Le guerre indiane dal 1680 al 1840 – 12
A cura di Domenico Rizzi
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LA MORTE DI TECUMSEH
I difficili rapporti esistenti fra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, soprattutto dopo l’incidente navale della primavera 1811 e l’intervento del ministro inglese Foster per allentare la tensione fra i due Paesi, avevano impedito al Canada di fornire alla coalizione di Tecumseh l’appoggio che il condottiero shawnee si aspettava. Ovviamente, dopo la dichiarazione di guerra americana, la prudenza britannica cedette il posto ad un’azione molto più decisa per assicurarsi l’alleanza dei Pellirosse. Infatti, gli Inglesi non potevano fare a meno di un sostegno tanto prezioso, ben sapendo che i Pellirosse avrebbero messo a loro disposizione la potenza devastante delle loro incursioni.
L’uomo che poteva ricompattare le tribù disperse da Harrison a Tippecanoe, era proprio Tecumseh, l’irriducibile sognatore che non rinunciava a giocarsi le residue speranze di dar vita ad uno Stato governato dagli Indiani.
Nella tarda estate del 1812, mentre i Potawatomie sterminavano la guarnigione di Fort Dearborn, il capo degli Shawnee raggiunse il territorio canadese per incontrare il generale Isaac Brock, governatore dell’Ontario, che gli accordò la sua piena fiducia, offrendogli di comandare le forze indiane alleate. Per questo incarico, Tecumseh si vide conferire il grado di generale di brigata, il più alto che fosse mai stato concesso ad un Pellerossa.
Orgoglioso e galvanizzato da un riconoscimento tanto elevato, Tecumseh dimenticò subito l’ambiguo comportamento inglese del passato e incominciò ad organizzare le sue forze per dimostrare con un’azione sul campo quanto il grado fosse meritato.
Poco tempo dopo partecipò infatti ad un assalto contro un contingente americana di 200 uomini del maggiore Thomas Van Horne, inviato dal generale William Hull, comandante della guarnigione di Detroit. La battaglia fu praticamente a senso unico e gli Indiani, affiancati da truppe inglesi, sbaragliarono nettamente l’avversario.
Nella primavera del 1813, Tecumseh era riuscito a mettere insieme 1.500 guerrieri, che si unirono ai 980 soldati e miliziani canadesi del colonnello Henry Proctor per sferrare un attacco contro la base americana di Fort Meighs, sul fiume Maumee. Il capo shawnee pensava che i quasi 2.500 uomini di cui disponeva il comandante inglese fossero più che sufficienti a travolgere le resistenze nemiche. Purtroppo Proctor non possedeva né il suo coraggio, né un minimo di audacia strategica. Tecumseh, che non vedeva l’ora di vendicare l’umiliazione di Tippecanoe e fremeva nell’attesa di scatenare i suoi guerrieri contro gli Statunitensi, doveva subire una cocente delusione, soprattutto quando venne a sapere che gli Americani – circa 1.100 uomini – erano guidati dal suo vecchio nemico, il generale William Henry Harrison, comandante delle truppe dell’Indiana e dell’Illinois.
Il 1° maggio 1813 Proctor decise di cingere d’assedio Fort Meighs, nella zona di confine, ma ciò non impedì agli Americani di ottenere rinforzi da Fort Defiance e l’ufficiale inglese, dopo essersi consultato con il suo stato maggiore e ignorando l’insistenza di Tecumseh, ordinò al proprio contingente di ritirarsi. Il capo shawnee dovette assistere impotente al ripiegamento dei 500 soldati regolari inglesi e di oltre 450 miliziani canadesi, che abbandonavano l’impresa pur avendo la possibilità di espugnare il presidio.
Proctor arretrò i suoi reparti verso la postazione di Fort Malden, dove ricevette ingenti rinforzi dagli Indiani dei territori di frontiera.
Il colonnello poteva disporre ora di una forza ragguardevole: 500 effettivi dell’esercito e più di 2.000 guerrieri pellirosse, posti al comando di Tecumseh. Il suo avversario era il generale Henry Clay, al quale Harrison aveva affidato il comando di Fort Meighs. Ancora una volta Proctor tergiversò, preferendo infine condurre, nella seconda metà di luglio, un assalto contro Fort Stephenson, sul fiume Sandusky, difeso dai 160 uomini del giovanissimo maggiore George Crochan.
Tecumseh ed i suoi Shawnee
Nonostante la schiacciante superiorità numerica, l’azione fallì miseramente, perché gli assediati scompigliarono gli assalti avversari con un cannone caricato a mitraglia, facendo un centinaio di morti e subendo una sola perdita. Sorpreso e disorientato, l’ufficiale britannico optò per una ritirata che non aveva nulla di onorevole, mandando Tecumseh su tutte le furie. Ormai, il condottiero pellerossa vedeva allontanarsi sempre di più la prospettiva di una vittoria contro gli Yankee e la creazione di un territorio indiano indipendente.
