I Paiute del Nevada
A cura di Pietro Costantini
La tribù dei Paiute.
La vasta sezione dell’altopiano occidentale nord-americano compresa fra il Colorado, la Sierra Nevada e il fiume Snake prende il nome di Great Basin, Gran Bacino. È una delle regioni più aride e squallide di tutta l’America settentrionale, elevata in media fra 1.000 e 1.500 metri, percorsa da brulle catene montuose che scendono da nord verso sud, e fra le cui pieghe, sul bordo più occidentale, si raccolgono alcuni laghi di origine glaciale: il Pyramid, il Walker, il Tahoe, il Mono.
Il clima è di tipo continentale, con scarse precipitazioni piovose, poiché la formidabile barriera della Sierra Nevada – che raggiunge i 4.418 metri d’altitudine col Monte Whitney – fa da scudo alle nuvole portatrici di pioggia provenienti dall’Oceano Pacifico. D’inverno le nevicate sono abbondanti e la temperatura è molto rigida. La vegetazione è magra e stentata: la maggior parte del Gran Bacino è un deserto vero e proprio, ove è impossibile qualsiasi forma di agricoltura.
Guerrieri Paiute – 1850
Le condizioni di vita sono perciò, ovunque, estremamente difficili, anche ai piedi della grande Sierra che corre per 700 km. lungo il margine dell’altopiano. Le sue pendici sono tanto dolci e splendide di vegetazione sul versante della California, caratterizzate dalle maestose sequoie e da numerose specie di tipo alpino, quanto ripide, spoglie e desolate su quello interno. Essa costituisce una formidabile barriera naturale fra il mondo californiano, con le sue fertili vallate dal clima mediterraneo, e l’inclemente altopiano interno. Storicamente, le tribù indiane stanziate sugli opposti versanti della Sierra Nevada vissero sempre in un reciproco isolamento: nonostante la vicinanza geografica, esse appartennero a due mondi culturali separati.
Le culture del Grande Bacino
La parte centrale del Gran Bacino è occupata dallo Stato del Nevada, vasto quasi quanto l’Italia (286.297 kmq.), ma che è ancor oggi, nell’era delle comunicazioni aeree e della moderna agricoltura irrigua, il meno popolato dell’Unione, dopo l’Alaska, con una popolazione di 592.000 abitanti, e una densità media di 1,5 abitante per chilometro quadrato. Gli Indiani viventi nel Nevada erano 6.681 nel 1960, un numero senza dubbio inferiore a quello precedente l’arrivo dell’uomo bianco, appartenenti principalmente alla tribù dei Paiute. Oggi sono concentrati nelle riserve di Pyramid Lake, Walker River, Summit Lake, Western Shoshone e Goshute, ed in altre più piccole, mentre un tempo vivevano sparsi un po’ dovunque e si spostavano continuamente alla ricerca di cibo.
La religione della Danza degli Spettri sorse fra i Paiute ed è quindi necessario soffermarsi a considerare chi erano, come vivevano, qual era il loro livello di civiltà materiale e spirituale nel XIX secolo.
I Paiute (o, secondo altre grafie, Pahute o Piute) appartengono alla grande famiglia delle lingue uto-azteche, diffusa dal Messico meridionale all’estremità nord del Gran Bacino; e, più precisamente, alla sotto-famiglia linguistica degli Shoshoni. Quest’ultima comprende, oltre ai Paiute, gli Shoshoni propriamente detti, gli Ute e i Comanche. Gli Ute, a loro volta, si differenziano in Ute e Gosiute, mentre il suffisso -ute ci informa che gli stessi Paiute dovettero avere strette affinità con queste popolazioni. I Bannock erano, nell’Ottocento, una importante tribù del gruppo, che fu protagonista di una notevole guerra contro i bianchi, ma in seguito vennero pressoché sommersi dall’ondata migratoria degli Shoshoni, coi quali si confusero quasi del tutto. Talvolta si nomina un’altra tribù della sotto-famiglia linguistica degli Shoshoni, quella dei Paviotso, ma essi non costituiscono, in effetti, che il ramo settentrionale dei Paiute.
Di queste tribù le più potenti e bellicose erano quelle degli Shoshoni, a nord del fiume Snake e a sud del territorio occupato dai Nez Percés, e quella dei Comanche, stabiliti inizialmente ad est degli Soshoni, nel Wyoming, donde nel corso del 1700 furono respinti verso sud, fino al Texas, dalla pressione dei Sioux. I Bannock vivevano a nord del Gran Lago Salato, i Paiute nel Nevada e nell’angolo dell’Arizona, fino al Gran Canyon del fiume Colorado. I Paiute settentrionali o Paviotso, cui apparteneva il messia Wovoka, occupavano la sezione del Gran Bacino a nord-ovest del fiume Humboldt, ossia la regione dei laghi ai piedi della Sierra Nevada.
Secondo i dati forniti dal professor Omer C. Stewart, docente di antropologia presso l’Università del Colorado, i Paiute settentrionali assieme ai Bannock contavano 8.000 individui nel 1870 (prima della “Bannock War” – la “guerra dei Bannock”) e i Paiute meridionali 2.527, per un totale di 10.527. Alla stessa data gli Ute erano 4.000, i Gosiute 256, i Comanche 4.000 (nel 1872), dati tutti precipitati tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento.
Ma chi erano i Paiute, che tipo di vita facevano, qual era la loro reputazione fra gli Indiani delle altre tribù? Abbiamo visto che abitavano una terra quanto mai ingrata e difficile, forse addirittura la più ingrata e la più difficile di tutta l’immensa regione corrispondente agli odierni Stati Uniti d’America. Sulle lande desolate del Nevada non era praticabile una agricoltura sedentaria e la stessa selvaggina era estremamente scarsa e misera. I Paiute, quindi, erano raccoglitori nomadi, e le loro principali risorse alimentari erano costituite da semi e radici commestibili, tanto che ricevettero dai bianchi l’appellativo di “diggers”, “scavatori” o, meglio, “sterratori”. La caccia era limitata alle poche specie esistenti nell’area del Gran Bacino, ossia alcuni montoni selvatici, antilocapre, ma soprattutto conigli, topi e lucertole.
Paiute del nord
Non c’erano, sul loro territorio, le grandi mandrie di bisonti; di tutto il gruppo linguistico shoshone, solo i Comanche godevano della fortuna di poter cacciare il bisonte. I più fortunati fra i Paiute erano quelli che abitavano nella zona del Grand Canyon, dove abbondavano i cervi. Questi animali servivano non solo per il fabbisogno alimentare, ma anche per fornire delle ottime camicie, pratiche e resistenti, che erano un capo d’abbigliamento pregiato; proprio come nel caso del bisonte, anche qui nulla dell’animale ucciso andava mai sprecato. Quando non trovavano alcun tipo di selvaggina vertebrata, tuttavia, i Paiute – specialmente quelli dislocati nelle zone più aride e povere di fauna – non disdegnavano di cibarsi d’insetti.
