Gli oscar del cinema western – 5
A cura di Domenico Rizzi
Tutte le puntate: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36.
APPROCCI ALLA STORIA
Robert Aldrich tornò a far parlare di sè nello stesso anno de “L’ultimo Apache” con un altro film che da molti viene considerato il suo capolavoro: “Vera Cruz”. Western “messicano”, in quanto si svolge interamente oltre confine con la presenza di numerosi gringos al servizio di Massimiliano d’Asburgo, imperatore del Messico, è tratto da un racconto di Borden Chase, i cui lavori sono solitamente una garanzia di successo.
I protagonisti, il “colonnello” Ben Trane (Gary Cooper) e l’avventuriero Joe Erin (Burt Lancaster) inizialmente nemici lottano per impossessarsi di un favoloso tesoro diretto a Vera Cruz per essere imbarcato su una nave e alla fine si affronteranno in un mortale duello, dopo che Trane ha abbracciato la causa giusta.
Durante il racconto, si assiste infatti ad una trasformazione di quest’ultimo, un ex ufficiale confederato rifugiatosi nel Messico occupato dalle truppe francesi che sostengono il sovrano austriaco. La rivoluzione di Benito Juarez riuscirà alla fine ad attrarre il gringo dalla sua parte, anche per merito della scatenata fanciulla messicana Nina (Sara Montiel) una ladruncola redenta dall’amore.
Fra i 44 western distribuiti nel 1954, degni di menzione ma non esaltanti furono anche “La lancia che uccide” di Edward Dmytryk, “Il prigioniero della miniera” di Henry Hathaway e “Le Giubbe Rosse del Saskatchewan” dell’indomabile Raoul Walsh. Quest’ultimo è uno dei pochi film ad occuparsi dei Sioux di Toro Seduto dopo la loro fuga in Canada, pochi mesi dopo avere distrutto il Settimo Cavalleria del generale Custer.
Nel 1955 Hollywood sforna western a raffica, addirittura 47, tentando qualche film a sfondo storico e biografico, ma senza troppo entusiasmo. Fra questi vanno annoverati: “I due capitani”, di Rudolph Matè, fantasiosa ricostruzione della spedizione di Lewis e Clark, che offre il pretesto ad una improbabile love-story fra l’indiana Sacajawea (Donna Reed) e il tenente William Clark (Charlton Heston); “Furia indiana” di George Sherman, leggendaria quanto artefatta biografia del condottiero Cavallo Pazzo (Victor Mature); “La strage del Settimo Cavalleggeri” di Sidney Salkow, ennesima e non ultima riproposizione della celebre battaglia del Little Big Horn, imperniata tuttavia sulla figura di un ufficiale immaginario, il maggiore Robert Parrish (Dale Robertson) che cerca di scongiurare lo scontro fra l’esercito guidato da Custer (Douglas Kennedy) e i Sioux di Toro Seduto (J. Carrol Naish) e Cavallo Pazzo (Iron Eyes Cody).
Lo stesso anno Frank Lloyd dirige un film, che merita maggiore considerazione, sulla resistenza dei Texani alle truppe messicane del generale Antonio Lopez de Santa Anna, avvenuta nel 1836. Intitolato nella versione inglese “The Last Command” e “Alamo” in quella nazionale, vi compaiono molti personaggi storici, quali Davy Crockett (Arthur Hunnicutt) Jim Bowie (Sterling Hayden) William B. Travis (Richard Carlson) il generale Santa Anna (J. Carrol Naish) il tenente Dickinson (John Russell) sua moglie (Virginia Grey) e Sam Houston (Hugh Sanders). Sceneggiato da Warren Duff, venne definito “un western storico senza enfasi” (Morandini) per la sua sostanziale aderenza ai fatti senza i soliti trionfalismi. Le scene di massa, soprattutto il combattimento finale, adeguatamente sostenuti dalla buona scenografia di Frank Arrigo e dalla fotografia di Jack A. Marta, ne fanno un film pregevole sotto molti aspetti, sebbene non ritenuto degno di attenzione da parte della critica.
