsterdam, un sanguinoso conflitto oppose nel 1643-45 gli Olandesi – che vent’anni prima avevano acquistato dai Pellirosse l’isola di Manhattan per crearvi una base commerciale – ai Delaware e ad altre tribù soprattutto di etnia algonchina. Il 25 febbraio 1643 le milizie olandesi, che obbedivano al governatore Willem Kieft, rasero al suolo il villaggio di Pavonia, trucidando barbaramente 120 Indiani: secondo testimoni della colonia, perfino i bambini furono strappati dal petto delle madri, torturati, uccisi e poi bruciati.
Anne Marbury
Una delle vittime illustri di questa contesa fu Anne Marbury, nata in Inghilterra nel 1591 ed emigrata nel Massachussets nel 1634 insieme al marito William Hutchinson e a 10 dei loro figli (la donna ne avrebbe avuti 15). Infaticabile attivista e convinta delle proprie idee, si conquistò una posizione di preminenza nella comunità puritana del territorio, ma finì per trovarsi in conflitto con le autorità teocratiche della colonia per le sue idee giudicate eterodosse, al punto che il nuovo governatore John Winthrop la definì “una donna pericolosa per la comunità e una minaccia per la sua città”. Processata nel 1637 dalla Corte Generale del Massachussets e condannata per eresia, blasfemia e comportamenti non corretti, venne tenuta temporaneamente in stato di arresto e dopo qualche mese scomunicata ed espulsa dalla società puritana.
In seguito alla morte del marito, nel 1642 la Hutchinson decise di trasferirsi insieme a 7 dei suoi figli vicino a Nuova Amsterdam, ma nonostante avesse tenuto un atteggiamento amichevole verso alcune tribù, presto si trovò esposta alle rappresaglie degli Indiani in rivolta. Nel mese di agosto del 1643 la sua famiglia, stabilitasi in un luogo chiamato Split Rock, subì un’incursione da parte dei Siwanoy, una tribù degli Algonchini orientali guidata dal capo Wampage, che uccisero lei, 5 suoi figli e alcuni domestici. Soltanto la piccola Susanna di 9 anni si salvò, essendo in giro per i boschi a raccogliere more, ma fu catturata dagli Indiani, che le diedero il nome di Foglia d’Autunno e la trattennero nei loro villaggi per circa 3 anni, fino al giorno in cui venne riscattata. Riottenuta la libertà, la ragazza raggiunse Boston, dove vivevano alcuni fratelli e sorelle e a 18 anni si sposò con John Cole, dal quale ebbe 11 figli, trasferendosi più tardi nel Rhode Island con la sua numerosa famiglia, dove visse fino al 1713.
Anche Mary Rowlandson conobbe la ferocia dei nativi, che riassunse in un libro divenuto molto popolare. Venne strappata al suo villaggio insieme ad altre persone durante la rivolta capeggiata da Metacomet, soprannominato dagli Inglesi “Re Filippo”, una guerra costata ai coloni britannici 900 morti, la distruzione di oltre 1.000 case e fattorie, la devastazione dei campi coltivati e la perdita di migliaia di capi di bestiame.
Mary Rowlandson
Mary White, coniugata Rowlandson, era nata a Somerset, in Inghilterra, nel 1637, emigrando nel Massachussets all’età di 13 anni insieme alla famiglia. Nel 1653 si spostò a Lancaster, dove sposò il reverendo Thomas Rowlandson, diventando madre per quattro volte.
