Le guerre indiane dal 1680 al 1840 – 14
A cura di Domenico Rizzi
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UN BAGNO DI SANGUE
Il 39° Battaglione Fanteria fu il primo ad irrompere nella postazione fortificata, perdendo subito un maggiore ed alcuni soldati. Poi il grosso delle truppe di Jackson avanzò risolutamente incontro agli Indiani, con le baionette inastate.
Diversi Creek, comprendendo che la battaglia era perduta in partenza, cercarono scampo verso il fiume, ma i tiratori scelti li sterminarono senza pietà, uccidendo anche coloro che tentavano di salvarsi a nuoto. Comunque, la maggior parte dei guerrieri – che erano comandati da Menawa – si mostrarono determinati a resistere ad oltranza, nonostante la schiacciante superiorità numerica degli avversari.
Anche in questa occasione, il fanatismo religioso contribuì ad accrescere il numero delle vittime, perché gli sciamani avevano profetizzato che una grossa nube sarebbe apparsa nel cielo, assicurando la vittoria ai Creek. Il caso volle che l’evento accadesse realmente proprio nella fase culminante dello scontro: infatti una nube si formò improvvisamente all’orizzonte, galvanizzando gli uomini di Menawa, che contrattaccarono disperatamente, esponendosi al micidiale fuoco del nemico. Poco dopo, uno scroscio di pioggia disperse sul terreno il sangue che sgorgava dai cadaveri e dai feriti, tingendo il suolo di un rosso cupo.
Il prodigio non si era compiuto e la tragedia sembrava ancora più immane.
Su 900 combattenti indiani che avevano partecipato al combattimento, 557 giacevano a terra, morti o in fin di vita. Altri 200 erano periti nel fiume, annegati o fucilati senza pietà dai cecchini di Jackson. L’ultimo nucleo di resistenti, trinceratosi in un crepaccio, fu stanato e sterminato con frecce incendiarie, che Cherokee e Creek alleati degli Americani avevano confezionato allo scopo. Per un increscioso errore, come si giustificò in seguito Jackson, anche alcune donne erano state uccise dai proiettili dei suoi soldati.
La battaglia di Horseshoe Bend si concluse al tramonto.
La resa di Aquila Rossa
Le perdite statunitensi consistevano in 49 morti e 154 feriti, ai quali andavano aggiunti i 18 caduti ed i 36 feriti degli ausiliari indiani. Fra i militari colpiti dalle frecce dei Pellirosse vi era anche il terzo luogotenente Sam Houston, l’uomo che a distanza di vent’anni avrebbe diretto l’insurrezione del Texas contro i Messicani del generale Santa Anna, diventando il primo presidente dello Stato indipendente.
William Weatherford non aveva partecipato allo scontro e inutilmente Jackson lo fece cercare fra i morti e i prigionieri. Quanto al condottiero Menawa, l’’uomo che aveva diretto l’estrema resistenza dei Creek, era fuggito con un certo numero di seguaci – forse 200 persone – verso la Florida, dove contava di unirsi ai Seminole.
Qualche giorno dopo, un uomo di alta statura e carnagione chiara si presentò senza preavviso ad Andrew Jackson, che sostava ad Hickory Ground. Con fierezza e senza tentennamenti dichiarò: “Io sono William Weatherford”. Poi disse allo sbigottito generale: “Sono venuto ad arrendermi… Non posso più opporre resistenza… I miei guerrieri sono morti. Disponete di me come volete.” (Tebbel, Jennison, op. cit. p.119).
Era un uomo triste e disilluso, che non nutriva più alcuna speranza nella possibilità di riscatto del suo popolo.
In meno di cinque mesi, nelle due battaglie principali di Talladega e Horseshoe Bend, i Creek avevano riportato 1.100 morti, centinaia erano i feriti e ingenti le distruzioni subite. Ma non era soltanto questo ad amareggiare Aquila Rossa: la nazione si era disunita, molti suoi contribali avevano parteggiato per gli Americani e gli sciamani si erano dimostrati per l’ennesima volta dei ciarlatani.
