Gli oscar del cinema western – 28
A cura di Domenico Rizzi
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Dal 1969, anno di uscita sia de “Il Grinta” che di “Butch Cassidy”, il western non si aggiudica più un Premio Oscar, a meno di non includere “I giorni del cielo” di Terence Malick, un contemporary western vincitore di un Academy Award per la miglior fotografia. Wayne si era portato a casa una statuetta, assegnata alla carriera, mentre il film di George Roy Hill ne aveva vinte 4 (sceneggiatura, fotografia, colonna sonora e canzone composta da Burt Bacharach e Hal David).
Il trentacinquenne attore Kevin Costner, già protagonista di diversi film, fra i quali “Silverado”, accarezza un’idea meravigliosa leggendo il romanzo di Michael Blake “Dances With Wolves”, edito nel 1988, la storia di un ufficiale nordista scampato per miracolo ad una battaglia contro i Confederati e nauseato dalla guerra. A sua richiesta, viene concesso al tenente John Dunbar di essere assegnato alla postazione occidentale di Fort Sedgewick, probabilmente ubicata nel Colorado settentrionale, ai confini con i territori indiani.
Fin dall’inizio si intuisce, dalle pagine del libro, quali saranno le scelte del protagonista, giovane e bel tenente considerato un eroe dopo essersi lanciato a cavallo – nonostante le ferite alle gambe che lo avevano esposto al rischio di amputazione di entrambi gli arti – contro le file sudiste. Dunbar, elogiato da dopo la sua impresa un generale, che lo affida alle cure del suo chirurgo personale, sceglie deliberatamente le terre selvagge dell’Ovest, per “vedere la Frontiera prima che essa scompaia” (“Balla Coi Lupi”, citazione dal film) sebbene quel momento nel 1864 sia ancora lontano.
Il primo impatto del soldato con le Grandi Pianure ne determina inconsciamente una sorta di innamoramento. “Tutto era immenso. Quel vasto cielo azzurro senza una nube. Quell’oceano d’erba che ondeggiava nel vento. Null’altro, fino dove riusciva a spingere lo sguardo. Non una pista, non una traccia di solchi lasciati da altre ruote che il carro potesse seguire. Solo lo spazio, assoluto e vuoto.” (Michael Blake, “Balla Coi Lupi”, Sperling & Kupfer Editori, Milano, p. 7). La descrizione richiama alla mente quella contenuta in un celebre libro di A.B. Guthrie jr., già autore de “Il grande cielo” e vincitore nel 1950 del Premio Pulitzer per la narrativa: “Evans…credeva di conoscere già quello che stava per vedere. Non poteva credere che la pianura potesse essere tanto pianura, che esistesse una distanza così grande, e che il cielo raggiungesse un’altezza così vertiginosa e il mondo fosse tanto vuoto.” (A.B. Guthrie jr., “The Way West”, William Sloan Associates, New York, 1949, p. 93).
Dalla meraviglia della prima scoperta, Dunbar passa ad un secondo stadio, nel quale le sensazioni fisiche si fanno più intense, facendogli “pulsare il cuore in un modo strano e profondo” e inducendolo a lasciare che “il suo corpo fluttuasse insieme con la prateria, i suoi pensieri concentrati sui battiti del suo cuore” (Blake, op. cit., p. 7) fino a quando non ha la consapevolezza che qualcosa in lui è cambiato per sempre: “Il tenente Dunbar era innamorato. Si era innamorato di questa terra splendida e selvaggia e di tutto ciò che vi era in lei. Era il genere d’amore che si sogna di provare con le altre persone: privo di ogni egoismo e di ogni dubbio, reverente e duraturo.” (Blake, op. cit., p. 8).
La solitudine iniziale del soldato, dopo la scoperta che il forte è stato evacuato dalle truppe a sua insaputa, si trasforma in una sorta di meditazione, di dialogo con l’ambiente ancora primitivo che lo circonda, con il proprio cavallo Cisco e con un lupo isolato, da lui battezzato Due Calzini per lo strano disegno delle sue zampe anteriori, che viene puntualmente a fargli visita. Il suo nome – Balla-Coi-Lupi – gli verrà affibbiato dai Sioux per averlo visto danzare intorno al fuoco insieme al suo nuovo amico a quattro zampe. Tutto, ad un certo punto, assume i risvolti di una dimensione magica, che l’America civilizzata ha ormai cancellato, nella quale Dunbar si sente rinato ad una nuova vita. “Ciò che gli poteva mancare era nulla in confronto a ciò che aveva” scrive Blake nel suo libro “La sua mente era libera. Non c’era divisione fra dovere e piacere. Tutto era uguale e non lo trovava per niente noioso. Era separato ed era tutt’uno allo stesso tempo. Era una sensazione meravigliosa.” (Blake, op. cit., p. 49).