Anche “L’arma che conquistò il West” di William Castle tenta un aggancio storico con la guerra che insanguinò il Wyoming dal 1865 al 1868, con i Sioux di Nuvola Rossa (Robert Bice) e Uomo Spaventato dai Suoi Cavalli (Michael Morgan) schierati da una parte e i soldati del colonnello Henry Carrington (Roy Gordon) supportati dall’esploratore Jim Bridger (Dennis Morgan) dall’altra. Il riferimento del titolo, tradotto fedelmente dall’inglese, è naturalmente al fucile a retrocarica Springfield modello Allin, di cui la guarnigione di Fort Philip Kearny venne dotata dopo una serie di insuccessi militari. Come il film che lo aveva preceduto nel 1951 – “Tomahawk”, diretto da George Sherman, che presentava una ricostruzione del tutto inattendibile del massacro Fetterman – il nuovo tentativo risulta infruttuoso e poco osservante della reale dinamica degli eventi.
Ma gli approcci alla storia rappresentano in generale l’anello più debole della catena dei western, che si esprimono assai meglio elaborando i soggetti letterari di narratori di fama come Bellah, L’Amour o Max Brand. Il difetto maggiore dei film che ricalcano eventi o presentano personaggi della Frontiera rimane quello di dare ascolto, più che alle cronache reali, alla leggenda, problema che non sarebbe stato superato neppure con il revisionismo degli Anni Sessanta e Settanta. In secondo luogo, questi film non riescono mai ad affrancarsi completamente dai luoghi comuni della tradizione: se Davy Crockett o Kit Carson vengono immancabilmente descritti come eroi, Custer fa quasi sempre la figura dell’ambizioso sterminatore di Indiani e nessun giudizio appare più lontano dalla verità.
MANN E WALSH IN SELLA
Nel 1955 Anthony Mann presenta due delle sue opere migliori: “Terra lontana” e “L’uomo di Laramie”, entrambi con James Stewart quale protagonista principale.
Il primo sposta il campo d’azione in una regione non troppo abituale per il western, l’Alaska, dove è in corso la febbre dell’oro di fine Ottocento, alla quale prenderanno parte personaggi storici famosi quali l’ex sceriffo Wyatt Earp e il futuro scrittore Jack London. Jeff Webster (Stewart) e il suo socio Ben Tatum (Walter Brennan) che intendono scortare una mandria di bovini fino al Klondike per assicurare carne ai cercatori, incappano nello sceriffo Gannon (Ben Mc Intire) che sequestra loro il bestiame, costringendoli ad accettare l’offerta di lavoro di Rhonda (Ruth Roman) intenzionata ad aprire un saloon a Dawson City. Dopo avere raggiunto il turbolento centro minerario, dove imperversano banditi e disonesti di ogni genere, i due amici dovranno vedersela di nuovo con Gannon, deciso ad impadronirsi della città. Mentre nasce una nuova storia d’amore fra Jeff e la giovane Renèe Vallon (Corinne Calvet) si fa inevitabile lo scontro finale con Gannon, che perirà insieme a Rhonda, uccisa accidentalmente nel tentativo di salvare la sua antica fiamma.
Come già nei suoi precedenti western, l’elemento drammatico e l’aria da tragedia sono presenti anche in questo lavoro di Mann, soltanto che ora a farne le spese, anziché il protagonista, è “Rhonda Catle, elegante signora di San Francisco che, lasciata senza un soldo dal marito, si getta sulla pista dell’oro non come cercatrice, bensì come tenutaria di locali di gioco. Ella però non è solo una donna d’affari, ma anche una bella e spregiudicata mangiatrice di uomini: non le riesce difficile far innamorare di sé lo scontroso Jeff Webster, per amore del quale… sacrificherà la propria vita.” (Matteo Pollone, “Il western di Anthony Mann”, Le Mani, Recco Genova, 2007, pp. 79-80). Avventura e melodramma convivono dunque perfettamente in questo film, dando vita ad un western da antologia, abilmente sceneggiato dal grande Borden Chase e gratificato da 2 milioni e mezzo dollari d’incasso del quale James Stewart se ne assicurò 300.000. Avara invece, ancora una volta, la critica, che non attribuirà mai alcun premio alle pellicole western dirette da Mann. Pare tuttavia condivisibile il giudizio che “Terra lontana” sia “un film straordinariamente ricco e inventivo, capace di giustificare l’entusiasmo di chi lo ha definito ‘il più bel western del cinema americano’” (Aldo Viganò, “Storia del cinema western in cento film”, Le Mani, Recco Genova, 1994, p. 103).
