Il periodo d’oro
A cura di Domenico Rizzi
Link dello speciale sul genere western: 1) Il tesoro del west, 2) Il trionfo della leggenda, 3) L’ascesa del western, 4) Il periodo d’oro, 5) Ombre rosa nella prateria, 6) Orizzonti sconfinati, 7) I sentieri del cinema, 8) Orizzonti sconfinati, 9) La quarta frontiera
Con Max Brand ed alcuni scrittori suoi contemporanei il western entrò nella sua fase “industriale”, cioè di produzione su vasta scala che registrava un interesse sempre crescente da parte del pubblico.
Questa performance, se da un lato spinse il genere ai suoi massimi livelli quantitativi, finì a volte per penalizzarlo sotto l’aspetto qualitativo.
Alla spontaneità dei “pionieri” della letteratura western dei primordi, si sostituì gradualmente il mestiere degli autori, che sfornavano le trame in rapidissima successione, talvolta senza badare eccessivamente ai contenuti. Parallelamente il cinema, che quasi sempre attingeva alle loro opere, diventò più selettivo e la critica non tardò a separare le pellicole cosiddette di “Serie A” dalle “B Movies”, che costituivano la maggior parte delle trame.
Tramontato il periodo in cui David Griffith, Thomas Ince e lo stesso Cecil De Mille cercavano di tenere alta la qualità del loro lavoro, subentrò un’invasione di western di discutibile fattura, realizzate a basso costo – generalmente con 4 o 5.000 dollari ciascuna – e con il solo scopo di proporre soggetti avventurosi che procurassero adeguati introiti.
Dal 1910 in poi, quasi un decennio prima che le “pulp magazines” cominciassero a penetrare fortemente nel mercato, diverse compagnie cinematografiche, fra le quali la Centaur, la Bison, la Vitagraph e la Biograph, si buttarono a capofitto nel western. Intanto Thomas Alva Edison, l’iniziatore assoluto dell’avventura sugli schermi nel 1894, si era associato a William Selig e ad altre otto società per creare la Trust. Come conseguenza, dal 1909 al 1915 vennero girati 700 western, nella stragrande maggioranza “B Movies”. Soltanto nel 1909 ne vennero prodotti circa 200 e l’anno successivo 150: di questi, meno del 10 per cento rientravano nel novero dei “film d’autore”.
Thomas Alva Edison
La produzione massiccia e indiscriminata portò, nell’arco di un ventennio, alla prima seria crisi del genere. All’avvento del sonoro, negli Anni Venti – il primo film con sonoro sincronizzato, “Don Giovanni e Lucrezia Borgia” prodotto dalla Warner Bros., fu proiettato in USA nell’agosto 1926 – il western occupava una fetta di mercato pari al 20 per cento dell’intera produzione cinematografica, ma dal 1929 al 1934 tale percentuale precipitò a poco più del 15%. Nel quinquennio successivo rimontò la china e quando uscì sugli schermi “Ombre Rosse”, il genere aveva riguadagnato una quota del 25 per cento, che salirà di altri cinque o sei punti prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. Nel 1939, l’anno in cui Ford portava a termine il suo capolavoro, venne prodotto anche il colossal “Via col vento”, della durata di 230 minuti e con la regia di Victor Fleming. Sebbene, in base ad una vecchia classificazione rientrasse propriamente nelle “Civil War Stories”, non fu difficile associarlo al genere western, che consolidò così la sua formidabile ascesa.
La letteratura sul tema, si è detto, annovera grandi firme nel periodo tra il primo ed il secondo conflitto mondiale, ma le osservazioni in merito sono parecchie.
Cominciando da Max Brand, che monopolizzò gli spazi delle “pulp magazines”, orientando di fatto molte scelte cinematografiche del periodo, si riscontra un allontanamento dalle atmosfere create da Owen Wister e Zane Grey, così come dall’epoca romantica.