Il 20 febbraio 1676 una banda di Narragansett, Wampanoag e Nashaway, guidata dal capo Monoco, prese d’assalto il suo villaggio, uccise 7 persone e ne catturò diverse altre, compresa la Rowlandson e 3 dei suoi figli. Da quel momento ebbe inizio un’incredibile odissea di 11 settimane attraverso terre selvagge che la donna avrebbe più tardi narrato nel libro “History of the Captivity and Restoration”, edito nel 1682 e ripubblicato in seguito anche con titoli diversi. Il diario contiene molti passi drammatici, che contrassegnano la tremenda esperienza con episodi raccapriccianti, confermando tuttavia, da parte dell’autrice, di non avere mai smarrito la sua fede cristiana: “…ho sempre pensato alla meravigliosa bontà di Dio nei miei confronti, nel mantenermi l’uso della ragione e dei sensi, in quei penosi frangenti, affinchè non facessi violenza a me stessa per mettere fine alla mia povera vita.” In un altro passaggio la Rowlandson descrive l’accanimento dei Pellirosse, definiti “bestie rabbiose”, contro una sua compagna di sventura, che supplicava di poter tornare alla propria casa insieme al bambino che stringeva al petto: “…seccati dalla sua noiosa insistenza, la circondarono in gruppo, le tolsero i vestiti fino a denudarla e la misero in mezzo a loro; e dopo aver cantato e danzato intorno a lei…le spaccarono il cranio, e così fecero con il bambino che ella teneva in braccio; dopo avere fatto ciò, accesero un fuoco e ve li posarono sopra entrambi…” Più avanti, nella sua narrazione, la Rowlandson accenna però ad alcuni comportamenti umani da parte dei suoi carcerieri e sostiene che fu lo stesso Metacomet a prendersi cura di lei, ordinando alle sue mogli di ristorarla con del cibo e di trattarla con garbo. Mary confezionò addirittura una camicia per il figlio del condottiero, che la pagò con uno scellino.
Non si conosce se durante i quasi tre mesi di cattività qualche guerriero avesse approfittato di lei, come usualmente si faceva con le prigioniere di sesso femminile, ma è difficile immaginare che, considerata la brutalità dimostrata dagli Indiani durante la tratta delle persone catturate, una donna ancora giovane ne fosse rimasta immune. Tuttavia, Mary, che non dovette sostenere la prova del gauntlet, negò categoricamente di essere stata in qualsiasi modo molestata: forse era sincera, oppure lo fece per evitare le maldicenze della gente che abitava le colonie puritane dell’epoca, ma anche il severo giudizio delle autorità religiose. Encrease Mather (1639-1723) fanatico teologo e predicatore del New England, aveva infatti attribuito l’infelice sorte delle prigioniere ad un castigo divino: “Vedete con quale terribile ardore Dio compie la sua volontà. Poiché il Signore ha detto che le figlie di Sion sono altere, egli scoprirà la loro vergogna. Il Signore ha attuato la sua minaccia quando gli Indiani si sono impadroniti di molte di loro e le hanno spogliate e denudate come nel giorno della loro nascita.”
La repressione inglese della rivolta fu durissima. Vennero uccisi circa 3.000 Indiani, compreso il loro leader principale Metacomet, il cui corpo venne squartato, le membra appese agli alberi e la testa infilzata su una picca e lasciata in mostra per vent’anni.
Mary Rowlandson fu liberata il 2 maggio 1676 dietro pagamento di 20 sterline, raccolte con una pietosa colletta dalle donne di Boston. Rimasta vedova nel 1678, si risposò con Samuel Talcott e visse fino al 1711, concludendo la sua dura esistenza a Wethersfield, nel Connecticut.
Non tutte le donne cadute nelle mani degli Indiani ebbero la forza di aspettare pazientemente, affidandosi alla fede, di essere riscattate o liberate dalle milizie coloniali.
Un caso eclatante avvenuto molti anni dopo ebbe come protagoniste Hannah Dustin e Mary Neff, catturate dai Pellirosse mentre era quasi terminata la Guerra di Re Guglielmo, che oppose la Francia alla Gran Bretagna dal 1689 al 1697.


Hannah Dustin e Mary Neff

Ciascuna delle due potenze si avvaleva dell’alleanza di tribù indiane fra loro ostili, che si battevano sia per rivalità intertribali, quanto per il bottino che potevano acquisire durante le incursioni. A questo riguardo, le donne bianche costituivano, al pari delle armi da fuoco e dei cavalli, una preda molto ambita.