La magia si completa nel momento in cui il giovane ufficiale entra in contatto con gli Indiani – i Comanche nel romanzo, i Lakota Sioux nel film – facendo amicizia con loro e aiutandoli perfino a cacciare il bisonte e a fronteggiare i nemici Pawnee, fornendo le armi da fuoco alla gente di Uccello Scalciante (Graham Greene) padre adottivo di Christine, una ragazza bianca rimasta orfana e ribattezzata Alzata-Con-Pugno che diventerà la compagna di Dunbar. Diventato ormai un Pellerossa, dopo avere vissuto un periodo idilliaco nello scenario delle Grandi Pianure, il “rinnegato” dovrà vedersela con i soldati americani, che irrompono nella quiete della sua nuova esistenza, catturando lui e uccidendo il suo lupo per puro divertimento.
Forse in nessun altro film l’odio dello spettatore si fa più feroce nei confronti degli invasori in divisa blu: uno di essi usa le pagine del diario illustrato di Dunbar come carta igienica, sicchè anche la prova della buona fede dell’ufficiale nella sua scelta viene soppressa. L’abbattimento del povero lupo, che tenta invano di seguire le tracce del suo amico è quanto di più drammatico e struggente sia mai stato mostrato sugli schermi. La vendetta armata dei Sioux contro i militari e la liberazione del prigioniero saranno dunque accolte come un gesto liberatorio dal pubblico. Dunbar rimane a vivere con gli Indiani, dividendone gli ultimi momenti di libertà intorno ai fuochi da campo, mentre la neve ha reso temporaneamente intransitabili ai Bianchi tutte le piste. “Fu un inverno” conclude amaramente Blake “da trascorrere sotto le coperte di pelli di bisonte…La gente passò così tanto tempo attorno ai fuochi che la stagione divenne nota come l’inverno-dai-molti-fumi.” (Blake, op. cit., p. 304)
Tornata la primavera, la libertà degli Indiani dura ancora poco, nonostante che la tribù si tenga lontana dagli avamposti militari e dai sentieri battuti dai Wasichu, la gente dalla pelle chiara, “ma una marea umana, una marea che non potevano né vedere né udire, stava montando all’Est. Presto, si sarebbe abbattuta su di loro…Il loro tempo stava per finire e presto se ne sarebbe andato per sempre.” (Blake, op. cit., p. 304).
APOTEOSI DEL WESTERN
“Balla Coi Lupi” viene prodotto dallo stesso Costner insieme a Jim Wilson, con la sceneggiatura di Michael Blake, l’ottima fotografia di Dean Semler e una stupenda colonna sonora di cui è autore John Barry, vincitore all’epoca di 4 Oscar (fra cui quelli per le musiche de “La mia Africa” e “Il leone d’inverno”) e nuovamente candidato all’Academy Award, che si aggiudicherà per la quinta volta. Gli effetti speciali sono curati da Robbie Knott e la scenografia da Jeffrey Beechroft. Protagonista, oltre che regista, è Kevin Costner, affiancato da Mary Mc Donnell (Christine/Donna-Alzata-Con-Pugno) Graham Greene (Uccello Scalciante) e Rodney A. Grant (Vento Nei Capelli, un amico di Dunbar) mentre la parte di Christine bambina viene assunta da Annie Costner, una figlia del protagonista.
Girato per la maggior parte nel South Dakota, anche nelle Black Hills e nelle Badlands, con qualche sequenza nel Wyoming, ha a disposizione un budget di 22 milioni di dollari. La resa commerciale supera ogni più rosea previsione, totalizzando addirittura 424 milioni di dollari: chi pensava che il western fosse ormai tramontato, ha una smentita clamorosa. E’ pur vero che, fra le varie osservazioni, vi è pure quella che “Balla Coi Lupi” non sia un vero western, ma un’allegoria di altre situazioni di scottante attualità nel mondo, in difesa di minoranze perseguitate o discriminate, quali per esempio i Palestinesi senza una patria. Chi sostiene simili argomenti ricade nel medesimo errore già commesso ai tempi di “Soldato Blu” e di “Nessuna Pietà per Ulzana”, forzatamente accostati alla campagna americana nel Vietnam.