In settembre le forze navali degli Stati Uniti, sotto la guida dell’ammiraglio Perry, si assicuravano il controllo del Lago Erie, mentre Harrison, con 10.000 uomini, stazionava fra la Sandusky Bay e Port Clinton, in attesa di iniziare l’avanzata verso il nemico. Alla fine del mese era già entrato in territorio canadese con 2.000 soldati regolari e 3.000 miliziani, mentre l’avversario abbandonava precipitosamente Detroit, conquistata in precedenza. Cinque giorni dopo si mise all’inseguimento della colonna anglo-indiana, portandosi dietro circa 3.500 uomini.
Ormai anche la coalizione indiana si stava disgregando, perché 1.000 guerrieri avevano rinunciato a seguire Tecumseh, arrendendosi agli Americani. Per contro, Harrison si faceva precedere nella sua avanzata da 260 esploratori appartenenti alle tribù dei Wyandot, dei Seneca e persino degli Shawnee, guerrieri dissidenti che non approvavano la scelta di Tecumseh.
Proctor, spaventato dalla forza del suo avversario, prese un’altra delle sue maldestre decisioni, ordinando di ripiegare verso l’Ontario dopo avere fatto incendiare Fort Malden. Tuttavia, essendo tallonato abbastanza da vicino dalle truppe di Harrison e probabilmente rimbrottato da Tecumseh che lo aveva già accusato apertamente di vigliaccheria, il 5 ottobre 1813 accettò di sostenere lo scontro, sebbene in una posizione meramente difensiva.
Il suo esercito, 500 soldati del Quarantunesimo Fanteria ed un numero pari di alleati indiani – Shawnee, Delaware, Chippewa, Winnebago, Sauk e Fox, Potawatomie, Kickapoo ed elementi di altre tribù – si schierò in una zona pianeggiante lungo il fiume Thames, nei pressi di Moravian Town, che non sembraba affatto ottimale per la difesa. Tecumseh dispose i propri uomini lungo le rive boscose di un affluente, alla sinistra delle forze di Proctor.
Il colonnello Richard H. Johnson, che comandava 1.000 cavalleggeri del Kentucky, il reparto più incisivo dell’armata di Harrison, convinse il suo superiore dell’opportunità di condurre una carica a cavallo. Nelle prime ore del pomeriggio, dopo aver diviso le proprie forze in due grossi squadroni, ne lanciò uno contro gli Inglesi di Proctor e l’altro verso le postazioni difese da Tecumseh, che si trovavano al centro di un’area paludosa.
Le truppe britanniche furono subito travolte dagli impetuosi Kentuckiani di Johnson, fuggendo dopo aver lasciato 18 morti sul campo; invece gli Indiani si difesero accanitamente, impegnando un corpo a corpo furibondo. Ad un certo punto, mentre l’esito dello scontro permaneva estremamente incerto, un proiettile colpì Tecumseh ad un fianco, facendolo cadere da cavallo. I Pellirosse, vedendo il loro capo steso al suolo, si disunirono ed incominciarono a disperdersi, lasciando via libera all’avanzata di Harrison. Nei giorni successivi, molte bande di Chippewa, Delaware e Miami, scampati all’accerchiamento di Harrison, avrebbero abbandonato gli Inglesi per arrendersi alle truppe degli Stati Uniti.
I Britannici non avevano subito più di 50 perdite fra morti e feriti, i loro alleati indiani ne lamentavano una quarantina e complessivamente i prigionieri caduti nelle mani degli Americani erano 600, ma il fatto più importante risiedeva nella morte del grande Tecumseh. Prima della battaglia, il leader aveva profetizzato la propria fine: “Fratelli guerrieri, noi stiamo per iniziare un combattimento dal quale io non uscirò vivo, perché il mio corpo resterà sul terreno” (Charles Hamilton, “Sul sentiero di guerra”, Feltrinelli, Milano, 1982, p. 202).
Tecumseh
Erano le parole di un uomo triste, amareggiato e disilluso dal comportamento pusillanime dell’alleato inglese: infatti, prima che iniziasse lo scontro, si spogliò dell’uniforme di brigadier generale per indossare un abito di pelle di daino tipico della sua tribù.
Tecumseh voleva dunque presentarsi all’estremo appuntamento con il suo sfortunato destino nelle vesti di un vero Indiano.
Secondo fonti americane, il suo corpo venne martoriato per prelevare strisce di pelle da esibire come trofeo, ma alcuni Shawnee smentirono tale versione, sostenendo che il cadavere del condottiero venne portato via dai suoi guerrieri e sepolto in un luogo che i Bianchi non avrebbero mai scoperto.
Il colonnello Henry Proctor fu processato da un tribunale militare, che lo condannò, per l’incapacità dimostrata nel condurre le operazioni, alla sospensione dal grado, con privazione dello stipendio, per sei mesi. Inoltre l’ufficiale venne pubblicamente biasimato per la sua condotta e destinato in seguito a compiti secondari.