Zane Grey a cavallo
Lo scrittore, per usare le parole di un critico “non sapeva nulla del West del passato, ma creò un West uguale a quello che la gente immaginava… non tentò mai di esprimere una consapevolezza dell’importanza storica del periodo che descriveva” (J. L. Leutrat-S. Liandrat Guigues, “Le carte del Western”, Le Mani, Genova, 1993). Un giudizio difficilmente contestabile, dal momento che lo stesso Brand si vantò con un altro autore, di “avere scritto trecento libri usando sempre la medesima trama”, con la trasformazione dell’eroe positivo in malvagio e viceversa e modificando di volta in volta situazioni e parti per ricavarne sempre nuovi contesti.
Se ciò non è comunque sufficiente, ci mancherebbe, a considerare dozzinale la sua produzione, va riconosciuto che parecchie delle sue opere furono soprattutto commerciali, cioè indovinarono il gusto di un pubblico non troppo esigente, come egli stesso ammetteva.
Sulla stessa linea si muoveva un altro scrittore che, se non raggiunse la medesima fama, acquisì almeno il merito di padre del “western popolare”.
Frank Gruber, classe 1904 e nativo del Minnesota, aveva nel sangue l’aspirazione di narratore del West e dopo avere tentato vari lavori poco appaganti – fattorino, maschera del cinema, collaboratore di periodici – nel 1934 si trasferì a New York per fare lo scrittore di professione. Come nel caso di Brand – che egli avrebbe conosciuto personalmente nel 1943 in California, condividendone diversi punti di vista letterari – Gruber sfoderò romanzi e racconti in quantità, senza badare troppo alla credibilità dell’ambientazione storico-geografica, affidandosi quasi esclusivamente al proprio estro creativo. Per un lungo periodo si fondò economicamente sulla propria collaborazione con le “pulp magazines”, rimanendo a galla durante la Grande Depressione e scrivendo 200 racconti per una quarantina di riviste.
Un libro di Frank Gruber
Accettò poi, dopo essersi trasferito ad Hollywood nei prima Anni Quaranta, di fornire nuovi soggetti alle compagnie Warner Bros. e Republic, scrivendo circa 200 sceneggiature per il cinema e per la televisione.
Come già avevano fatto Max Brand ed altre penne celebri, anche Gruber alternò pubblicazioni western a polizieschi e thriller. I suoi romanzi sulla Frontiera furono complessivamente una sessantina, fra i quali primeggiano “The Marshall” (edito in Italia con il titolo “Lo sceriffo”) “The Navy Colt”, “Quantrell’s Raiders”, “The Curly Wolf” (“Il vendicatore sconosciuto”) “Fighting Man” (“Jim Dancer, l’uomo che uccide”) “Gunsight” (“Killer”) “Bugles West” (“Guerra nel West”). Tra i numerosi film ispirati ai suoi lavori, si possono ricordare “Sfida alla legge” del 1950, “Sentiero di guerra” (1951) “La cavalcata dei diavoli rossi” (1952) e “Pony Express” (1953), ma meritano una menzione particolare “La frustata”, diretto da John Sturges nel 1956, interpretato a Richard Widmark e Donna Reed e “Orizzonti lontani” di Gordon Douglas, con Alan Ladd e Virginia Mayo.
A parte “La frustata”, sceneggiato da Borden Chase, autore di altri prestigiosi lavori in quegli anni, la maggior parte delle altre pellicole che attinsero a Gruber vennero catalogate come “B Movies”, ma l’autore non se ne preoccupò più di tanto, consapevole di rivolgersi ad un pubblico che cercava nei libri l’azione, la suspense e le emozioni dell’avventura fine a se stessa. Peraltro, anche i produttori cinematografici gongolavano per avere a disposizione tanto materiale, seppure non molto selezionato, da portare sugli schermi.
Probabilmente anche influenzato da Brand, Frank Gruber giunse a tracciare una “summa” delle principali trame a cui il western si poteva ispirare, dicendosi convinto che qualsiasi soggetto si dovesse necessariamente ricondurre ad una delle casistiche elencate.