Hannah Emerson, nata nel Massachussets nel 1657, sposata con Thomas Dustin (o Duston) e madre di 8 figli, venne rapita insieme alla nurse Mary Corliss Neff il 15 marzo 1697 a Haverhill, Massachussets, da una banda di Abenaki alleati dei Francesi. L’incursione, guidata dal capo Nescambious, causò 27 morti, fra i quali la neonata Martha avuta da pochi giorni dalla Dustin, che le venne strappata dal petto e uccisa fracassandole il cranio contro un albero. Il marito della donna si trovava nei campi insieme agli altri 8 figli e tutti sfuggirono alla cattura. I prigionieri furono 13, ma durante la ritirata vennero separati e condotti in luoghi diversi. Hannah e Mary rimasero con un gruppo di 11 o 12 Indiani, fra cui alcune donne e bambini, che, dopo un lunghissimo cammino in terre ancora innevate, sostarono su un isolotto del fiume Merrimack, vicino alla confluenza del Contookook.
Della banda faceva parte Samuel Lenardson, un ragazzo di 14 anni catturato un paio d’anni prima, che si dichiarò disposto a fuggire insieme alle due donne. Il capo abenaki, che conosceva a sufficienza la lingua inglese, rispondendo ad una insistente richiesta di Hannah, disse che, una volta giunte a destinazione, sia lei che la sua compagna sarebbero state sottoposte al gauntlet, uno spettacolo a cui partecipava o assisteva tutta la tribù. Sicuro che le prigioniere non avrebbero tentato la fuga, omise incautamente di farle sorvegliare e ad una certa ora tutti gli Indiani si addormentarono senza disporre alcuna sentinella nell’accampamento.
Dopo avere concertato un piano, la notte fra il 29 e il 30 marzo Hannah, Mary e Samuel, impossessatisi di mazze, coltelli e tomahawk, aggredirono i loro carcerieri nel sonno, compiendo una strage orrenda alla quale scampò soltanto una squaw, riuscita a dileguarsi nella boscaglia. Con grande freddezza, la Dustin ordinò di scotennare i cadaveri, portandosi dietro gli scalpi come prova da esibire al ritorno nella colonia; quindi le prigioniere e il ragazzo distrussero tutte le canoe indiane, salvandone soltanto una per la fuga lungo il fiume. Dopo diversi giorni, il 21 aprile 1697 il terribile terzetto giunse finalmente ad Haverhill, accolto trionfalmente dai suoi abitanti. Hannah, che aveva 39 anni, divenne il simbolo dell’eroina della Frontiera. Insieme alla Neff e a Lenardson fu ricevuta a Boston dal governatore e ottenne un premio di 25 sterline, mentre altre 25 furono divise fra i suoi due compagni. Nell’ottobre 1698 l’eroina della formidabile avventura diede alla luce un’altra figlia, chiamata Lydia.
Il nome di Hannah Dustin circolò per decenni fra le colonie britanniche, pronunciato con rispetto e ammirazione, anche dopo la alla sua morte, avvenuta in una data imprecisata fra il 1736 e il 1738. Samuel Lenardson morì nel Connecticut dove si era trasferito, nel 1718, a soli 35 anni; la Neff godette di una vita più lunga, ma di lei non si ebbero più notizie dopo il rientro dalla sua incredibile esperienza. Si sa che si spense a Haverhill nel1722, all’età di 76 anni.
Un episodio non meno drammatico fu quello riguardante Mary Draper Ingles, nativa di Philadelphia nel 1732 e sposata all’età di 18 anni con William Ingles. Dall’unione erano nati i figli Thomas e George.


Mary Draper Ingles

La donna fu rapita dagli Shawnee, alleati dei Francesi, nel luglio 1755 a Draper’s Meadow, nella Virginia sud-occidentale, durante un attacco in cui perirono 6 persone, fra cui la madre di Mary e un nipote ancora bambino. Il marito William riuscì a dileguarsi nella foresta, ma la Ingles, che era incinta, venne condotta via prigioniera insieme ai due figli, alla cognata e ad un confinante. Dopo tre giorni, la donna partorì una bambina, ma gli Indiani, nonostante il suo stato, non le consentirono di fermarsi. Una sosta abbastanza lunga venne decisa sulle rive di uno stagno salato nei pressi del Kanawha River, ma poi la marcia riprese fino al fiume Ohio e da lì fino allo Scioto, un altro corso d’acqua distante 100 miglia. La cognata e i figli di Mary vennero più tardi trasferiti altrove, in luoghi molto lontani.