Come per altri film del passato destinati alla cineteca in quanto riconosciuti tardivamente dei capolavori – come “Sentieri selvaggi” – non mancano per “Balla Coi Lupi” lo scetticismo di alcuni critici e le obiezioni non sempre fondate. La verità è che Costner si era gettato a capofitto nella realizzazione di quest’opera con un entusiasmo e una convinzione eccezionali, da vero trascinatore, contribuendo a determinarne il travolgente successo a livello planetario. Poco rilievo assumono perciò i pareri discordanti, incentrati soprattutto sulla scarsa attendibilità di certe sequenze, come quella in cui Uccello Scalciante e la moglie “parlano a letto del futuro della loro figlia adottiva ‘Alzata Con Pugno’ come se si trattasse di una qualsiasi coppia di tranquilli coniugi delle nostre metropoli” (Roberto Lasagna, “Il cinema americano degli anni Novanta”, Graphos, Genova, 1996, p. 58). Lo stesso critico sbaglia laddove afferma, con un’analisi discutibile, che “al grande successo di ‘Balla Coi Lupi’… è forse riconoscibile il solo merito di avere reso più legittimi alcuni incassi degli anni a venire, da quello de ‘Gli spietati’ a quello de ‘L’ultimo dei Mohicani’” (Lasagna, op. cit., p. 57).
Più aderente la diagnosi di Pino Farinotti: “L’attore regista riesce a richiamare il mito…Riesce nella suggestione del rapporto coi pellerossa e coi lupi. E riesce nel grande ritorno generale al sentimento del western. E tutto questo è riconosciuto dalla pioggia di Oscar.” (Pino Farinotti, “Dizionario dei film western”, Sugarco Edizioni, Varese, 1993, p. 15). Va anche tenuto conto che alcuni giornali americani avevano definito Costner, una volta conosciuto il suo progetto (che quasi nessun produttore era disposto a realizzare) un “primitivo” e un “incapace”. Per contro, il giornalista Hal Hinson del “Washington Post”, ribatte ai detrattori di Costner che “quello dell’attore è stato uno dei più impressionanti e convincenti esordi alla regia che la storia del cinema ricordi.” (“I capolavori del Western – Balla Coi Lupi”, De Agostini, Novara, 2001, p. 1).
Quali dunque gli ingredienti che hanno determinato un simile exploit?
Innanzitutto il ritorno al più classico degli scenari che hanno determinato la fortuna del genere. Il western, per quanto si voglia tentare di sottilizzare sui suoi ingredienti, è soprattutto un filone in cui compaiono i più antichi abitatori dell’America, che li si voglia chiamare Indiani, Pellirosse, Amerindi oppure, come si usa oggi con maggior rispetto, “nativi”. In proposito, Leslie Fiedler è stato più che esplicito in un suo celebre saggio, sostenendo che “è la presenza dell’Indiano a caratterizzare il West mitologico”…Al nocciolo del western non vi è la lotta con un ambiente nuovo e ostile…ma l’incontro con l’Indiano, quell’individuo a noi del tutto estraneo per cui il Nuovo Mondo è una vecchia dimora…(Leslie A. Fiedler, “Il ritorno del Pellerossa. Mito e letteratura in America”, Ugo Guanda Editore, Parma, 2011, p. 33). Dopo anni di sfide, duelli, torture gratuite, ammazzamenti in massa, il pubblico dal palato un po’ più fine era alla ricerca di un’avventura dai contenuti meno violenti ed esasperati.
Ormai la città assolata costruita su uno sfondo desertico, la rissa nel saloon e le sparatorie in serie non erano più appaganti, così come non lo erano più le storie affollate di desperados messicani che si scontrano con i gringos per un carico d’oro o una manciata di dollari. Blake ha narrato l’avventura di un giovane ufficiale che, al pari di John Morgan (“Un uomo chiamato Cavallo”) viene fagocitato dal misterioso mondo del Pellerossa, che molta gente delle grandi città dell’Est conoscono soltanto attraverso i romanzi di James Fenimore Cooper. “Balla Coi Lupi” rappresenta inoltre la fusione fra l’Americano ancestrale e quello importato dalla vecchia Europa, concetto che ha un robusto fondamento storico nelle pagine della conquista del West: l’origine della multietnicità delle popolazioni dell’Ovest, mescolatesi, per esigenze oggettive, con gli abitanti originari delle terre colonizzate. E’ la storia dei vari Hugh Glass, Jim Bridger, Jim Baker, James Beckwourth, Kit Carson, William Bent e di molti altri protagonisti dell’epoca della Frontiera, che per loro libera scelta vissero a stretto contatto con le tribù indiane. Non è dunque fuori luogo l’avvertimento di Fiedler: “Discenda da Ebrei dell’Europa orientale o da Irlandesi di Dublino…chiunque pensi di essere in qualche modo americano sente agitarsi dentro di sé una seconda anima, l’anima del Pellerossa.” (Fiedler, op. cit., p. 5).