La necessità di disperdersi su un ampio raggio per non doversi contendere l’un l’altro le magrissime risorse della regione, aveva prodotto una estrema frammentazione sociale. Non v’erano tribù nel senso genuino della parola e nemmeno “clan”, ma solo piccoli gruppi d’individui eternamente vaganti alla ricerca di cibo. Come fra certe popolazioni della Nuova Guinea, dell’Artide e di altre regioni del globo ove le condizioni di vita sono durissime, non c’era posto per delle bocche inutili da sfamare. I vecchi e i bambini malati venivano frequentemente abbandonati al loro destino. La situazione era un po’ migliore per i Paviotso, stanziati presso i laghi pre-cordiglierani, come il Pyramid, ove vivevano varie specie di pesci, compreso il salmone. Questi Indiani conducevano una vita meno errabonda ed erano conosciuti presso le tribù della Prateria con il nome significativo, e non privo di una sfumatura di disprezzo, di “mangiatori di pesce.”
Wovoka nacque e predicò fra costoro. Le loro abitazioni erano quelle che ci si può aspettare da un popolo di raccoglitori nomadi in ambiente steppico semi-arido: delle miserrime capanne di cespugli intrecciati, non molto dissimili, ad esempio, da quelle dei Boscimani del Kalahari (Africa meridionale) o da quelle degli aborigeni dell’Australia. Wickiup era il nome che si dava alle capanne di canne tipiche del Gran Bacino, ma che erano usate anche da altre tribù, come gli Apache. Mancando il bisonte, non c’era la possibilità di rivestirle con pelli, e la scarsità di alberi d’alto fusto impediva la costruzione di ricoveri meno precari. Del resto, dato il nomadismo dei Paiute e l’estrema scarsità di precipitazioni piovose, le capanne di cespugli erano sufficientemente pratiche; non offrivano, però, una protezione adeguata all’epoca delle nevicate invernali, quando il termometro scende fino a 10 gradi centigradi sotto lo zero.
Negli ultimi decenni dell’Ottocento vi fu un mutamento estremamente significativo nella vita materiale e culturale dei Paiute. Molti di essi, infatti, accettarono di lavorare nelle fattorie degli uomini bianchi; allora l’antico nomadismo si attenuò e venne meno e, all’interno dei wickiup, fecero la loro comparsa vari oggetti sconosciuti alla loro cultura tradizionale.
Un wickiup
Con la sedentarizzazione e con l’adozione di uno stile di vita influenzato dagli usi dei bianchi e dalle loro tecniche materiali – oltre, naturalmente, alla diffusione del cristianesimo – si può dire che gli Indiani del Gran Bacino vissero una autentica “svolta” antropologica, passando a una fase storica totalmente nuova.
I Paiute non godevano di una buona fama presso gli altri popoli indiani del Nord America. Essi erano disprezzati per le loro abitudini di vita primitive e trattati alla stregua di “grandi reietti”. Non avevano nemmeno una fama guerriera, quantunque prendessero parte coraggiosamente alla guerra del 1878 contro i bianchi; e le virtù guerriere erano, notoriamente, quelle più apprezzate nella società indiana. Vivevano sparpagliati su di un territorio vastissimo, semplicemente perché nessun’altra tribù aveva mai avuto alcun interesse a scacciarli dalle misere sedi in cui abitavano.
Ha scritto uno studioso americano: «Gli altri Indiani consideravano gli ‘scavatori’ con molta pietà e con molto disprezzo. Nei primi anni del 1800 alcuni gruppi di Pah-Ute vivevano entro i confini dell’attuale riserva dei Navaho nelle zone più occidentali e più aride. Gli Hopi avevano qualche contatto con loro, ma Pah-Ute era sinonimo di ignoranza. Ancor oggi, se un Hopi parla di argomenti connessi con il rituale segreto delle cerimonie davanti a un bambino o a una persona non appartenente alla tribù, c’è sempre qualcuno che lo invita a tacere, dicendo: ‘Non vedi che c’è un Pah-Ute?”» (O. La Farge, Il mondo degli Indiani, tr. it. Milano, 1969, pp. 145-46).
Indiani Paiute – 1869
Non erano sempre stati così, i Paiute. Un tempo la loro civiltà materiale e, per conseguenza, spirituale, era stata molto più evoluta. Originariamente, infatti, essi avevano praticato delle forme rudimentali di agricoltura semi-sedentaria, sfruttando le vallate dei fiumi Humboldt, Owhyee, Walker e Carson. Questa condizione durò fino a tutto il XVIII secolo, cioè fino a quando l’altipiano compreso fra le Montagne Rocciose e la Sierra Nevada era rimasto fuori della portata dell’avidità di terre degli uomini bianchi.
Allora i Paiute avevano sviluppato forme di artigianato artistico ammirate e invidiate dagli altri popoli indiani dell’Ovest, in particolare l’arte di costruire canestri, cappelli e reti per la caccia. Scrive ancora lo storico sopra citato: “Molto diffusa era l’arte di costruire canestri e reti per la caccia. I canestri dei Pah-Ute erano molto belli, e fu probabilmente da questo popolo che i Navaho e gli Apache appresero tale forma di artigianato. Le donne fabbricavano pure cappelli con la tecnica impiegata per i canestri. I cibi venivano cucinati nei canestri con il procedimento chiamato della ‘bollitura con le pietre’. Alcune pietre arroventate sul fuoco venivano gettate una dopo l’altra in un canestro pieno d’acqua, finché questa bolliva. Il sistema era diffuso in tutte le zone del Nord America dove i cibi venivano cotti senza la possibilità di usare recipienti resistenti al fuoco. Anche gli Indiani della prateria usavano lo stesso sistema di cottura, ma impiegando al posto dei canestri lo stomaco accuratamente lavato dei bisonti. Alcuni canestri fabbricati nel Grande Bacino presentano singolari somiglianze con quelli della cultura dei ‘canestrai’ del Sud Ovest. È molto probabile che le tribù del Gran Bacino abbiano a suo tempo ereditato alcuni elementi della cultura dei ‘canestrai’ prima che questi imparassero le tecniche agricole, mantenendoli immutati perché l’ambiente impediva ogni modificazione.” (O. LA FARGE, Op. cit., p.145).