Durante la prigionia, la donna potè tenere la figlioletta con sé e fece valere le sue abilità nel cucito, confezionando abiti per gli Shawnee per guadagnarsi la loro clemenza. Le venne risparmiata l’umiliante prova del gauntlet, ma si ignora se gli Indiani l’avessero abusata, perché nei suoi racconti dopo la liberazione la Ingles non vi fece accenno.
Neppure la prigionia di Mary Ingles durò troppo a lungo, perché la donna pensò ogni giorno al modo di fuggire. A due mesi e mezzo dalla cattura, dopo avere deciso a malincuore di lasciare la piccola figlia in una capanna sperando che gli Indiani la adottassero, si allontanò dal villaggio insieme ad una donna più anziana chiamata l’”Olandese”, che forse era di origine tedesca, con il pretesto di raccogliere dei frutti nel bosco. Armate di un paio di tomahawk e con sole due coperte, le prigioniere si dileguarono nella foresta, iniziando un lunghissimo percorso verso la libertà.
La loro marcia fu costellata da parecchie vicissitudini. Entrambe patirono la fame e il freddo quando la stagione autunnale portò le prime nevicate, avvistarono più volte drappelli di Shawnee senza esserne scoperte e per un certo tratto poterono alternarsi in groppa ad un cavallo trovato per caso vicino ad un casolare abbandonato. Persa la cavalcatura durante il guado del fiume Big Sandy e prossime allo sfinimento, incominciarono a litigare fra loro e l’Olandese, che era uscita di senno, aggredì Mary con l’intenzione di ucciderla. Per questo la Ingles, che aveva trovato una canoa seguendo il New River, decise di proseguire da sola, abbandonando la compagna sulla riva del fiume.
La sua odissea terminò cinque giorni più tardi, il 1° dicembre 1755, quando crollò priva di forze ai margini di in un campo di grano e venne soccorsa da Adam Harmon, un colono di Draper’s Meadow. La sua vita, nonostante le durissime prove sopportate, riprese a svolgersi regolarmente. Mary ebbe altri 4 figli dal marito e rimase su questa terra fino al febbraio 1815, spegnendosi all’età di 82 anni.
Anche della sua impresa gli abitanti delle colonie parlarono a lungo, additandola come vero esempio delle donne pioniere, dal carattere forte e indomabile, capaci di resistere ad ogni prova e a sopportare il dolore e la fatica meglio degli uomini. L’aspetto che impressionava maggiormente era la ferma determinazione di riacquistare la libertà ad ogni costo, anche abbandonando una figlia al suo incerto destino.
Si calcola che le persone di razza bianca e sesso femminile catturate dagli Indiani fra il 1675 e il 1763 furono almeno 1.640, ma il numero è certamente inferiore alla realtà.
E’ impossibile peraltro calcolare quante donne indiane fossero state rapite e schiavizzate da altre tribù nel medesimo periodo, dal momento che tale costume era in uso diversi secoli prima che Cristoforo Colombo scoprisse l’America. Presso ogni popolo indigeno vi erano squaw (termine algonchino indicante “donna” o “moglie”) di provenienza diversa, essendo ciascuna tribù frequentemente in guerra con altre, come hanno dimostrato alcuni preziosi ritrovamenti archeologici. In un luogo chiamato Crow Creek, nell’attuale South Dakota, nel 1325 venne interamente distrutto un villaggio indiano – forse di Arikara – i cui resti, anche umani, furono scoperti nel 1978 da uno staff di archeologi americani. Con una paziente ricostruzione si stabilì che nel posto erano state trucidate, da elementi di una tribù nemica, 486 persone e che tale numero corrispondeva a poco più della metà degli abitanti del villaggio. Su diversi scheletri vennero individuate tracce di ferite inferte con oggetti contundenti e alcuni crani presentavano i segni tipici dello scotennamento, usanza che qualche studioso ritiene – falsamente – sia stata introdotta dagli Europei.