Perciò quando si presentò al generale Jackson, quest’uomo afflitto gli parlò con sincerità: “Sono profondamente addolorato per le miserie e le disgrazie toccate fino ad ora al mio paese e voglio evitare ad esso altre maggiori calamità. Se avessi avuto da combattere solo contro l’esercito della Georgia, avrei coltivato il grano su una riva del fiume e sull’altra avrei combattuto. Ma i tuoi soldati hanno distrutto la mia nazione, tu sei un valoroso ed io mi affido alla tua generosità. Da un popolo vinto tu non pretenderai il pagamento di tributi maggiori di quanto esso non possa sostenere.” (Charles Hamilton, “Sul sentiero di guerra”, Feltrinelli, Milano, 1982, pp. 203-04).
La fuga di Aquila Rossa
Per decisione di Jackson, Weatherford venne lasciato in libertà e si ritirò a coltivare la terra in un luogo della contea di Monroe, in Alabama. Nel 1817 rimase vedovo della seconda moglie Sapoth Tlanie e si sposò di nuovo, questa volta con una donna bianca di nome Mary Stiggins. Morì il 9 marzo 1824, all’età presunta di soli 44 anni.
Dopo la sconfitta, la strada per il suo popolo diventò tutta in salita.
Il 9 agosto 1814 Jackson impose ai Creek un oneroso trattato – siglato a Fort Jackson – obbligandoli a cedere 23 milioni di acri di territorio, equivalenti a 93.000 chilometri quadrati (quattro volte le dimensioni della Lombardia). Anche i Cherokee che avevano sostenuto la campagna contro Weatherford ne reclamarono una parte, ma il fatto più sorprendente fu che fra le terre confiscate vi erano anche quelle appartenenti ai Creek rimasti fedeli a Jackson.
In realtà si trattava di una conclusione già ripetutasi molte volte in passato. Inutilmente Grande Guerriero e Shelokta si recarono dal generale per protestare.
Chi non ne aveva voluto sapere di negoziare con i vincitori, come Menawa, si era rifugiato nella Florida spagnola dove gli Inglesi stavano rafforzando la propria presenza militare.
La tribù dei Seminole, dello stesso ceppo etnico linguistico dei Creek, rappresentava per questi disperati l’ultimo rifugio possibile.
LA QUESTIONE DELLA FLORIDA
La definitiva disfatta inferta ai Creek e ancora di più la sfolgorante vitttoria contro gli Inglesi di Lord Packenham, ottenuta nelle paludi intorno a New Orleans nel gennaio 1815, avevano collocato Andrew Jackson su un piedistallo dal quale sarebbe stato quasi impossibile scalzarlo.
Sebbene il successo contro le forze britanniche fosse stato conseguito a guerra già terminata – la notizia della fine delle ostilità con il trattato di Gand del dicembre 1814 giunse a New York l’11 febbraio successivo – gli Stati Uniti ne andavano fieri, perché aveva umiliato la tracotanza del loro principale nemico del momento, riscattando la poco onorevole fuga del presidente James Madison dalla capitale.
L’unione nordamericana contava ora 18 Stati, con una popolazione complessiva di 9 milioni di abitanti. Altri 4 territori – Alabama, Illinois, Indiana e Mississippi – stavano per essere innalzati al rango di Stati membri.
Conclusa la guerra che riguardava anche la questione della frontiera canadese – praticamente irrisolta da ambo le parti – un problema che si presentava agli Americani era quello del confine meridionale, rappresentato dalla Florida. Nonostante fossero già state tentate varie trattative con la Spagna, quest’ultima non sembrava affatto decisa a cederla al potente confinante. Il suo reiterato rifiuto irritava gli Stati Uniti soprattutto perché gli Spagnoli tolleravano tre cose che potevano costituire una minaccia. La prima era di permettere agli Inglesi di mantenere basi commerciali più o meno militarizzate nella penisola; la seconda risiedeva nella assoluta tolleranza ispanica verso gli schiavi neri fuggiti dalle piantagioni del Sud cotoniero, i quali trovavano spesso ospitalità fra i Pellirosse. Infine, il terzo motivo consisteva nell’aver lasciato affluire molti profughi creek dell’Alabama, aggiuntisi ai Seminole della zona per formare parte integrante delle loro tribù.
Se la prima ragione appariva la più seria, quest’ultima non scongiurava la possibilità di future incursioni contro i coloni americani da parte degli Indiani, che avrebbero poi potuto ripiegare in territorio spagnolo mettendosi al sicuro dalle rappresaglie dell’esercito.