Ma il 7 novembre 1805 gli esploratori M. Lewis e G. R. Clark giunsero per la prima volta, provenienti dal Missouri, in vista del Pacifico; e da quel momento l’equilibrio ecologico e sociale del Gran Bacino, già tanto delicato e precario, venne definitivamente rotto. J. C. Frémont, a sua volta, penetrò in California nel 1843-44 e nel 1845-47 e subito dopo, nel 1848, vi fu scoperto l’oro. Ondate sempre rinnovate di coloni, cercatori e avventurieri bianchi si rovesciarono verso la costa, passando per le terre dei Paiute.
Fabbricante Paiute di canestri
All’inizio nessuno era tentato di fermarsi nelle squallide lande del Gran Bacino, tranne una colonia di mormoni, stabilitasi nella Carson Valley nel 1849. I mormoni avevano fondato la città di Salt Lake City nel 1847, e nel 1850 erano stati riconosciuti dal governo di Washington quali fondatori del Territorio dell’Utah. Il Nevada fu dapprima incluso nell’area della comunità mormone. Intanto l’avanzata dei bianchi stava scacciando i Paiute dalle zone più fertili e li stava facendo regredire allo stadio di cacciatori e raccoglitori nomadi, la stessa involuzione toccata ai Comanche sotto la spinta espansionistica dei Sioux (i Comanche però, unici del gruppo linguistico uto-azteco, avevano assimilato durante la loro permanenza nel Wyoming la cultura tipica degli Indiani delle praterie, basata sulla caccia al bisonte, mentre Shoshoni e Ute avevano una cultura intermedia tra quella delle Praterie e quella del Gran Bacino, fondata essenzialmente sulla raccolta e su qualche forma di agricoltura itinerante). I Paiute reagirono violentemente e nella cosiddetta “Guerra Shoshone” del 1854-55 si batterono con il coraggio della disperazione contro lo strapotere dei bianchi. La loro sconfitta segnò anche per essi l’inizio di una fase storica nuova, già conosciuta da molte tribù delle Praterie: la relegazione nelle riserve.
Minatori nel Comstock Lode
Nel 1859 sui Monti Virginia, che dominano la riva occidentale del Lago Pyramid, fu scoperto l’oro. Non un filone qualunque: il Comstock Lode, ossia il giacimento aurifero più grande del mondo. Ebbe inizio una corsa febbrile da parte di innumerevoli coloni in cerca di fortuna; nacquero dei contrasti fra mormoni e minatori, e questi ultimi chiesero al Congresso l’annessione del Gran Bacino. Il governo centrale rispose dapprima proclamando la nascita del Territorio del Nevada, nel 1861; e poi, nel 1864, ammettendolo al rango di nuovo Stato – il trentaseiesimo – dell’Unione.
La Guerra Paiute
Il primo insediamento colonico nel Nevada del nord ovest ebbe un effetto molto distruttivo sul popolo dei Paiute settentrionali. Shoshone e Paiute erano sopravvissuti grazie alle scarse risorse del deserto, uccidendo daini e conigli, mangiando cavallette, roditori, semi, nocciole, bacche e radici. La fragilità dell’ecosistema del Grande Bacino amplificava questi disagi nonostante la densità relativamente bassa di abitanti. I minatori abbattevano i boschetti di pini, che erano una delle maggiori risorse alimentari per i Paiute e sorgevano vicino alle sorgenti d’acqua dei deserti del Nevada. L’attività dei coloni rovinò o distrusse la già scarsa vegetazione. In più i coloni e i Paiute erano in competizione per i pascoli, dove i coloni cercavano di introdurre il bestiame. Gli Indiani parzialmente si adattarono al cambiamento, scambiando i loro canestri finemente lavorati e le pelli di daino e di coniglio con alimenti e beni vari. Altre volte i coloni fornivano cibo o coperte, mentre alcuni Nativi erano impiegati come lavoranti nelle fattorie o lavoravano come magazzinieri nelle stazioni del Pony Express. Ciò nonostante essi erano infastiditi dagli sconfinamenti nel loro territorio. Il capo Numaga viaggiò fino a Virginia City per manifestare le recriminazioni dei Paiute. I mandriani avevano condotto il bestiame su tutti i terreni da pascolo dei Paiute, lasciando che i loro animali divorassero tutta l’erba dei cavalli Paiute. Poiché Numaga protestò, gli allevatori minacciarono di adire alla violenza se il capo non avesse restituito il bestiame che essi asserivano mancare dalle loro mandrie. Alcuni mandriani invece affermavano che Numaga e i suoi prendevano per sé due capi di bestiame alla settimana.
Prese campo la violenza e i Paiute compirono diverse uccisioni nelle piccole incursioni effettuate, prima che fosse raccolta una forza di 105 volontari.
1857 – Incursioni nel nord – avvisaglie di guerra
Nel 1857 il maggiore William M. Ormsby (che sarebbe morto più tardi nella Prima Battaglia di Pyramid Lake), e un uomo di nome Smith erano agenti della Overland Stagecoach. Il 5 ottobre 1857 Ormsby mandò una lettera espresso richiedendo munizioni, per essere pronto all’emergenza in quanto riteneva che una guerra indiana fosse invitabile per i frequenti omicidi e ruberie commessi dalla tribù Washoe. Ormsby allora chiese l’alleanza dei Paiute, che si unirono alla lotta contro i loro antichi nemici Washoe, e i Washoe furono inseguiti nella Carson Valley da 20-30 coloni e 300-400 Paiute.
1858 – Trattato con i Paiute
All’inizio del 1858 Indiani e Bianchi si accordarono per un trattato basato sul principio di giustizia uguale per tutti. Ladri e assassini, di qualunque etnia fossero, dovevano essere consegnati alle autorità. Da quel momento i Paiute del capo Numaga combatterono fianco a fianco dei Bianchi contro i gruppi guerrieri degli Indiani Pit River provenienti dalla Sierra Nevada. Nei due anni successivi Paiute e Bianchi vissero in una pace relativa. Tuttavia l’inverno del 1858 fu particolarmente rigido, rendendo impossibili i rifornimenti per la gente che stava al di là della sierra Nevada. Il cibo divenne scarso, e i residenti furono costretti ad andare a caccia di selvaggina.
1859 – Inverno di fame
Il capo Numaga
Nel 1859 si era sparsa la notizia del ritrovamento di minerale d’argento nella vasta regione di Comstock Lode, nel Washoe, una regione che si trovava allora nella parte occidentale del Territorio dell’Utah e che ben presto sarebbe entrata a far parte del Territorio del Nevada. Orde di minatori sciamarono nel centro minerario di Virginia City, nelle vicinanze di Carson City.