Anche le incaute deduzioni di molti storici di parte, che gli Indiani rapissero le donne bianche per ritorsione dopo avere subito rappresaglie e la perdita delle loro terre non è del tutto vera. Si trattava, come detto, di un’abitudine millenaria, comune del resto a tutti i popoli europei dell’antichità, come i Galli, i Germani, gli Unni o i Vichinghi. La stessa storia di Roma contiene, ai suoi albori, l’episodio del Ratto delle Sabine narrato da Tito Livio nel suo “Ab Urbe Condita”.
L’ultimo dei Mohicani
Il romanzo “L’ultimo dei Mohicani” di James Fenimore Cooper e soprattutto i suoi numerosi adattamenti cinematografici, hanno diffuso l’immagine del “Buon selvaggio” che si innamora, corrisposto, della fanciulla dalla pelle chiara cresciuta nella civile società europea. Benchè anche la storia della colonizzazione americana abbia conosciuto situazioni simili, per quanto riguarda le donne rapite risulta che soltanto una percentuale minima, inferiore al 3%, accettò la propria condizione per libera scelta, o si rassegnò alla propria sorte per disperazione.
Fra questi casi, spicca la storia di Mary Jemison, originaria della Pennsylvania, catturata anch’essa nel 1755 all’età di 12 anni insieme ai propri genitori e fratelli da una banda di Shawnee e più tardi ceduta ai Seneca, una tribù di ceppo irochese. I suoi famigliari furono uccisi e scotennati. Nella lunga marcia verso i loro accampamenti, i Pellirosse misero in luce crudeltà e sadismo: “Ogni volta che i bambini più piccoli piangevano per avere un poco d’acqua” scrive Mary “gli Indiani davano loro da bere dell’urina…”
Ribattezzata Deh-he-wa-nis (Fanciulla Graziosa o Donna di Bell’Aspetto) venne presa in moglie da un guerriero dei Delaware di nome Sheninjee, che la mise incinta e la condusse molto lontano, nell’attuale Genessee Valley dello Stato di New York. La sua opinione iniziale verso i nativi era profondamente cambiata:“…l’idea di trascorrere la mia vita con lui, sul principio mi sembrò del tutto inconciliabile con i sentimenti che provavo nei suoi confronti. Ma…presto si guadagnò il mio affetto e, per quanto ciò possa sembrare strano, lo amai.”
Rimasta vedova dopo la perdita del marito a causa di una malattia, si risposò con Hiakatoo, un Seneca, dal quale avrebbe avuto altri 6 figli. Per il resto della sua vita Mary continuò a vivere con gli Indiani, rinunciando a tornare al mondo civile anche quando ne ebbe la possibilità: la sua esistenza era trascorsa quasi interamente fra i Pellirosse, i suoi mariti erano entrambi indiani e i numerosi figli erano nati e cresciuti lontano dalla civiltà. La sua vicenda venne raccontata da James E. Seaver nel libro “Narrative of the Life of Mrs, Mary Jemison”, pubblicato nel 1824, del quale si ebbero diverse edizioni successive. La Jemison morì nel 1833 nella riserva di Buffalo Creek, Stato di New York, ormai novantenne.
Mary Jemison
Oltre a quelle citate, molte altre vicende avrebbero ispirato la letteratura del XVIII e XIX secolo. Fra le opere più note, l’epistolario di Ann Eliza Bleecker “The History of Maria Kittle” (1793) e il diario di Susannah Willard Johnson – anch’essa catturata dagli Abenaki nel 1754 e tenuta prigioniera a Quèbec per 4 anni – “A Narrative of the Captivity of Mrs. Johnson” (1796). Nell’Ottocento altre opere autobiografiche, come quelle dettate o scritte da Olive Oatman e Fanny Kelly, entrambe rapite da tribù dell’Ovest, avrebbero attratto l’interesse di una folta schiera di lettori, esasperando ulteriormente la discriminazione degli Americani verso le popolazioni indigene.