Insieme a “Terra lontana”, Mann diresse “L’uomo di Laramie”, sceneggiato da Frank Burt e Philip Yordan, quest’ultimo autore dello screenplay di “Johnny Guitar”. Anche questa volta il regista scava nella composizione del nucleo famigliare di Alec Waggoman (Donald Crisp) ricco proprietario terriero che ha tre figli assai diversi fra loro. Essendo l’uomo ormai prossimo alla cecità, si preoccupa della successione, ma nessuno degli eredi sembra in grado di subentrargli degnamente. Quando capita in città Will Lockart (James Stewart) sulle tracce degli assassini di un fratello, i conflitti esplodono, perché Vic (Arthur Kennedy) fattore di Waggoman, è in combutta con un figlio di quest’ultimo, Dave (Alex Nicol) in un traffico d’armi con gli Apache. Lo scontro finale si risolve tutto a favore del nuovo arrivato, che fa innamorare la bella Barbara (Cathy O’Donnell) dopo la fine dei pericolosi trafficanti, eliminatisi fra loro e con la mano degli Indiani. Anche Will Lockart è, in definitiva, un cavaliere solitario e la sua apparizione “porta lo scompiglio e fa affiorare il marcio, per poi ritornare là da dove è venuto…più che da Laramie dal deserto e dal nulla.” (Pollone, op. cit., p. 54). Girato con la tecnica del Cinemascope per meglio sfruttare l’ampiezza e l’intrinseca bellezza degli spazi, “L’uomo di Laramie” sfondò anche al botteghino, sfiorando i 3 milioni e mezzo di dollari di incasso, pur senza alcuna candidatura a premi.
Nel 1955 è ancora Raoul Walsh a dire la sua con un film piacevole e ben interpretato, dallo strano titolo di “The Tall Men”, doppiato in Italia come “Gli implacabili”. Ne sono protagonisti tre attori collaudati come Clark Gable (già interprete del trapper Flint Mitchell in “Il cacciatore del Missouri” di William A. Wellman nel 1951) Robert Ryan e la maggiorata Jane Russell, che tanto scandalo aveva dato, seppure involontariamente, ne “Il mio corpo ti scalderà” per la generosità delle sue forme. Senza mirare a grandi traguardi, ma con l’obiettivo di ricamare un buon film d’azione secondo gli intendimenti di Walsh (“Azione, azione, azione, questo il tema dei miei primi film, e di quelli che hanno successo oggi”, scrive Ermanno Comuzio in “Raoul Walsh”, La Nuova Italia, Firenze, 1982, p. 7) con la spettacolarità scenica che piace al regista, costruito intorno ad una storia sentimentale, realizza ottimi incassi (6 milioni di dollari) dopo averne spesi poco più di 3. Gable (Ben Allison) è un allevatore che deve condurre una mandria da San Antonio al Montana, si innamora strada facendo di una ragazza all’apparenza frivola di nome Nellie (Russell) che gli preferisce l’affarista Nathan Stark (Ryan) per poi tornare sui suoi passi nel finale, optando per il romantico Ben piuttosto che per il ricco Stark. Anche in questo film è presente la filosofia di fondo di Walsh, che vuole il suo protagonista combattivo “contro tutte le forze avverse” (Comuzio, op. cit., p. 76) ma emerge in maniera determinante il ruolo della donna, perché Nellie “è un tipo ambizioso, una vera e propria arrampicatrice sociale, una che viene dalle classi povere ma è ben decisa a far soldi e a ‘sistemarsi’. Sogna in grande, e non le vanno bene i piccoli desideri di Ben, al quale basta ritirarsi in un angolo del Texas, a condurre una fattoria.” (Comuzio, op. cit., p. 97). Alla fine però il sentimento prevale sulla megalomania delle sue aspirazioni e un piccolo ranch in una sconosciuta località di nome Prairie Dog le scalda il cuore più delle ricchezze di Stark.
SENTIERI SELVAGGI
Il 1956 si annunciò con una serie di film che diedero al western una connotazione sempre più precisa, ma molti di essi non ottennero immediati riconoscimenti, risultando poi, a distanza di decenni, fra le migliori espressioni del loro genere.