Essi abbatterono alberi di pino per ricavarne combustibile per il procedimento di lavorazione della materia grezza, distruggendo così la produzione di pinoli che erano essenziali per l’economia alimentare dei Paiute. Cacciatori e trappers sterminarono la grossa selvaggina, i pesci e gli uccelli acquatici per alimentare i minatori. I nuovi arrivati si spostavano per quelle valli fertili, tagliando gli accessi ai luoghi dove potevano essere raccolti semi, nocciole e radici.
Con l’arrivo della primavera del 1859 quello che sarebbe diventato famoso come “il filone Comstock” scatenò la corsa dei cercatori d’argento in tutta la zona. A dire il vero le tensioni avevano già cominciato a manifestarsi fin dalla prima corsa dei minatori per l’argento della Sierra Navada. Con l’arrivo di così tanta gente molti Indiani pensarono che un cattivo spirito si fosse irritato e la conseguenza era che venivano inviate contro di loro bufere che li congelavano e li affamavano. Il Territorial Enterprise, giornale di Carson city, nel dicembre 1859 riferì che i Bianchi stavano facendo tutto quello che potevano per alleviare la condizione degli Indiani, offrendo loro cibo e provviste. Tuttavia gli Indiani si rifiutavano di mangiare, temendo che il cibo fosse avvelenato.
1860
Rottura del trattato
Il 13 gennaio 1860 Dexter Demming fu ucciso e la sua abitazione venne saccheggiata. Il governatore territoriale Isaac Roop inviò il capitano Weatherlow per accertare se i responsabili fossero Paiute o Indiani Pit River. Dopo aver avvistato il gruppo guerriero ci si rese conto che gli incursori appartenevano alla banda di Paiute di Somoke Creek Sam (capo Saaba), banda che aveva rotto i rapporti con Numaga e Winnemucca (capo Truckee). I Bianchi cominciarono a chiedere vendetta. A Susanville venne tenuto un incontro con il governatore Roop e il capitano Weatherlow. Il governatore diede ordine a Weatherlow e a Thomas Harvey di incontrarsi con Numaga a Pyramid Lake e chiedergli conto degli omicidi, di onorare il trattato e consegnare gli assassini. Mentre viaggiavano verso Pyramid Lake, i due Bianchi furono catturati dai Paiute della banda di Smoke Creek Sam. Quando i guerrieri decisero di uccidere i due uomini, un guerriero chiamato “Pike” (che aveva vissuto da bambino nella casa di Harvey) intervenne in favore di Harvey, a cui fu permesso di sopravvivere.
Accampamento indiano sul Pit River – acquaforte di R. Swain Gifford
Pike riuscì alla fine a convincere la banda a rilasciare anche Weatherlow. I due uomini arrivarono finalmente al campo del capo Numaga. Il capo rifiutò di ammettere o di negare che la sua gente avesse ucciso Dexter Demming. Weatherlow insistette con il capo perché rispettasse il trattato e infine Numaga affermò che non sarebbe intervenuto se il suo popolo avesse commesso depredazioni contro i Bianchi, che avrebbe rifiutato di tornare in città per risolvere pacificamente qualunque controversia e infine, in considerazione delle recenti scoperte di giacimenti d’argento, domandò 16.000 dollari per i pascoli. Weatherlow e Harvey lasciarono il luogo dell’incontro e, nel viaggio di ritorno, avvisarono tutti gli allevatori della crisi incombente. Gli uomini li informarono che il capo Numaga li minacciava, richiedendo loro la consegna di due capi di bestiame alla settimana, ordine che essi eseguivano regolarmente.
Piani di guerra
Tornato a casa, Weatherlow avvertì che la guerra era ormai invitabile. Tuttavia la popolazione locale si interrogava su come si fosse potuti arrivare a questo. Cominciava a dubitare che i Paiute fossero veramente colpevoli, perché sebbene Dexter Demming fosse stato ucciso, era noto a tutti che suo fratello Jack una volta aveva ucciso un Indiano e persone in cerca di vendetta potevano aver scambiato un fratello per l’altro. In ogni caso il 12 febbraio 1860 il governatore Roop scrisse al brigadiere generale Newman S. Clarke, comandante del Dipartimento del Pacifico, dichiarando che la valle di Honey Lake era in pericolo per via dei Paiute. Egli chiedeva l’invio di uomini, armi e munizioni per scacciare i Paiute dalle loro roccaforti. Nei mesi di marzo e aprile gli Indiani si radunarono a Pyramid Lake, per decidere se attaccare i bianchi. Mentre la maggioranza dei guerrieri votò per la guerra, senza una decisione unanime fu necessario rimandare il piano; il capo Numaga aveva votato contro la guerra. D’altro canto il capo Winnemucca detestava grandemente Numaga, perché questi parlava inglese e quindi i bianchi consideravano lui, e non Winnemucca, come capo dei Paiute. Mentre Numaga discuteva sull’entrata in guerra, si persero due bambini Paiute e quello che sarebbe stato noto come “il massacro di William Station” sfociò in guerra aperta.
Il primo massacro di Williams Station
I Paiute i loro alleati Bannock e Shoshone si radunarono a Pyramid Lake verso la fine del mese di aprile 1860, per un consiglio sull’atteggiamento da tenere nei confronti degli sconfinamenti dei bianchi. La maggior parte dei capi si pronunciò a favore della guerra. Il capo Winnemucca (Poito), il leader più anziano presente in assemblea, sembrava essere favorevole alla guerra, tuttavia si astenne dal prendere una posizione pubblica. Numaga fu il solo capo che si espresse a favore della pace. Egli concordava sul fatto che gli uomini bianchi avessero sbagliato grandemente con gli Indiani, ma puntualizzò che, dato il loro numero e le loro risorse, i bianchi erano destinati a vincere qualunque guerra.
Mentre Numaga stava parlando, arrivò un gruppo di Indiani che portava notizie di un incidente che era appena avvenuto a Williams Station. Williams Station era un misto di saloon, magazzino generale e stazione per diligenze situato lungo il fiume Carson.
Il 6 maggio 1860 Mogoannoga, un guerriero di sangue misto Paiute-Bannock, aveva condotto un gruppo di guerra all’attacco di una stazione di Pony-Express. Si disse che si era trattato di un attacco ingiustificato per provocare la guerra. Altre voci riportavano che gli assalitori avevano saputo del rapimento di due donne Paiute alla Stazione, e che il combattimento si era verificato quando essi erano andati a verificare cosa fosse successo e liberare le donne. In ogni caso il gruppo guerriero uccise cinque Americani. Dopo aver udito ciò che era successo, Numaga disse: «Non c’è più bisogno di convocare un consiglio; noi ci dobbiamo preparare per la guerra, perché adesso i soldati verranno qui per combatterci.»
