La feroce mattanza di Torreón

A cura di Giampaolo Galli

Soldati messicani a Torreon
All’alba del 15 maggio 1911, le truppe rivoluzionarie di Francisco Madero, facevano irruzione nella città di Torreón, abbandonata nella notte dall’esercito federale di Porfirio Diaz.
La selvaggia carneficina che ne seguì, fu una delle pagine più cruente della storia messicana, una macchia indelebile per gli ideali di giustizia, progresso e uguaglianza sociale, promossi dagli stessi artefici della Rivoluzione.
Verso la fine dell’800, sotto la guida del presidente dittatore Porfirio Diaz, il Messico fu protagonista di un intenso sviluppo economico, che portò a una massiccia immigrazione di manodopera dai paesi confinanti, dall’Europa e dall’Asia.
Tra le misure atte a favorire le azioni diplomatiche e gli investimenti stranieri, venne siglato nel 1899, tra il governo messicano e la Cina, il Treaty of Amity, Commerce and Navigation, grazie al quale furono allacciate solide relazioni commerciali tra i due Paesi.
In pochi anni, l’esigua comunità cinese presente in Messico sin dalla fine del XVII secolo, vide aumentare in modo considerevole il numero dei propri connazionali. Impiegati in numerose attività manifatturiere, agricole e in piccole imprese locali, floride comunità di immigrati provenienti dalla Cina, sorsero come funghi in diversi distretti del nord. Tuttavia la rampante imprenditoria orientale si attirò ben presto il sospetto e l’ostilità dei messicani, soprattutto della piccola borghesia, che vedeva in loro dei formidabili concorrenti, nonché un pericolo per l’integrità economica dello Stato. Lo stesso presidente Porfirio Diaz, che all’inizio aveva favorito l’immigrazione di manodopera a basso costo dall’Asia, tentò di fare marcia indietro sull’onda del crescente malcontento popolare, ma i pregiudizi popolari, il razzismo e il desiderio di stroncare ogni ingerenza straniera nel Paese, esacerbarono gli animi di ampi strati della popolazione.
Francisco Madero, principale avversario politico di Diaz, si candidò alle elezioni presidenziali del 1910, ma il vecchio dittatore – temendo di essere spodestato dopo trent’anni di potere incontrastato – incarcerò lo sfidante a San Luìs de Potosì, con la scusa di esercitare attività sovversiva.
Grazie ai brogli elettorali, Diaz vinse nuovamente le elezioni e Madero venne costretto all’esilio a San Antonio, Texas. Da qui, con l’aiuto di altri membri della sua cerchia, tra cui suo fratello Emilio, Madero redasse il cosiddetto Piano di Potosì, il manifesto da cui prese avvio la Rivoluzione Messicana.
In sostanza si ripristinavano i principi democratici del sistema politico messicano, vennero dichiarate nulle le ultime elezioni presidenziali e Porfirio Diaz fu delegittimato di ogni autorità.
Il 20 novembre del 1910 Francisco Madero riattraversò il Rio Grande alla testa delle sue truppe proclamando l’insurrezione armata in tutto il Paese.
L’inizio delle ostilità furono da subito favorevoli ai ribelli, grazie al supporto della popolazione, che aderì in massa alla causa rivoluzionaria. Diversi focolai divamparono in tutto il Messico, da nord a sud, e il 10 maggio del 1911, dopo aver ricevuto l’appoggio dei ribelli guidati da Pascual Orozco e Francisco (Pancho) Villa, le truppe maderiste espugnarono Ciudad Juarez, il centro più importante sul Rio Grande, confinante con la città di El Paso, negli Stati Uniti.
Dopo la conquista dell’estremo nord, l’esercito rivoluzionario si mise in marcia verso Torreón e Chihuahua, ancora presidiate dalle truppe governative di Diaz.
Nel frattempo, il 5 maggio 1911, il leader rivoluzionario Jesus Flores, con un proclama pubblico a Gomez Palacio (Durango), dichiarò che i cinesi “Avevano tolto il lavoro alle donne messicane, detenevano ormai il monopolio delle attività agricole e avevano accumulato alle spalle del popolo enormi quantità di ricchezza che spedivano al loro paese d’origine; inoltre insidiavano con insistenza le donne locali“. Il documento si concludeva con la richiesta di espulsione dal Messico di tutti gli immigrati cinesi. Ciò non solo era necessario – sosteneva Flores – ma era dovere precipuo di ogni patriota messicano.