Uno di questi è “The Searchers”, che soltanto in Italia ebbe un titolo stuzzicante: “Sentieri selvaggi.” In Francia venne distribuito come “La prisonniere du desert”, che faceva supporre una storia ambientata nel Sahara, con la Legione Straniera alle prese con le tribù berbere, alla stregua di “Beau Geste”, indimenticato lungometraggio diretto nel 1939 da William A. Wellman con Gary Cooper e Ray Milland protagonisti. Anche la Spagna lo diffuse con il titolo inappropriato di “Centauros del desierto”, che si trasformò in un più aderente “Más corazón que odio” in Cile, Argentina e Messico.
Il soggetto era tratto da un ottimo romanzo di Alan LeMay e John Ford ne affidò la sceneggiatura al suo favorito Frank S. Nugent, mentre per la fotografia scelse ancora Winton Hoch, vincitore dell’Oscar con “I cavalieri del Nord Ovest”. Le musiche, curate da Stan Jones e Max Steiner, sono fra le migliori che abbiano mai supportato un western.
Per la selezione del cast non vi furono troppi problemi: John Wayne, finalmente considerato un grande attore anche da Ford dopo gli elogi sperticati di Howard Hawks, venne prescelto come protagonista principale nella parte di Ethan Edwards; Jeffrey Hunter vestì i panni di Martin Pawley, un suo nipote mezzosangue acquisito; Ward Bond quelli del reverendo-capitano Clayton dei Texas Ranger in perenne dissidio con Ethan sulla strategia da seguire per liberare gli ostaggi; Henry Brandon fu acconciato ad hoc per impersonare Scar, l’enigmatico quanto inafferrabile capo dei Comanche. La famiglia Edwards fu composta con Walter Coy (Aaron, fratello di Ethan) Dorothy Jordan (Martha, moglie di Aaron) Pippa Scott (Lucy, la figlia maggiore) e Natalie Wood (Debbie, la figlia minore). Gli Jorgensen, abitanti nella fattoria più vicina, comprendevano Laurie (Vera Miles) il fratello Brad (Harry Carey jr.) il padre Lars (John Qualen) e la madre Maria (Olive Carey). Charlie Mc Corry, corteggiatore di Laurie venne interpretato da Ken Curtis; il vecchio Mosè, un vagabondo un po’ folle, da Hank Worden e il trafficante Futterman da Peter Mamakos.
L’ambientazione fu decisa prevalentemente nella Monument Valley, con sequenze girate anche ad Aspen, nel Colorado, e Edmonton, nell’Alberta canadese. I tempi di lavorazione furono relativamente brevi, concentrati fra i mesi di giugno e agosto 1955 per complessivi 50 giorni. La vicenda, seppure con delle modifiche soprattutto nel finale, ricalca le righe dell’opera di LeMay, che è un monumento alla figura del cavaliere solitario. Almeno nel film, Ethan Edwards, ricomparso a casa del fratello Aaron nel 1868, se ne andrà alla fine da solo com’è arrivato. Non è una figura positiva, così come non lo erano all’inizio il Ringo Kid di “Ombre rosse” e il rapinatore Robert Hightower – sempre Wayne – de “In nome di Dio”, diretto dallo stesso Ford nel 1948. Si tratta semmai di uno dei soggetti negativi destinati al riscatto personale, seguendo una filosofia molto cara al regista.
Ethan ha collezionato soltanto sconfitte nella sue esistenza: combattendo per il Sud nella guerra di secessione ne è uscito perdente, così come un’altra delusione gli ha riservato il suo appoggio a Massimiliano d’Asburgo imperatore del Messico, catturato e fucilato dai guerriglieri di Benito Juarez nel 1867. Sul piano famigliare e sentimentale non sembra che ad Ethan sia andata meglio, dal momento che l’amata Martha ha sposato alla fine suo fratello Aaron. Quando i Noyeki-Comanche del capo Scar distruggono la fattoria degli Edwards, uccidendo i due genitori e catturando le loro figlie, per Ethan si apre un nuovo, doloroso capitolo. Se Lucy, fidanzata di Brad Jorgensen, viene trucidata dagli Indiani poco tempo dopo la cattura, per la bambina Debbie si profila un futuro di squaw asservita ai voleri del suo carceriere come una schiava. Per questo il cavaliere solitario non vede altra soluzione che ritrovarla, maturando la crudele determinazione di ucciderla per evitarle una sorte tanto infame.