Jackson aveva già avuto una dimostrazione di ciò, richiedendo nel 1814 la consegna di due capi creek fuggiti verso sud. Il comandante del presidio di Pensacola, don Mateo Gonzales Manrique, gli aveva risposto con fredda cortesia che l’istanza “non era pertinente”. A questo punto, un uomo come Old Hickory, investito del grado di generale comandante del fronte meridionale dal ministro della Guerra James Monroe, non avrebbe esitato a guidare le sue truppe in territorio spagnolo, ma una serie di ostacoli – soprattutto la campagna in corso contro gli Inglesi e l’imminente arrivo dei reparti di Packenham – gli impedivano un tale azzardo.
Intanto gli Inglesi, che non lasciavano nulla di intentato per contrastare gli odiati Americani, si erano dati da fare per guadagnarsi l’alleanza dei Creek e dei Seminole. Il tenente colonnello Edward Nicholls condusse addirittura una loro delegazione in Inghilterra, cementando un rapporto che stava diventando una vera e propria alleanza. Infatti, il capo seminole Josiah Francis, detto il Profeta, ritornò nel proprio paese con la nomina a generale di brigata dell’esercito britannico. Successivamente il colonnello Nicholls consegnò un avamposto situato sul fiume Apalachicola, circa 55 miglia a sud del confine con gli USA, agli amici Seminole. A fare ulteriormente indispettire gli Americani, stava anche il fatto che oltre 800 schiavi neri, avevano costituito una sorta di enclave nella regione circostante l’Apalachicola, con l’apparente consenso delle autorità spagnole. Erano quasi tutti fuggitivi delle piantagioni delle Caroline e della Georgia, risultavano armati fino ai denti ed almeno 250 di loro erano in grado di combattere. Sulla collina denominata Prospect Bluff, questi uomini avevano creato una fortificazione in terra battuta, dotandola perfino di qualche pezzo di artiglieria.
Jackson, che non ne era affatto all’oscuro, nell’aprile del 1816 scrisse al governatore di Pensacola, Mauricio de Zuniga, contestandogli che l’avamposto era “occupato da più di 250 neri” e concluse che l’evidente incapacità della Spagna di frenare la loro iniziativa avrebbe costretto gli Stati Uniti a “distruggerli per autodifesa” (Edwin C. Mc Reynolds, “I Seminole”, Rusconi Libri, Milano, 1990, p. 79). La risposta di Zuniga fu quasi sorprendente: i coloni spagnoli erano nella stessa condizione di quelli statunitensi d’oltre confine, perché dinanzi ad una minaccia del genere – costituita dai Neri e dagli Indiani – il suo presidio contava meno di 100 soldati regolari, ai quali si aggiungevano circa 300 fra moschettieri e truppe di colore, con scorte di polvere da sparo “nemmeno sufficienti per una scarica a salve” (Mc Reynolds, op. cit., p. 79) dal momento che il Capitano Generale di Cuba non sembrava intenzionato a fornirgli né uomini, né munizioni.
Di fronte ad una simile giustificazione, il governo americano decise di non perdere altro tempo. Il maggior generale onorario Edmund P. Gaines partì con un corpo di spedizione di 1.700 uomini per costruire Fort Scott sul Flint River, poco a settentrione del confine della Florida. Andrew Jackson criticò questo atteggiamento prudenziale, sostenendo che avrebbe preferito risolvere il problema in maniera definitiva, occupando militarmente la penisola, che gli Spagnoli, per loro stessa ammissione, non erano in grado di difendere.
In luglio l’avamposto ricevette i primi rifornimenti via acqua da New Orleans, ma alcune imbarcazioni vennero prese a fucilate dai Neri dell’Apalachicola. Allora il colonnello Duncan Clinch, dietro ordine di Gaines, marciò con 2 compagnie di fanti verso il forte di Prospect Bluff.
Lungo il cammino, una banda di Seminole in conflitto con i Neri, si unì al corpo di spedizione, rafforzandone la già notevole consistenza.
Il 27 luglio 1816 si accese la battaglia, durante la quale i difensori del fortino – fra cui si trovavano anche dei Choctaw – si difesero accanitamente contro Americani e Seminole. Sfortunatamente per loro, un proiettile d’artiglieria centrò in pieno il deposito delle polveri, facendolo esplodere con effetti devastanti. Morirono 270 Neri e Indiani, mentre dei 64 superstiti solo pochi sopravvissero alle gravi ferite riportate. I prigionieri, compreso il loro capo Garcon, furono consegnati da Clinch agli alleati Seminole, che ottennero anche di impossessarsi di tutte le armi requisite.