Maderisti entrano a Torreon

Woo Lam Po, presidente del Banco Chino, dopo l’emanazione del proclama, inviò una lettera a tutti i membri della comunità cinese di Torreón, mettendoli in guardia sul pericolo di possibili disordini e violenze.
“Fratelli, attenzione! Attenzione! Si tratta di una faccenda grave. In questi mesi sono già accaduti molti atti di prevaricazione da parte dei rivoluzionari. Alle 10.00 di questa mattina abbiamo ricevuto notizia che i ribelli hanno appena riunito le loro forze per scatenare un attacco contro la città. Il rischio di una sollevazione popolare e di un saccheggio delle nostre attività durante gli scontri, è molto alto. Per tale motivo vi consigliamo di rimanere nelle vostre case e di sprangare porte e finestre non appena cominceranno a formarsi delle folle o degli assembramenti nelle vie. Nascondetevi e non uscite per alcuna ragione, né per lavoro e tantomeno per curiosità. Se qualcuno dei vostri negozi verrà saccheggiato, non opponete resistenza e lasciate che prendano ciò che vogliono, ne va delle vostre vite! Questa è una comunicazione di primaria importanza. Dopo i disordini cercheremo di indennizzare tutti coloro che avranno subito gravi perdite economiche.”
I primi scontri avvennero la mattina del 13 maggio. I ribelli avevano cinto d’assedio Torreón, e sferrarono il primo attacco nella periferia orientale, avanzando attraverso il pajonal, un’ampia distesa di prateria e coltivazioni. Gran parte dei poderi appartenevano a famiglie cinesi, le cui fattorie vennero occupate dalle milizie maderiste e usate come fortificazioni da cui scatenare gli assalti contro i militari governativi asserragliati in città. Il comandante in capo delle truppe federali, il generale Lojero, contava appena 700 soldati, mentre l’esercito rivoluzionario ammontava a diverse migliaia di uomini, molti dei quali contadini, accorsi dai centri vicini per rinforzare le fila dei ribelli. Dopo quasi due giorni di scontri e a corto di munizioni, il generale Emiliano Lojero prese la tragica decisione di abbandonare la città al suo destino e di mettere in salvo ciò che restava del suo contingente militare. La notte tra il 14 e 15 maggio, approfittando dell’oscurità e di un violento temporale, le truppe federali si misero in marcia attraverso il canyon del Huarache, lasciando campo aperto al nemico.
Quando le avanguardie maderiste entrarono a Torreón, non vi fu alcuna resistenza da parte della popolazione e molti cittadini si unirono a loro nel saccheggio. L’azione si concentrò fin da subito nel distretto commerciale, sede delle attività economiche più importanti della città, molte delle quali erano proprietà di immigrati cinesi. Anche Jesùs Flores era presente tra i ribelli, e rinfocolò gli animi dei suoi compatrioti, definendo i cinesi “avversari pericolosi da sterminare”.


Corpi di cinesi tra i rivoluzionari

Dopo aver liberato i detenuti dal carcere, molti dei quali erano simpatizzanti della rivoluzione, le milizie ribelli si abbandonarono a un’orgia indicibile di soprusi e violenze. Le terribili testimonianze di coloro che assistettero (o parteciparono a vario titolo) alla mattanza, parlano di persone trascinate fuori dalle loro case e fatte a pezzi coi machete e le scuri, donne violentate e mutilate, infanti sbattuti contro i muri delle case fino a spaccarne il cranio, intere famiglie defenestrate e fatte a pezzi nella via, corpi squartati e trascinati dai cavalli.
Questa galleria degli orrori durò per ben dieci ore, fino alle 4.00 del pomeriggio del 15 maggio, quando Emilio Madero, il fratello di Francisco, e comandante in capo dell’esercito rivoluzionario della Laguna, giunse in città alla testa delle sue truppe.
Madero diede immediatamente l’ordine di cessare ogni tipo di violenza e saccheggio, e riunì i cinesi sopravvissuti in un grande edificio, guardato a vista da un picchetto armato. I cadaveri dei cittadini messicani furono inumati nel cimitero, mentre quelli degli stranieri, raccolti nelle vie della città, vennero sepolti in una fossa comune.
Il giorno stesso fu istituita una corte marziale per far luce sulle atrocità compiute dalle avanguardie maderiste, ma i capi rivoluzionari si difesero strenuamente, sostenendo di aver agito in propria difesa. Dichiararono infatti che i cinesi avevano preso parte attiva negli scontri dopo l’abbandono della città da parte delle truppe federali. Nel timore di perdere il sostegno di molti ufficiali ribelli, la Commissione assecondò in parte tali menzogne e ben pochi furono ritenuti responsabili dell’eccidio.
Dopo il massacro, moltissimi cinesi abbandonarono Torreón e le altre città del nord, e con una lunga marcia arrivarono a Guadalajara, dove chiesero di essere rimpatriati nel loro paese. Per diversi mesi, gli averi personali dei cinesi, trafugati durante la feroce mattanza, continuarono a essere venduti e scambiati nei mercati messicani, come se nulla fosse mai avvenuto.