Una simile trama non poteva che urtare la critica filo-pellerossa, sempre pronta a tacciare di razzismo opere di questo genere, che tuttavia si basano soltanto su verità storiche incontestabili: per una donna bianca – oppure dalla pelle rossa, catturata a tribù nemiche – cadere nelle mani di un Indiano, significava, salvo rare eccezioni, diventare una delle sue concubine, subendone le violenze per anni. Non a caso Ford inserisce nel suo film la scena raccapricciante delle due “Indiane bianche” – poco più che bambine o adolescenti – recuperate dall’esercito nel corso di un’operazione militare. Ormai ridotte alla follia, come dimostrano i loro sguardi esaltati, esse lanciano urli disumani e strilli infantili contendendosi una bambola di pezza come se fosse qualcosa di prezioso.
Sotto questo aspetto “Sentieri selvaggi” si presenta anche come film-denuncia per coloro che pensano ancora agli Indiani soltanto come vittime di un progresso spietato nei loro confronti. In effetti molti episodi storici dimostrano come spesso le stesse donne pellirosse preferissero diventare mogli di un uomo bianco piuttosto che di uno della loro razza. Questo, scrive il capitano Louis L.E. De Bonneville, esploratore e guida di carovane nel West, per “la dolcezza con cui la tratta, i begli abiti con cui la impreziosisce, la condizione in cui ella si muove… invece di essere la donna di fatica e la schiava di un marito indiano, costretta a trasportare le sue cose, a costruire la sua tenda, ad accendergli il fuoco e a subire i suoi malumori e le sue percosse.” (Washington Irving, “The Adventures of Captain De Bonneville”, New York, 1885, p. 339). Come scrive anche Alexander Henry, cacciatore di pellicce e commerciante, “per pochi centimetri di tabacco, un Gros Ventre (tribù linguisticamente affine agli Arapaho) ti darebbe in cambio la moglie o la figlia con la stessa tranquillità con cui baratterebbe un cavallo.” (Dee Brown, “Donne della Frontiera”, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1977, p. 262).
Tornando alla vicenda di “Sentieri selvaggi” e lasciando da parte le considerazioni espresse, la decisione di Ethan è perfettamente in linea con
la mentalità dell’uomo della Frontiera, ispirata tanto dal razzismo quanto da discriminazioni di ordine religioso: una donna che avesse subito le attenzioni sessuali di un selvaggio pagano, non poteva reinserirsi facilmente nel consesso civile. Sebbene il comportamento di Ethan, xenofobo e vendicativo, venga estremizzato dalle esigenze narrative – poiché la maggior parte delle donne rapite dagli Indiani tornarono a vivere nella società dei Bianchi, pur con tutte le difficoltà possibili e immaginabili – riflette dunque una realtà oggettiva dell’epoca del West.
Ford vi introduce però qualcosa di più: il tormento psicologico di un uomo disperatamente alla ricerca di un motivo esistenziale, che uccidendo la nipote non avrebbe più. Attraverso le sequenze del film, fra combattimenti con i Comanche, liti con Martin Pawley, inseguimenti dei rapitori nelle aride distese del Sud-Ovest e nelle praterie innevate, riaffiora in Ethan il sentimento, aiutandolo a maturare una decisione inaspettata. Quando finalmente, sconfitti gli Indiani e scotennato Scar, si troverà alle prese con una Debbie ormai cresciuta, la solleverà amorevolmente fra le braccia, dicendole: “Andiamo a casa, Debbie! ”. Subito dopo riprenderà la sua vita errabonda, spostandosi da un luogo all’altro senza mai mettere radici, come Shane (“Il cavaliere della valle solitaria”) e più tardi il Predicatore de “Il cavaliere pallido”.
“Sentieri selvaggi” contiene anche un’anticipazione delle tematiche de “L’uomo che uccise Liberty Valance”, diretto 6 anni più tardi da Ford.
Ethan Edwards si rende probabilmente conto – come farà il ranchero Tom Doniphon abbandonato dalla fidanzata che gli preferisce un avvocato dell’Est – che il West sta cambiando e agli uomini come lui, duri, intransigenti e razzisti, non resterà ben presto che farsi da parte. Il suo progressivo ammorbidimento verso il nipote Martin (che è in parte di sangue pellerossa) e soprattutto il gesto finale di riconciliazione con la ragazza rapita dai Comanche, è paragonabile al comportamento che Doniphon tiene nel saloon di Shinbone, quando impone al barista di servire il proprio servo Homer nonostante sia nero. Ford si dimostra un asso anche in simili sfumature, riuscendo a tracciare una perfetta parabola del crepuscolo del West.