Secondariamente, va riconosciuto che la presenza dell’Indiano in un film western ha un fascino che non può essere sostituito da quello di nessun bounty killer, nè sceriffo o spietato fuorilegge offerti dal genere in misura sicuramente eccessiva negli ultimi decenni. Per convincersi di ciò basta richiamare alla memoria l’incombente minaccia degli Apache in “Ombre rosse”, dei Comanche del capo Scar in “Sentieri selvaggi” e di nuovo degli Apache ne “L’ultima carovana” di Delmer Daves: presenze a volte quasi impalpabili eppure reali, simboli di un mondo diverso che esiste dietro le trionfali marce dei reparti di cavalleria, del cammino delle carovane verso l’Oregon e dei solitari esploratori che si muovono con grande circospezione fra praterie e canyon, colline e distese desertiche. L’imprescindibile peso del Pellerossa in una storia di stampo western è già stato sottolineato in decine di lavori cinematografici commentati in questa rassegna: fra gli ultimi, proprio quel “Io, grande cacciatore” nel quale il figlio della natura selvaggia del West si prende lungamente gioco del cacciatore, rubandogli il cavallo preferito e lasciandogli l’ironico omaggio di una donna bianca stuprata e del proprio disprezzo.
“Balla Coi Lupi” sembra ribadire, in varie scene, questa superiorità dell’uomo primitivo sull’elemento civilizzato, ma mostra un approccio diverso e possibilista, che purtroppo non andrà a buon fine a causa dell’ottusa reazione del conquistatore bianco. La distruzione del Pellerossa segnerà anche il destino dell’Americano che ne ha ereditato in parte costumi e mentalità, l’elemento solitario e un po’ ribelle alle convenzioni costituito dal cowboy e dal cavaliere errante.
RECORD DI PREMI
Come si è anticipato parlando del film, “Balla Coi Lupi” riesce a totalizzare una sfilza sorprendente di premi, dagli Academy Award, ai Golden Globe, ai BAFTA e ai National Board Review Award, record che non sarà mai più superato né eguagliato nella storia del cinema western.
Le nomination all’Oscar sono 12, le statuette conquistate ben 7: miglior film a Jim Wilson e Kevin Costner; miglior regia a Kevin Costner; miglior sceneggiatura non originale a Michael Blake, autore del romanzo; miglior fotografia a Dean Semler; miglior montaggio a Neil Travis; miglior sonoro a Russell Williams II, Jeffrey Perkins, Bill W. Benton e Gregory H. Watkins; miglior colonna sonora a John Barry. Sono da menzionare anche le designazioni di Costner quale miglior attore protagonista, di Graham Greene come miglior attore non protagonista, di Mary McDonnell (miglior attrice non protagonista) della miglior scenografia (Jeffrey Beecroft e Lisa Dean) dei migliori costumi (Elsa Zamparelli, che si segnalerà anche nel successivo “L’ultimo dei Mohicani” di Michael Mann).
Il film di Costner si aggiudica pure 3 Golden Globe su 7 nomination (miglior film drammatico, miglior regia e miglior sceneggiatura) e nel 1992 ottiene 11 candidature al Premio BAFTA. Il National Board of Review Award gli assegna 3 riconoscimenti (miglior film, miglior regia, “top ten”, cioè uno fra i migliori 10 film). Al Festival di Berlino del 1991, Costner ottiene la nomination all’Orso d’Oro, ma vince l’Orso d’Argento speciale.
Dopo questa esperienza, il western mette nuovamente le ali, rispolverando romanzi della tradizione, personaggi ed episodi storici ripresentati seguendo i canoni del revisionismo, ma non sempre con esiti gratificanti.
Un marpione come Clint Eastwood si accontenterà più avanti di ripescare dal letargo il suo cavaliere solitario (“Open Range”) animato anche questa volta da nobili sentimenti dopo avere sepolto un passato criminale che fa inorridire.