I SEMINOLE
La maggior parte degli studiosi ritiene che i Seminole siano soprattutto una derivazione dal ceppo creek, trasferitosi in Florida intorno al 1700. Probabilmente si trattava di qualche banda di Oconee ed Hitchiti, che si fuse con i resti di altre tribù della zona, come gli Apalachee, gli Yamassee ed i Timacua, tutte di lingua muskogee come i Cherokee, i Chickasaw, i Choctaw e gli stessi Creek.
Durante il periodo della colonizzazione spagnola, questi gruppi dovevano possedere una certa rilevanza numerica, perchè il vescovo cattolico Gabriel Diaz Vara Calderòn, vissuto fino al 1676, ne indicava oltre 13.000, contando solo quelli convertiti al Cristianesimo.
Al di là dell’origine precisa e dei resoconti lasciati dai conquistadores, all’epoca degli eventi descritti i Seminole potevano raggruppare forse 10.000 persone, se si accetta la stima effettuata dal generale Gaines, che quantificò i combattenti avversari in 2.700.
La tribù occupava comunque gran parte della penisola e contava 10 raggruppamenti principali: Mikasuki, Alachua, Apalachee, Apalachicola, Oconee, Sawoki, Tocabago, Ays, Tegesta e Chiaha. Dominatori delle estese foreste dell’interno e avvezzi a spingersi nelle paludi costiere (si avventuravano con piroghe e canoe fino all’isola di Cuba) i Seminole costruivano capanne simili a palafitte, con il tetto e le pareti formati da palmizi ed erbe palustri. Il loro nome tribale era Ikaniuksalgi, che significa “abitatori della penisola”.
L’intrusione americana nella Florida venne recepita subito come un segnale di pericolo, proprio perché Gaines, espugnando il forte dei Neri, aveva dato una dimostrazione dell’armamento e dell’organizzazione del suo esercito. I più avveduti fra i capi seminole, si dissero certi che gli uomini provenienti dagli Stati Uniti e non già gli inetti Spagnoli rappresentassero il nemico più minaccioso. Quelli invece che facevano ancora assegnamento sugli Inglesi si sbagliavano, perché l’influenza britannica nell’isola, dopo la severissima lezione impartita da Jackson agli Scozzesi di Packenham, era destinata ad estinguersi presto.
In effetti le prime avvisaglie delle intenzioni yankee si manifestarono nell’autunno del 1817.
L’attacco al villaggio di Fowltown
Il 21 novembre il maggiore David Twiggs assalì il villaggio di Fowltown, uccidendo 4 uomini e una donna e ferendone molti altri. Per ritorsione, il giorno 30 dello stesso mese i Seminole tesero un agguato ad una imbarcazione che navigava sul fiume Apalachicola, difesa da 40 soldati del tenente R.W. Scott, con a bordo anche 7 donne e 4 bambini. Questa volta l’azione dei Pellirosse ebbe maggior successo di quella di Twiggs, poiché soltanto 2 soldati riuscirono a raggiungere vivi Fort Scott. I Seminole avevano infatti ucciso, oltre a 38 soldati, tutti i fanciulli e 6 donne, risparmiandone una per catturarla e renderla schiava. Pochi giorni dopo, gli indiani ripeterono l’attacco contro 3 imbarcazioni scortate dal maggiore Peter Muhlenburgh, che salvò i propri uomini facendo ancorare gli scafi al centro del fiume, attesa di rinforzi da Fort Scott.
Il 16 dicembre 1817 il ministro della Guerra, John C. Calhoun, perse la pazienza e dispose che il generale Gaines fosse “pienamente libero di marciare oltre la linea di confine della Florida e assalirli all’interno di essa…a meno che quelli non cerchino riparo in una postazione militare spagnola” (Mc Reynolds, op. cit., p. 84).
L’INARRESTABILE JACKSON
L’elezione di James Monroe alla presidenza degli Stati Uniti e la conseguente assegnazione di Calhoun al dicastero della Guerra costituirono la vera svolta nell’annosa questione della penisola.
Verso la fine di dicembre, il ministrò ordinò a Jackson di pacificare il territorio della Georgia, eliminando le residue minacce portate dagli Indiani. Il generale non si accontentò dell’ordine ricevuto, ma scrisse a Monroe dichiarando di poter risolvere anche il problema della Florida in soli due mesi, invadendola con le sue truppe. Il presidente non lo autorizzò espressamente, ma gli lasciò intendere che avrebbe potuto svolgere, oltre all’operazione georgiana, “altri servizi”.