La critica non comprese, al tempo dell’uscita del film, di trovarsi di fronte ad un autentico capolavoro capace di surclassare l’intera produzione western degli ultimi trent’anni. La rivista “Cinema Nuovo” lo definì addirittura “un penoso balbettamento che rivela da un lato la stanchezza del regista, dall’altro la rarefazione di quegli stessi temi che avevano formato la spina dorsale di tante opere fordiane”, aggiungendo, in tale delirante recensione, che “anche John Wayne è stanco, si direbbe stufo di lavorare con Ford.” (Jean Louis Leutrat, “Sentieri selvaggi di John Ford”, Le Mani, Recco Genova, 1995, pp. 76-77). Purtroppo, il limite di alcuni critici cinematografici rimane la scarsa o scarsissima conoscenza del West e della sua storia e il loro giudizio è spesso frutto di considerazioni che non tengono conto della realtà in cui si svolge la vicenda. In un articolo firmato da Tullio Kezich, noto esperto di cinema, Ford viene accusato di “essere caduto nella trappola della novità a tutti i costi e ci ha messo il pepe delle scene di violenza (ormai indispensabili) e le turbe psichiche dell’eroe. Talmente sottolineate da rendere il personaggio incomprensibile.” (Leutrat, op. cit., p. 75). Verrebbe invece da sottolineare, con tutto l’amore che l’autore porta a Kezich (al quale ha dedicato il libro “I cavalieri del West”, scritto in collaborazione con Andrea Bosco nel 2011) che, in questo caso, ad essere “incomprensibile” è proprio il critico. Analoghi giudizi, se non addirittura peggiori, furono formulati in Francia attraverso “Le Cahiers du Cinèma”, ai quali si aggiunse un impietoso commento del regista Francois Truffaut, che tuttavia si sarebbe ricreduto una ventina d’anni dopo.
Il tempo ha fatto giustizia di tutti i scellerati commenti e delle condanne senza appello espresse alla prima uscita di “Sentieri selvaggi”. Benchè, per i motivi elencati, non fosse entrato in alcuna classifica fino al 1972 – né tantomeno designato a qualche nomination all’Oscar – nel 2008 l’American Film Institute lo ha definito “il più grande western di tutti i tempi”, parere condiviso da illustri cineasti quali Steven Spielberg e Martin Scorsese, inserendolo al 12° posto fra i migliori film di ogni epoca.
Se è lecito discutere in questa sede degli Oscar non attribuiti a molti film che possedevano dei meriti palesi, andrebbe rilevato che l’opera di Ford ne avrebbe dovuti ottenere almeno 3: per il miglior attore protagonista Wayne, per la fotografia e per le musiche. Ma Wayne fu per molti anni inviso alla critica – si ritiene per le sue posizioni politiche molto estreme, che lo portarono ad approvare l’intervento americano nel Vietnam – che gli avrebbe già dovuto attribuire il premio per la parte del capitano Brittles ne “I cavalieri del Nord-Ovest”.
Sempre da “Sentieri Selvaggi”
La concessione nel 1970 dell’Oscar alla sua carriera, per “Il Grinta” diretto da Henry Hathaway, assume perciò il triste significato, più che di un riconoscimento postumo, di una parziale riparazione dei torti fatti ad un attore eccezionale.
Una considerazione particolare meritano, oltre al tema musicale conduttore del film, soprattutto le canzoni eseguite in particolari momenti, tutti motivi classici dell’epoca dei pionieri, quali “Shall we gather at the river” (composto da Robert Lowry nel 1864) e “Skip to my Lou” (canzone popolare della prima metà dell’Ottocento).
“Sentieri selvaggi” realizzò, nonostante gli strali indiscriminati ricevuti anche negli Stati Uniti, quasi 4 milioni di dollari. Dunque, trattandosi di un film largamente screditato, fu un successo anche sotto questo punto di vista.
Rimane a tutt’oggi, indiscutibilmente, il padre di tutti i western.