Corpi delle vittime traspostati su un carretto

Il numero totale delle vittime accertate fra gli stranieri, fu di 303 cinesi, 5 giapponesi, 12 spagnoli e un tedesco. Anche tra i messicani ci furono alcuni morti: 25 filogovernativi, 26 rivoluzionari maderisti e 21 passanti.
Il danno economico del saccheggio fu ingente e difficilmente quantificabile. Tra le proprietà distrutte vi furono El Banco Chino, il Chinese Club, quaranta fattorie, cinque ristoranti, dieci negozi di frutta e verdura, quattro lavanderie e una ventina di chioschi. Alle attività commerciali vanno aggiunti un centinaio di altri fabbricati e un numero imprecisato di abitazioni private. Molti edifici furono letteralmente sventrati e bruciati dal lancio di candelotti di dinamite e bombe incendiarie. Nella furia xenofoba che sconvolse i rivoluzionari, non furono risparmiati nemmeno gli esercizi commerciali di cittadini americani, arabi, tedeschi, spagnoli e turchi. Tra gli altri edifici devastati o dati alle fiamme vi furono il Casinò, il tribunale, le carceri, la sede del comando di polizia e la tesoreria municipale.
Nel giugno 1911, dopo che Francisco Madero aveva ormai preso il potere sostituendosi a Porfirio Diaz, la Cina avanzò una pesante richiesta di risarcimento pari a 100.000 pesos per ogni connazionale ucciso. La cifra complessiva dell’indennizzo ammontava a oltre trenta milioni, e per forzare la mano al nuovo Governo Messicano, non ancora istituito formalmente e riluttante al pagamento di una somma così elevata, la Cina inviò la cannoniera Hai Chi nelle acque del Golfo del Messico. Gli Stati Uniti, allarmati dall’escalation di una grave crisi internazionale alle porte di casa, indussero i cinesi a temporeggiare, e la Hai Chi rimase alla fonda a Cuba fino all’istituzione formale del nuovo Governo.


Maderisti festeggiano dopo i fatti di Torreon

Nel frattempo la Cina, non riuscendo a ottenere un pieno appoggio da parte degli Stati Uniti nella difficile trattativa, ridimensionò l’importo della richiesta da trenta a sei milioni di pesos, oltre alla garanzia di un processo per i responsabili dell’eccidio e la protezione per tutti i connazionali ancora presenti sul suolo messicano.
L’accordo tra Pechino e Città del Messico venne finalmente siglato il 12 novembre 1912 con un ulteriore abbassamento dell’indennizzo, che passò a poco più di tre milioni di pesos, da versare nelle casse cinesi entro febbraio dell’anno seguente. Il 22 febbraio però Madero venne assassinato e il Messico precipitò nuovamente nel caos della Rivoluzione e nel collasso economico. Venne quindi avanzata la proposta di estinguere il contenzioso in bond e successivamente in argento, ma alla fine tutto si risolse in una bolla di sapone e il rimborso non venne mai pagato.
In quanto al processo, solo una ventina di esecutori materiali della mattanza, furono effettivamente messi in stato di arresto.
L’episodio di Torreón non fu un caso isolato. Solo nel primo anno della Rivoluzione vennero giustiziati sommariamente altri 324 cinesi in varie zone del Paese, a cui se ne aggiunsero 129 a Città del Messico nel 1919, e ben 374 a Piedras Negras, sul Rio Grande. Le vessazioni e i crimini contro la comunità asiatica cessarono appena nel 1931, dopo la cacciata degli ultimi cinesi dallo stato di Sonora.
Dopo ben dieci anni di disordini, dal 1910 al 1920, la Rivoluzione costò un enorme tributo di vite umane al Paese. Gli storici calcolano che furono uccise circa un milione e cinquecentomila persone tra civili e militari, circa due volte e mezzo il numero dei caduti italiani nella Grande Guerra.

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