Suggestiva immagine di Pyramid Lake
Quando Williams, il titolare della stazione, che al momento dell’attacco era assente, tornò, trovò i corpi dei suoi due fratelli che erano stati torturati e mutilati, mentre tutti i clienti del saloon erano stati uccisi. Dopo aver ucciso gli uomini e incendiato la stazione, il gruppo indiano continuò a marchiare la sua impresa con il sangue. Williams scoprì che la famiglie di due abitazioni sul fiume (13 persone) erano state parimenti uccise. Inoltre in seguito vennero rinvenuti i corpi di alcuni esploratori disarmati, che erano stati assassinati. Nello stesso periodo la stazione dei Pony Express di Cold Creek subì un’incursione in cui il tenutario della locanda fu ucciso e tutte le provviste razziate. La morte di tanti coloni bianchi provocò un grande panico nella vicina Virginia City, in Nevada.
Si forma la milizia in vista della guerra totale
Allo scopo di catturare i saccheggiatori, venne rapidamente arruolata una milizia di abitanti di Virginia City, Silver City, Carson City e Genoa. Questa forza consisteva di circa 105 uomini. William Ormsby, un uomo noto per andare per le spicce, tentò di assumere de facto il comando di tutti i partecipanti, ma alla fine non vi fu nessuno a coordinare i vari gruppi. Non si pensava che gli Indiani sarebbero tornati a combattere. I gruppi erano i seguenti:
• Genoa Rangers, sotto il capitano F. F. Condon;
• Carson City Rangers, sotto il maggiore William Ormsby;
• Silver City Guards, sotto il capitano R. G. Watkins;
• 1a Compagnia di Virginia City, sotto il capitano F. Johnston;
• 2° Compagnia di Virginia City, sotto il capitano Archie McDonald.
Ciascun gruppo di cavalieri non costituiva più di un’ indisciplinata orda di un centinaio di cavalieri malamente armati con pochi fucili. Un uomo del gruppo, Samuel Buckland, dichiarò più tardi che gli uomini erano pieni di whisky e disorganizzati. Mentre Ormsby assumeva una posizione di comando, quale primo arrivato alla stazione, in realtà i cinque gruppi non scelsero mai un comandante unico e questo causò confusione in battaglia.
Il maggiore William Ormsby
I Carson City Rangers erano arrivati per primi alle rovine di William Station, fermandosi per riposare e aspettare gli altri gruppi di volontari. Quando ci furono tutti, seppellirono i morti e poi la notte riposarono. Quella sera il giudice John Cradlebaugh, che faceva parte dei Carson City Rangers, disse ai suoi uomini che non era venuto per intraprendere una guerra per difendere la civiltà bianca, ma per proteggere le comunità minacciate. Egli avvisò i suoi uomini che i fratelli William avevano una brutta reputazione, a causa dei loro loschi affari sia con i bianchi che con gli Indiani e che gli Indiani, probabilmente, avevano una buona ragione per i loro attacchi. Venuto il mattino, il giudice Cradlebaugh, i suoi uomini e qualche altro degli altri gruppi ritornarono a Carson City. Il resto della truppa proseguì a nord, verso il fiume Truckee, seguendo poi il suo corso fino a Pyramid Lake. Ci si accorse che la traccia lasciata dagli indiani era troppo facile da seguire. Erano stati lasciati per strada articoli da negozio acquisiti dai bianchi e le tracce di cavalli non ferrati erano molto evidenti.
Prima battaglia di Pyramid Lake
In epoca precedente William Orsmby aveva fatto amicizia con molti importanti capi Paiute, tra cui Truckee. Al momento Ormsby si stava occupando dell’educazione di Sarah Winnemucca, figlia di uno dei capi. Ormsby marciò su Williams Station, diede cristiana sepoltura ai morti e continuò verso nord, seguendo il fiume Trucker per raggiungere Pyramid Lake. Il 12 maggio 1860 Ormsby inviò in esplorazione una spedizione comandata dal capitano Archie McDonald. Questo gruppo avvistò due Indiani e cominciò ad inseguirli, quando ne apparve un gruppo molto più numeroso. Le guide ritornarono al corpo principale, che non venne inseguito. La forza di Ormsby era in una situazione difficile, costretta lungo il fiume con le rocce da una parte e un dirupo dall’altra. Numaga guidava circa 100 guerrieri, che si mostravano attirando il fuoco degli uomini di Ormsby, quando apparve un gruppo più grande che avanzava verso gli uomini bianchi. Anche Ormsby avanzava in salita e abbagliato dal sole del tramonto, in mezzo al fuoco degli Indiani. Vedendo altri Indiani che stavano circondando la sua retroguardia, Ormsby ordinò la ritirata. I volontari bianchi cercarono di trovare riparo in una gola vicino ad un boschetto, ma vennero inseguiti dagli Indiani e si trovarono sotto il fuoco di altri guerrieri che si trovavano già nel boschetto. I miliziani, armati di pistole, si aspettavano che i Nativi avessero solo archi e frecce, invece erano ben forniti di fucili, con un raggio d’azione maggiore e tiro più accurato, e furono circondati. Qualcuno cercò di fuggire attraversando il fiume, ma le acque erano impetuose a causa della piena di primavera. Altri tentarono la fuga risalendo il colle. Visto che la battaglia era vinta, Numaga cercò di impedire ulteriori uccisioni, ma i guerrieri erano troppo eccitati.
Un guerriero Paiute
Ormsby venne ucciso, insieme ad altri 75 uomini. La maggior parte dei ventinove sopravvissuti aveva ferite, e fu salvata solo dal sopraggiungere delle tenebre. Questi uomini si nascosero finché gli Indiani se ne andarono, quindi tornarono alla Stazione di Buckland.
Seconda Battaglia di Williams Station
Dopo la rotta della spedizione della milizia di William Orsby a Pyramid Lake, i coloni della zona inviarono richieste di aiuto in California. John C. Hays, colonnello dei Texas Rangers ed Ispettore Generale per la California, rispose alle richieste di aiuto e si portò a Carson City per organizzare un reggimento di volontari. Hays inserì oltre 500 uomini provenienti da Carson City, Virginia City, Genoa e altre comunità nel Washoe Regiment, da lui fondato. Anche soldati regolari dell’esercito degli Stati Uniti, provenienti da Fort Alcatraz e comandati dal capitano Joseph Stewart, si misero in marcia nella regione. Invece di aspettare i regolari di Stewart, Hays si mise in marcia con le sue truppe, lasciando Carson City per dirigersi verso il luogo del primo attacco, a William Station. Alla stazione si scontrarono con 150 guerrieri Paiute in una breve schermaglia, nella quale perirono due volontari bianchi e sei Paiute. I guerrieri si ritirarono nel loro villaggio di Pyramid Lake, in prossimità della foce del fiume Truckee.