Ombre Rosse, Stagecoach
Le sue situazioni-tipo, invero semplicistiche come molti suoi romanzi, contemplavano la conquista del West (“The Railroad Story”) l’epopea del bestiame, caratterizzata da mandrie e cow-boys (“The Ranch Story”) la costruzione delle fortune dell’Ovest (“”The Empire Story”) il tema della vendetta (“The Revenge Story”) i conflitti fra cavalleria e Pellirosse (“The Cavalry and Indian Story”) il fenomeno del banditismo (“The Outlaw Story”) e la figura classica dell’uomo della legge (“The Marshal Story”) al quale egli aveva dedicato “The Marshall”, inventando la figura di Thaddeus Shay, divenuto sceriffo dell’ingrata cittadina di Alder City. Il cinema, perlomeno quello di serie B, contemplava invece 13 tipologie di base, secondo una nomenclatura ideata dallo storico William K. Everson.
Alla fine degli Anni Trenta, mentre gli Stati Uniti faticavano ancora a liberarsi dagli effetti della Grande Depressione, il western ebbe un’improvvisa rinascita, dovuta alla comparsa sugli schermi di “Ombre Rosse”, prodotto lo stesso anno in cui il regista George Marshall girava “Destry Rides Again” (“Partita d’azzardo”) tratto dall’opera di Max Brand, recitato da James Stewart e Marlene Dietrich.
Partita d’azzardo
L’autore di “Stagecoach”, Ernest Haycox, nativo di Portland, nell’Oregon, nel 1899, si era laureato in arte, specializzandosi nel giornalismo. Collaboratore della rivista “Collier’s Weekly” – sulla quale aveva pubblicato a puntate anche “Trouble Shooter”, da cui Cecil B. De Mille ricaverà nel 1939 il film “Union Pacific” – fu autore di 25 romanzi, fra cui “Man in the Saddle”, “The Wild Bunch”, “Bugles in the Afternoon”, “Alder Gulch” e di circa 300 racconti. Nel 2005 sarà proclamato, dalla Western Writers of America (WWA) uno dei migliori scrittori del ventesimo secolo.
Dopo “Ombre Rosse”, il cinema procedette nella sua marcia trionfale, buttando sul mercato film che avrebbero fatto epoca.
Nel 1940 Howard Hughes diresse “The Outlaw” (“Il mio corpo ti scalderà”, con Jack Buetel e Jane Russell) e nel 1941 tornava prepotentemente alla ribalta Raoul Walsh (autore de “Il grande sentiero” dieci anni prima) con un film storico-biografico che avrebbe lasciato il segno: “They Died With Their Boots On”, distribuito in Italia con il titolo “La storia del generale Custer”. Tutto ciò non rappresentava però che la punta dell’iceberg, rispetto a quanto il western avrebbe saputo esprimere tra la fine della seconda guerra mondiale ed il successivo decennio, periodo durante il quale si sarebbero affermati registi come Ford, Walsh, Howard Hawks, Robert Aldrich, Fred Zinneman, George Stevens e Nicholas Ray, abili sceneggiatori del calibro di Borden Chase e “novelists” come James Warner Bellah.
The Outlaw di Howard Hughes
Il newyorkese Frank Fowler, nato nel 1900, assunse lo pseudonimo di Borden Chase dopo il successo del suo romanzo “Sandhog” nel 1934, che lo spinse a trasferirsi ad Hollywood, forse anche per lasciarsi alle spalle un passato abbastanza scomodo di autista di un noto gangster italo-americano assassinato nel ’28 in un agguato ordinato da Al Capone.