Un rapimento che fece scalpore fu quello di Jemima Boone, figlia quattordicenne del famoso esploratore Daniel Boone (1734-1820) fondatore di Boonesborough nel Kentucky e autore di numerose imprese audaci.
Un gruppetto composto da 2 Cherokee e 3 Shawnee la sorprese nel luglio 1776 mentre navigava a bordo di una canoa lungo il fiume Kentucky insieme alle figlie del colonnello Richard Callaway, Elizabeth e Frances, portandole via tutte e tre. La loro prigionia fu brevissima, perché Boone ed alcuni compagni di Boonesborough si misero subito sulle tracce dei rapitori, raggiungendoli dopo due giorni e mettendoli in fuga dopo averne abbattuti un paio. Le ragazze poterono così tornare sane e salve alle loro famiglie. Jemima raccontò che tutte erano state trattate con rispetto. Lo scrittore James Fenimore Cooper avrebbe preso spunto dall’episodio per il suo “L’ultimo dei Mohicani”, nel quale il perfido Magua, capo degli Uroni, rapisce Cora e Alice, figlie del tenente colonnello Munro. Jemima, sposatasi in seguito con Flanders Callaway e madre, secondo qualche versione, per ben 17 volte, visse fino all’età di 72 anni, spegnendosi nel Missouri nel 1834.


Il rapimento di Jemima Boone e le figlie del colonnello Callaway

Nello stesso periodo della sua cattura, si impose all’attenzione degli abitanti delle colonie britanniche una figura femminile che col tempo sarebbe stata considerata un’autentica eroina. Nata a Liverpool, Gran Bretagna, nel 1742, Anne Hennis emigrò con la famiglia in Virginia e rimase orfana di entrambi i genitori quando aveva 18 anni. Nel 1765 sposò un militare inglese di nome Richard Trotter, che rimase ucciso nel 1774 per mano di uno Shawnee, nella battaglia di Point Pleasant. Essendo ormai sul punto di scoppiare la guerra di indipendenza delle Tredici Colonie contro la madre patria, Anne si offrì volontaria nella milizia degli insorti ed assunse il ruolo di esploratrice, avendo modo di battersi proprio contro quegli Shawnee che l’avevano resa vedova. Gli Indiani la soprannominarono “Mad Anne”, “Anna la Pazza” per il suo scriteriato coraggio, ma le cronache la ricordano anche come la “Squaw bianca della valle del Kanawha”. Nel 1788 la donna si risposò con John Bailey, stabilendosi con lui a Fort Lee, in Virginia, ma la sua vita fu tutt’altro che tranquilla. Per un certo periodo Anne funse da messaggero tra alcune postazioni e nel 1791 portò a termine un’impresa che ne oscurò tante altre compiute dagli uomini.


Anne Hennis Bailey

Infatti, essendo Fort Lee a corto di approvvigionamenti, la donna percorse 100 miglia attraverso terre selvagge e insidiose per raggiungere Fort Savannah, obiettivo raggiunto con successo.
Rimasta vedova per la seconda volta, Anne emigrò nell’Ohio, dove riprese a svolgere le sue funzioni di corriere anche dopo avere raggiunto la settantina. Morì nel 1825 a 83 anni, quando le sue gesta erano già diventate leggendarie. Lo storico Virgil A. Lewis celebrò le sue gesta nel libro “Life and Times of Anne Bailey, the Pioneer Heroine of the Great Kanawha Valley”, pubblicato nel 1891 in West Virginia, dove le spoglie di “Mad Anne” furono traslate nel 1901.
La storia della Vecchia Frontiera, nella quale si parla insistentemente delle avventure di John Smith, Robert Rogers, Daniel Boone o Davy Crockett, è stata scritta anche da personaggi femminili come questo.

(Segue)

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