Seconda Battaglia di Pyramid Lake
I Paiute, come misura di protezione, mandarono donne e bambini nel Deserto Black Rock. Hays ripercorse il sentiero di Ormsby lungo il fiume Truckee e si accampò nei pressi dell’attuale Wadsworth. Qui venne raggiunto dalle truppe del capitano Stewart. La battaglia cominciò il 2 giugno, quando Hays mandò in avanscoperta due compagnie, mentre il corpo principale si spostava di otto miglia seguendo il corso del fiume. Il gruppo esplorativo, dirigendosi verso il villaggio Paiute, trovò sul campo della battaglia precedente i resti degli uomini di Ormsby, che erano rimasti insepolti. I Nativi allora operarono una rapida avanzata verso i soldati con una formazione a cuneo, cosa che provocò il rapido ritiro delle due compagnie di avanguardia.
John C. Hays
Il colonnello Hays scelse un luogo ideale per attestare le truppe. Si trattava di uno stretto canyon, largo non più di un miglio, collegato ad ovest alle ripide montagne del Virginia Range e ad est con il fiume Truckee. Entrambe queste situazioni geografiche impedivano ogni eventuale manovra sui fianchi da parte dei Nativi. Al centro della zona c’era una collinetta rocciosa, ad ovest della quale l’acqua piovana aveva scavato canali laterali nel suolo sabbioso, fornendo naturali fortificazioni che entrambe le forze combattenti avrebbero potuto usare per attestarsi nel caso fossero state costrette a ritirarsi.
L’avanzata dei Paiute aveva consentito loro di impossessarsi della piccola collina ed ora la loro linea si estendeva dal fiume fin ben dentro le rocce dei monti ad ovest. I Paiute erano avanzati così rapidamente che adesso avevano in mano tutte le posizioni vantaggiose del terreno in vista del combattimento. I soldati furono obbligati a schierarsi sul pianoro a sud. Il capitano Stewart dispose i suoi regolari in una linea di combattimento a ovest della collinetta, lungo la base delle montagne, mentre i volontari si attestarono ad est, lungo il fiume. Il capitano Edward Farris Storey e il capitano J. B. Van Hagan, che comandavano due compagnie di volontari rispettivamente di Virginia City e della California, decisero di effettuare una carica contro la collinetta, nonostante Hays non avesse ancora tutte le sue truppe disponibili sul posto. Storey e Van Hagan riuscirono a conquistare l’altura e per un breve tempo furono soggetti ad un fuoco sui loro fianchi, in quanto i Nativi avevano cominciato a circondarli dalla riva del fiume e dai pendii del monte. Questa posizione avanzata ebbe un sostegno quando Hays avanzò con il corpo di spedizione principale. Stewart sloggiò i guerrieri dal fianco del monte, mentre Hays avanzava costantemente con i volontari lungo il fiume. Alla fine le due parti mantennero una linea di battaglia continua che le opponeva una di fronte all’altra per circa un miglio. La battaglia continuò per qualche tempo, con nessuna delle due parti che riusciva a guadagnare un chiaro vantaggio. Dopo ave combattuto per quasi tre ore i Paiute infine si ritirarono su per il canyon verso il lago. Il 4 giugno il capitano Stewart si pose all’inseguimento dei Nativi, arrivando ad un villaggio abbandonato alla foce del fiume Truckee. Il colonnello Hays seguì Stewart nell’inseguimento verso nord. Il 5 giugno Hays mandò un gruppo di guide dentro un canyon a nord est di Pyramid Lake. Questi scout subirono un’imboscata e un certo William Allen rimase ucciso. Egli doveva essere l’ultima vittima della guerra.
Trukee River Gorge, sito della 2a battaglia di Pyramid Lake
Qualche tempo dopo la morte di Allen, il colonnello Hays tornò con il reggimento Washoe a Carson City, dove sciolse le truppe. Il corpo del maggiore Ormsby fu temporaneamente sotterrato nel posto dove egli era stato ucciso a Pyramid Lake, ma successivamente venne trasportato in un cimitero di Carson City. Il capitano Storey, che nella battaglia era stato ferito a morte, fu sepolto a Virginia City. Il capitano Stewart si fermò nella zona di Pyramid Lake ancora per qualche settimana, ma i Paiute non tornarono più.
La popolazione indiana della regione, che non era mai stata numerosa, venne completamente soverchiata dagli allevatori e dai minatori bianchi, nel ventennio fra il 1870 e il 1890; e questo, secondo il professor O. C. Stewart, è almeno in parte all’origine dei due culti messianici sorti a quell’epoca fra i Paiute settentrionali, quello di Wodziwob e quello di Wovoka.
Sottoposto a uno sfruttamento frenetico, il Comstock Lode poco alla volta si andava esaurendo, ma nel 1873 avvenne una nuova, fantastica scoperta: la miniera d’argento della Grande Bonanza. Le cittadine dei minatori sorgevano sul desertico altipiano come per incanto, brulicanti di un’effimera vita, turbolenta e chiassosa, per poi trasformarsi – altrettanto bruscamente – in spettrali città-fantasma, dopo l’esaurimento dei giacimenti.
Nel 1877 vi fu un crollo improvviso del valore dell’argento ed ebbe inizio il riflusso della marea bianca. Più di un terzo degli immigrati abbandonarono il Nevada negli ultimi anni del 1800, anche per la diminuzione del minerale nel Comstock Lode. Le condizioni di vita degli Indiani confinati nelle riserve non trassero però alcun giovamento da questo momentaneo regresso. Esse erano così cattive che nel 1878 scoppiò una vasta rivolta, cui presero parte i Paiute, i Bannock e gli Shoshoni e che ebbe dai bianchi il nome di “guerra dei Bannock”. Si trattò, in effetti, del più importante tentativo di riscossa degli Indiani a ovest delle Montagne Rocciose, e anche dell’ultimo.
Benché non godessero di una fama guerriera paragonabile a quella di molte altre tribù, i Paiute possedevano però un fiero spirito d’indipendenza, e non avevano mai dimenticato le ingiustizie e le atrocità commesse dai bianchi nel passato. Ricordavano, ad esempio, il massacro di 278 dei loro, operato dal generale P. E. Connor nel 1863, quando un intero villaggio Paiute era stato distrutto. Ma soprattutto ricordavano di essersi coperti di gloria nel 1860 allorché, armati solo di archi e frecce avevano ucciso circa 50 bianchi presso il Lago Pyramid, e messo in fuga gli altri.