Dopo avere pubblicato altri due romanzi, nel 1948 Chase dimostrò le sua capacità con “Non si può continuare ad uccidere” di Henry Levin e “Il Fiume Rosso” di Howard Hawks, magistralmente interpretato da John Wayne e Montgomery Clift. Per il secondo film, egli elaborò anche la sceneggiatura. Nel ’50 collaborò con Ray Enright a “Più forte dell’odio”, diretto in realtà da Raoul Walsh e lo stesso anno con Anthony Mann per la sceneggiatura di “Winchester 73”. In seguito scrisse e sceneggiò “Bend of the River” (“Là dove scende il fiume”, di Anthony Mann, 1952) e “The Far Country” (“Terra lontana”, Anthony Mann, 1954). Chase si spense nel 1971, dopo aver lasciato un’impronta significativa nella crescita del western sia letterario che cinematografico.
Nel 1927 era uscito un grande romanzo di un autore dalla misteriosa identità, che si firmava semplicemente B. Traven. Si trattava, secondo quanto confermò la moglie Rosa Elena Lujan al “New York Times” molti anni dopo la morte di Traven, avvenuta in Messico nel 1969, di uno scrittore di origine tedesca, il cui vero nome era Ret Marut, anarchico rivoluzionario ai tempi della Repubblica di Weimar ed emigrato poi in America. Secondo altre fonti, l’uomo, che a volte figura come Berick Traven Torsvan ed è ritenuto erroneamente originario di Chicago, sarebbe stato addirittura un figlio illegittimo del kaiser Guglielmo II di Prussia.
Il Tesoro Della Sierra Madre
La sua opera maggiore, per quanto non si possa annoverare rigorosamente fra i western puri, è “Il tesoro della Sierra Madre”, ambientata nel Messico dei primi decenni del Novecento. Ne sono protagonisti tre cercatori d’oro, che, dopo la scoperta del prezioso metallo, diventano nemici: due di essi seguiranno il sentiero della saggezza, l’altro finirà male. Traven riesce a dar vita ad una storia avvincente, sostenuta da uno stile sobrio ed incisivo, tanto nella descrizione dei suoi protagonisti (“Dobbs non aveva né una valigia, né una scatola di cartone, né un sacchetto di carta. Tutto ciò che possedeva in questo mondo lo portava nelle tasche dei pantaloni…Era cresciuto in una dinamica città americana e non aveva neanche l’ombra della pazienza indispensabile per la pesca dei granchi. Non ne avrebbe preso uno nemmeno in tre settimane”) quanto nell’ironico fatalismo che accompagna la conclusione della storia (“E così abbiamo lavorato, faticato e sofferto come galeotti per puro diletto…Penso tuttavia che sia stato un bellissimo scherzo, uno scherzo giocato a noi e ai banditi dal buon Dio, o dal destino, o dalla natura…L’oro è tornato là dove lo avevamo preso”).
Il cinema svilupperà questa trama nel 1948, con la regia di John Huston e la superba interpretazione di Humphrey Bogart e Tim Holt, conquistando ben 3 Oscar per il miglior regista (John Huston) il miglior attore non protagonista (Walter Huston, padre di John) e la miglior sceneggiatura (John Huston). Nel 1998 l’American Film Institute lo classificherà al 30° posto fra i cento migliori film di tutti i tempi.
Il western era entrato nel suo periodo d’oro, che sarebbe proseguito anche negli Anni Cinquanta, attingendo ai capolavori di scrittori di grande trasporto narrativo e dalla potenza espressiva ineguagliabile.
Uno di questi fu Alfred Bertram Guthrie Jr., conosciuto semplicemente come A.B. Guthrie Jr., nato nell’Indiana nel 1901 e trasferitosi poi nello Stato del Montana. Corrispondente e reporter per oltre vent’anni, si mise a scrivere romanzi nel 1944 e tre anni dopo pubblicò la sua prima perla: “The Big Sky” (“Il grande cielo”) destinato a rimanere negli annali della letteratura e della cinematografia western.