Ai primi di marzo del 1818, Old Hickory partì dal Tennessee con oltre 1.000 uomini e percorse 600 chilometri in 45 giorni, sfidando un clima piovoso che aveva trasformato la pista in un pantano. Raggiunto Fort Scott, rilevò il contingente di Gaines, formato da 800 soldati regolari e 900 miliziani. Poi, il 15 marzo Jackson varcò finalmente il confine della Florida.
I suoi agenti gli segnalarono quali fossero i principali sobillatori degli Indiani: principalmente i capi creek Peter Mc Queen e Francis il Profeta, manovrati dal capitano inglese George Woodbine e dal mercante scozzese Alexander Arbuthnot, che con i Seminole aveva fatto ottimi affari. Jackson sapeva però di poter contare sull’alleanza dei Creek di William Mc Intosh – investito del grado onorario di generale avuto dagli Americani – che in Georgia stavano dando la caccia alle ultime formazioni ribelli dei Bastoni Rossi, fuggiti dopo lo scontro di Horseshoe Bend.
In Florida, l’ignavia delle guarnigioni spagnole, numericamente scarse e abuliche, aveva praticamente permesso ai Britannici di fare il proprio gioco, creando una seria minaccia ai confini degli Stati Uniti.
Il piano di Jackson prevedeva la cattura del capo Boleck e lo sbaragliamento del suo contingente, valutato a circa 1.500 guerrieri. Secondo gli esperti, anche il condottiero King Hatchy disponeva di 1.000 uomini, mentre Oso Hatjo e Himashi Miso congiuntamente ne avevano agli ordini un altro migliaio. Probabilmente queste stime erano esagerate, ma a quell’epoca nessuno era in grado di dire precisamente quanti componenti avesse la nazione dei Seminole.
Alla metà di aprile, Jackson, che aveva occupato Prospect Bluff ribattezzandolo Fort Gadsden, venne raggiunto dai Creek di Mc Intosh, e da un reparto di volontari del Tennessee agli ordini del colonnello Edward Elliott. I tre corpi di spedizione unificati, proseguirono la loro avanzata nel paese, sulle tracce dei Seminole ribelli. In una località denominata Kenhagee’s Town, trovarono un palo dipinto di rosso con appese una cinquantina di capigliature: erano quelle che i Seminole avevano preso ai soldati di Scott sul fiume Apalachicola.
Andrew Jackson in Fflorida
Una disperata mossa dei fuggitivi – rifugiatisi nel presidio spagnolo di S. Marks – diede a Jackson il pretesto per compiere il colpo di mano che aspettava. Infatti non gli ci volle molto ad avere ragione dei difensori. Presa la fortificazione senza troppi sforzi, perché gli Indiani l’avevano già abbandonata, gli Americani riuscirono invece a catturare alcuni degli Inglesi a cui miravano, come Arbuthnot e Ambrister. Mentre il primo fu condannato subito all’impiccagione, la corte marziale istituita per l’occasione modificò l’iniziale sentenza di condanna alla fucilazione dell’ufficiale inglese in una pena detentiva preceduta dalla fustigazione. Ma Jackson, mostrandosi assolutamente contrario a “tanta clemenza”, chiese ed ottenne che anche Ambrister fosse appeso per il collo, cosa che avvenne il 29 aprile.
Pochi giorni dopo, l’inarrestabile generale riprese a guidare le sue truppe verso la fortezza spagnola di Pensacola, che cinse d’assedio il 25 maggio, puntandovi contro le sue artiglierie.
Il 28 maggio 1818, Jackson espugnò anche questa postazione, malamente difesa dalla guarnigione spagnola e andando oltre i suoi poteri, dichiarò l’annessione del territorio fin lì conquistato agli Stati Uniti d’America.
Nonostante le proteste delle autorità coloniali spagnole e le critiche di una parte del Congresso, gli Americani non sarebbero tornati sui loro passi. Infatti, il 22 febbraio 1819, a Washington il segretario di Stato John Quincy Adams e il plenipotenziario spagnolo Luis de Onis firmarono il trattato che cedeva la Florida agli Stati Uniti.
Mentre i soldati di Jackson assoggettavano gradualmente la regione, ai Seminole non rimaneva che ritirarsi di fronte alla loro avanzata.