Capi di guerra Bannok
Nel 1878, però, i rapporti di forza si erano troppo spostati a favore degli invasori e gli Indiani, con poche armi da fuoco, non poterono opporre che una breve resistenza. La guerra dei Bannock si concluse com’era inevitabile e la tribù che l’aveva principalmente animata, quella dei Bannock, venne respinta entro le vecchie riserve dello Stato dell’Idaho. Quanto ai Paiute, che – secondo la definizione di un capitano dell’esercito americano – “non valevano, come guerrieri, un fico secco”, essi videro precipitare definitivamente le loro speranze in un riscatto politico ancora possibile. Ormai, solamente Dio li avrebbe potuti aiutare.
Era giunta l’ora della nuova religione.
Il cristianesimo nelle Sierras
Poiché la religione della Danza degli Spettri fondata da Wovoka è costituita in larghissima misura da elementi direttamente o indirettamente di origine cristiana, è necessario aggiungere qualcosa a quanto detto in precedenza circa l’influsso del cristianesimo sugli Indiani e, in particolare, sulle tribù stanziate nell’area del Gran Bacino.
Il cristianesimo sfiorò il territorio abitato dai Paiute fin dal XVIII secolo, ma non vi mise radici fin verso la metà del XIX. All’est c’erano le missioni dei francescani e dei gesuiti spagnoli, nell’Arizona e nel Nuovo Messico attuali; all’ovest quelle dei francescani, sulla costa dell’Alta California. Nel 1769 era stata fondata la prima missione dell’Alta California, San Diego, dal francescano Junipero Serra, ed altre le tennero dietro a ritmo febbrile. Ma le comunicazioni via mare erano lente e malagevoli, stante la lontananza del porto di Acapulco e della parte del Messico allora effettivamente colonizzata.
D’altra parte, nell’interno del Nuovo Messico i francescani erano attivi da quasi due secoli, poiché fin dal 1598 avevano fondato la missione di San Juan de los Caballeros, che fu anche il terzo insediamento permanente di uomini bianchi sul territorio dei futuri Stati Uniti (il primo era stato St. Augustine, in Florida, nel 1565, e il secondo Pensacola, sempre in Florida, nel 1596).
Padre Junipero Serra tra gli indiani
I francescani tentarono perciò di stabilire una via di comunicazione con la California partendo dalle loro missioni a nord del Rio Grande, specialmente Santa Fe, e fu così che essi penetrarono nel Gran Bacino. Ciò accadde nel 1775. Prima di allora le terre abitate dai Paiute, ove più tardi fu costituito lo Stato del Nevada, non avevano mai conosciuto impronta di uomo bianco. La storia ci ha conservato il nome del coraggioso francescano spagnolo che tentò di aprire la via interna per la California, Francisco Garcés; ma la via si rivelò troppo ardua, e le si preferì ancora quella marittima.
Per alcuni decenni l’interno del Gran Bacino ripiombò nell’oscurità. Le nebbie furono in parte diradate solo nel 1825, quando l’esploratore canadese P. Ogden, associato alla Compagnia della baia di Hudson, scoprì il fiume Humboldt, nella parte settentrionale del Nevada, che termina in una vasta palude salmastra. Nonostante la relativa vicinanza delle numerose missioni spagnole, passate peraltro al governo messicano dopo il 1820, e la conversione al cristianesimo di molti Indiani della California, i Paiute, al di là dello schermo della Sierra Nevada, non ricevettero che un pallido riflesso di questa luce. Per essi, a differenza che per la maggior parte delle altre tribù dell’Ovest, il cristianesimo non fu portato dai missionari cattolici, bensì dai mormoni dello Utah. Dell’influenza spagnola non era rimasto altro, nella regione centrale del Gran Bacino, che il nome (“Nevada”, infatti, è un vocabolo spagnolo che significa “nevosa”: nome appropriato, se si considera che ancor oggi lo sci, praticato sulle piste a nord del Lago Tahoe, vi è lo sport invernale più diffuso), o poco più; tanto che ancor oggi la memoria di Francisco Garcés è, negli Stati Uniti, quasi dimenticata, mentre come primi esploratori penetrati nell’odierno Nevada sono ricordati quelli anglosassoni del XIX secolo. E, di tutte le tribù del gruppo uto-azteco del sud-ovest degli Stati Uniti, solo le piccole tribù dei Luise?o, dei Gabrielino e dei Serrano, stanziate a ovest del basso Colorado e sulle isole meridionali dell’Arcipelago di Santa Barbara, subirono una massiccia opera di cristianizzazione prima dell’arrivo dei coloni bianchi provenienti da est.
Mappa delle tribù della California del Sud
I mormoni, migrando dall’Illinois, avevano fondato Salt Lake City nel 1847 e, due anni dopo, avevano stabilito una colonia nello stesso Nevada, presso il fiume Carson. Essi, che nel 1830 avevano fondato la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi dell’Ultimo Giorno, ma che non erano e non sono riconosciuti come cristiani dalle altre chiese cristiane, introdussero elementi importanti nelle religioni degli Indiani del Gran Bacino. La loro influenza sulla Danza degli Spettri predicata da Wovoka è un fatto riconosciuto da tutti gli studiosi che si sono occupati dell’argomento.
Quali erano questi elementi, e perché fecero presa, sia pure in forma spesso indistinta e, talvolta, perfino sotterranea (tale sembra essere stata la credenza sulla invulnerabilità delle “camicie degli Spettri”, passata in qualche modo dai mormoni ai Sioux nel 1890), fra i Paiute del Nevada? Dal punto di vista dottrinale, i mormoni insistevano – fra le altre cose – sull’aspetto personale e sulla continuità della Rivelazione (per cui non consideravano la Bibbia come un messaggio definitivo); sulla resurrezione dei corpi, sul ritorno di Gesù Cristo, che avrebbe dovuto aver luogo in America, ove del resto era già apparso subito dopo la sua resurrezione. Il principio che la Rivelazione è, teoricamente, possibile a chiunque e quello che Dio continua a rivelare agli uomini la sua volontà, si accordavano perfettamente con la tradizione delle “rivelazioni” tipiche dello sciamanesimo indiano e, in particolare, del profetismo indiano del XIX secolo. Lo stesso fondatore della Chiesa mormone, J. Smith, aveva reso pubblica la visione avuta nel 1820, allorché – quindicenne – Dio lo aveva prescelto per annunciare i suoi disegni agli uomini.