La locandina di The Big Sky
Il libro narra le avventure di due giovani, Deakin e Boone, aggregatisi ad una spedizione di “trappers” diretta nel Montana, un viaggio che si snoda tra rischi e pericoli di ogni genere, fra i quali non mancano gli attacchi degli Indiani. Condividendo l’opinione dei critici, forse nessun altro romanzo risultò mai tanto rappresentativo dell’epopea dei “mountain men”, al punto che “Il grande cielo” può essere assimilato ad un’opera storica sul periodo della prima conquista del West.
Le descrizioni delle rudi abitudini dei cacciatori e di una natura incontaminata, dei non sempre facili rapporti con le tribù pellirosse, la navigazione a ritroso sul Grande Fangoso, il Missouri, tracciate con uno stile narrativo scarno che ricorda Hemingway, fanno de “Il grande cielo” un capolavoro della narrativa americana. La RKO non si lasciò sfuggire la ghiotta occasione e Howard Hawks ingaggiò il bravo Dudley Nichols, lo sceneggiatore preferito da John Ford per realizzare un grande film, con un cast che comprendeva Kirk Douglas, Dewey Martin, Arthur Hunnicutt ed Elizabeth Threatt, quest’ultima nella parte della squaw Occhio d’Anitra.
Guthrie avrebbe ripetuto il successo de “Il grande cielo” di lì a poco, scrivendo nel 1949 “The Way West” (“La via del West”) vincitore del premio Pulitzer e, molti anni più tardi (1967) trama di un drammatico film diretto da Andrew Victor Mc Laglen, con l’interpretazione di Kirk Douglas, Richard Widmark, Robert Mitchum e Sally Field .
The Way West
Fra gli scrittori che ispirarono, con i loro racconti, le storie del grande schermo, merita un posto d’onore anche James Warner Bellah, newyorkese e coetaneo di Haycox, che, dopo avere fatto il giornalista per il “New York Post” negli Anni Trenta, emerse come autore di 19 romanzi, da alcuni dei quali nasceranno le più celebri pellicole di John Ford.
Dal racconto “Massacre”, scaturì infatti l’idea per “Fort Apache” (“Il massacro di Fort Apache”) prodotto nel 1948; da “War Party” una delle migliori opere cinematografiche di Ford, “She Wore A Yellow Ribbon” (“I cavalieri del Nord-Ovest”, 1949); da “Mission With No Record”, un altro successo personale di John Wayne, il celebre “Rio Grande” (1950) che in Italia assunse il titolo di “Rio Bravo”. Ma Bellah sceneggiò altri due importanti film del regista di origine irlandese: “Sergeant Rutledge” (“I dannati e gli eroi”, 1960) e “The Man Who Shot Liberty Valance” (“L’uomo che uccise Liberty Valance”, 1962).
E’ significativo che John Ford avesse sempre ispirato i suoi copioni ad opere che considerava dei classici della Frontiera, lasciando perdere autori fin troppo sfruttati come Brand e Gruber, ai quali, probabilmente, egli non credeva fino in fondo.
My Darling Clementine
Il West che lo affascinava era quello descritto da Ernest Haycox, Warner Bellah, Alan Le May, Dorothy M. Johnson, Harold Sinclair (“Horse Soldiers”, “Soldati a cavallo”, 1959) ma anche dai saggi biografici di Sam Hellman e Stuart Lake (“My Darling Clementine”, 1946, “Sfida infernale” nella versione italiana) e da scrittrici come Mari Sandoz (“Cheyenne Autumn”, “Il grande sentiero”, 1964) che narravano la verità dell’epopea attraverso i suoi personaggi reali (Wyatt Earp, Doc Holliday, il condottiero Cavallo Pazzo) seppure prendendosi molte libertà.
Negli anni dell’immediato dopoguerra, il western occupava saldamente un posto importante nella cinematografia americana e la sua crescita era costante. Sarebbe continuata per almeno quindici anni, prima di imboccare una fatale parabola discendente, portando sugli schermi di tutto il mondo le sue storie migliori, quelle che avrebbero lasciato una traccia indelebile, illuminando i cineasti dell’era più moderna.