La dottrina della resurrezione dei corpi, in accordo con l’insegnamento dei missionari delle altre chiese cristiane con le quali gli Indiani vennero a contatto, presentava delle analogie con certe credenze proprie della cultura indiana, ad esempio dei Chippewa, i quali popolano il loro paradiso di frutta e di selvaggina. Si accordava inoltre, ancor più, col profetismo indiano della seconda metà dell’Ottocento, specialmente del Nord-ovest, che viveva nell’attesa della fine del mondo e di una grandiosa palingenesi.
Battesimo di Nativi americani
Tutti questi aspetti troveranno piena espressione e una originale fusione nella religione predicata da Wovoka. Infine l’attesa imminente di un ritorno di Cristo, che avrebbe dovuto aver luogo in America, introdusse nelle culture indiane un elemento che, oltre a colpire fortemente l’immaginazione e ad accordarsi con la mentalità religiosa indiana – impaziente di troppo lunghe attese – coronava magnificamente le aspettative messianiche manifestatesi con frequenza negli ultimi decenni.
Secondo il modo di pensare degli Indiani, se Gesù era venuto la prima volta fra gli uomini bianchi, voleva dire che essi, probabilmente, non erano stati sempre malvagi; lo erano però diventati dopo averlo ucciso sulla croce. D’altra parte, il concetto evangelico di “non dare le perle ai porci” e di non premiare gli invitati indegni (“Il banchetto era pronto ma gli invitati erano indegni”, Matteo), interpretato nella maniera più immediata e letterale, si accordava con il vivo senso indiano della giustizia, e con il rancore represso nei confronti dei bianchi. Era logico, dunque, pensare che Gesù sarebbe ritornato, ma non fra i bianchi, che non l’avevano ascoltato, bensì fra gl’Indiani. E benché la prima volta, tanto tempo prima, Gesù avesse preso l’aspetto di un uomo bianco, ora avrebbe potuto tornare in mezzo agli Indiani come uno di loro.
L’influenza della chiesa mormone sulle tribù indiane del Gran Bacino e, in particolare, sulla religione della Danza degli Spettri, fu comunque per lo più di natura riflessa. I mormoni, che avevano subìto delle dure persecuzioni nell’Est, manifestavano un caratteristico spirito di tolleranza verso le altre religioni minacciate e, nei confronti degli Indiani, erano esenti da molti dei tipici pregiudizi che nutrivano gli altri bianchi. Essi vedevano nei seguaci del messia Paiute Wodziwob, immediato predecessore di Wovoka, nientemeno che le smarrite tribù di Israele, e i loro reciproci rapporti furono piuttosto cordiali. Probabilmente fu un danno, per i Paiute, il passaggio del Nevada dallo Stato mormone all’indipendenza federale.
Wovoka tra i Paiute
D’altra parte i mormoni non si dedicavano, come i cattolici e le varie chiese protestanti, a un’opera pianificata di conversione degli Indiani. Per questi ultimi, l’esperienza del contatto con la religione mormone ebbe luogo, spesso, per via indiretta. Questo può spiegare le confusioni e gli equivoci che un tale tipo di rapporto produsse, primo fra tutti quello – già accennato – sulla invulnerabilità delle “camicie degli spettri” ai proiettili dei bianchi.
Ma più che in singoli aspetti della religione della Danza degli Spettri, l’influenza della chiesa mormone va cercata in un atteggiamento spirituale complessivo. Dai mormoni, probabilmente, gli Indiani dell’area del Gran Bacino appresero lo spirito di solidarietà che deve necessariamente unire gli aderenti allo stesso credo, anche se di provenienza diversa; la fiducia nel domani, a dispetto delle angustie presenti; e infine la tolleranza, non disgiunta da una decisa determinazione di non sopportare prevaricazioni da chicchessia.
I mormoni erano abituati all’ostilità degli altri bianchi, ma non erano inclini a subirla passivamente. La raccomandazione evangelica di non reagire alle offese e di porgere l’altra guancia non li impressionava molto. Per conquistarsi uno spazio vitale, erano disposti alla lotta e, se necessario, allo spargimento di sangue. Allorché, durante la loro storica migrazione verso le Montagne Rocciose, era scoppiata la guerra col Messico, avevano fornito un contingente di 500 soldati all’esercito degli Stati Uniti, per poter partecipare con pieno diritto alla futura spoliazione delle province cui erano diretti (essendo tanto il Nevada quanto l’Utah sotto la teorica sovranità messicana, insieme al resto del Sud-Ovest, California compresa). Anche se un tale atteggiamento attivo e, talvolta, bellicoso era profondamente estraneo al carattere di Wovoka, esso non rimase forse senza conseguenze su altre tribù maggiormente bellicose dei Paiute, come i Sioux e i Modoc.
La Ghost Dance
La società indiana, verso la fine dell’Ottocento, era in pieno processo di disgregazione. Osserva Arnold J. Toynbee che le civiltà in fase di disgregazione sociale, nel tentativo di sottrarsi all’incombente disastro, fanno appello alla figura di un salvatore, di un individuo creatore dalle capacità superiori. Ma poiché lo scisma non è soltanto nel corpo sociale, ma anche nell’anima, la sfida delle società in fase di disgregazione eccede le possibilità di un singolo individuo, per quanto geniale. I primi a fallire, rivelando la natura effimera dei propri successi, sono i salvatori armati di spada.
L’ambiente religioso e sociale in cui Wovoka compì la sua formazione umana era tale da metterlo in guardia contro qualsiasi illusione circa una soluzione di forza. Se gli Indiani avessero fatto ricorso alle armi sarebbero stati schiacciati, com’era già accaduto tante volte nel passato lontano e recente. La guerra dei Modoc, scoppiata quand’egli aveva circa quindici anni, e quella dei Bannock, di cinque anni dopo – che coinvolse gli stessi Paiute – costituivano esempi eloquenti dell’impotenza militare indiana.
Ma oltre a tali considerazioni, basate su dati obiettivi e incontrovertibili, forse anche altre ragioni ispirarono il pacifismo proprio della dottrina di Wovoka. Egli sembra aver intuito che il salvatore armato di spada è, alla fine, comunque perdente, anche là dove sembra ottenere dei successi materiali immediati. L’esempio di Gesù Cristo, che ordina a san Pietro di rimettere la spada nel fodero e che affronta la prova tremenda della croce per insegnare la forza indistruttibile dello spirito, era predicato appunto dai missionari i quali, forse, non si rendevano conto di tutte le sue implicazioni nel contesto della presente realtà indiana. Essi insegnavano che Gesù aveva vinto lasciandosi vincere. Questa fu la grande lezione appresa dal messia paiute, la quale da sola basterebbe a porlo parecchio più in alto, dal punto di vista etico, di tutti i profeti indiani che l’avevano preceduto.