Tecumseh era caduto, all’età di 45 anni, mentre inseguiva un progetto impossibile.
Nessun altro leader politico o militare pellerossa sarebbe stato capace, nei successivi settant’anni, di concepire un disegno più grande del suo.
LE COLPE DEGLI INDIANI
L’auspicio delle tribù indiane era che la guerra anglo-americana si concludesse a favore dei Canadesi, magari con la conquista dell’area situata a sud dei Grandi Laghi, nella quale avrebbe potuto trovare spazio lo “stato cuscinetto” tanto agognato da Tecumseh. Invece, nonostante il successo britannico della temporanea conquista di Washington, il conflitto era destinato a spegnersi con un nulla di fatto.
Ciò che gli Indiani non sapevano era che nessuna delle due potenze belligeranti intendeva spingere la propria azione oltre un certo limite. Inoltre, gli Inglesi erano sicuramente in condizione di enorme svantaggio numerico. Il Canada non possedeva neppure un decimo degli abitanti degli Stati Uniti e avrebbe potuto schierare al massimo – ricorrendo ad un’eventuale mobilitazione generale – 100.000 uomini. Invece gli Americani disponevano di una forza potenziale di oltre 1 milione e mezzo di soldati. Dunque, se il conflitto fosse stato spinto alle sue estreme conseguenze, il Canada avrebbe dovuto farsi inviare dalla madrepatria almeno 1 milione di uomini di rinforzo, cosa del tutto impensabile e non facilmente ottenibile con i mezzi di trasporto dell’epoca. Nel 1812-14 l’Inghilterra aveva impegnato tutte le sue risorse nella guerra contro Napoleone e sicuramente non avrebbe messo a rischio la propria sicurezza nazionale per difendere i possedimenti d’oltre oceano.
Queste ragioni non erano facilmente comprensibili da parte delle tribù indiane degli Stati Uniti, che non avevano un’idea precisa né della nuova America dei Bianchi, né tantomeno della lontanissima Europa.
In ogni caso, il comportamento di alcune tribù del sud-est nei riguardi della coalizione di Tecumseh, benché amichevole, si era rivelato troppo attendista ed incerto. Il grande leader aveva chiesto apertamente di schierarsi dalla sua parte, sollecitando una decisione tempestiva ed un aiuto concreto in termini di uomini. Se i Creek fossero stati concordi nell’esaudire la sua richiesta, Tecumseh avrebbe potuto sostenere il confronto con Harrison con l’ausilio di almeno 5.000 guerrieri in più, anziché con lo sparuto migliaio di seguaci che si ritrovò a Tippecanoe il giorno dell’assalto decisivo. Ciò che molti storici, evidentemente di parte, si ostinano a non voler accettare, è che in ogni epoca i Pellirosse si comportarono da opportunisti, valutando esclusivamente la convenienza del momento nello stringere alleanze e nel dichiarare guerra all’avversario. Queste logiche suicide caratterizzarono la politica indiana fin dai primi sbarchi degli Europei nel Nuovo Mondo. Quando gli abitanti della potente Tlaxcala si schierarono a sostegno di Hernan Cortes e del suo esiguo manipolo di 660 uomini, lo fecero per odio verso gli Aztechi di Moctezuma, che era anche il loro signore. Decenni dopo, mentre gli Spagnoli, sulle orme di Coronado, De Vargas e Zacatecas, invadevano le terre a nord del Rio Grande, i nomadi Apache e Navajo li contrastarono con la guerriglia, ma senza mai unirsi fra loro per opporre una resistenza veramente efficace. Anzi, i primi continuarono a razziare i campi di mais dei Pueblo e si misero poi a derubare gli stessi Navajo delle greggi che questi avevano avuto in dono dai “conquistadores”.
La “storia infinita” era proseguita anche dopo l’avventura di Raleigh e John Smith in Virginia, lo sbarco dei Padri Pellegrini a Cape Cod e la colonizzazione del New England. Nell’interminabile conflitto coloniale che contrappose Francia e Inghilterra e nella Rivoluzione Americana, gli Indiani furono sempre allineati su fronti diversi, facendosi guerra fra loro anche quando i contendenti appartenevano alla medesima tribù. Dunque, lo si voglia ammettere o no, i Pellirosse erano i primi colpevoli della propria rovina e non riuscirono mai a capire fino in fondo la grandezza di uomini come Pontiac e Tecumseh, che li esortavano disperatamente a dimenticare le proprie rivalità per fare fronte comune contro i Bianchi.
L’accorato appello del grande leader degli Shawnee, nel 1811, anziché convincere il popolo dei Creek a combattere unito insieme a lui per creare un territorio indiano autonomo, aveva originato una frattura insanabile all’interno della tribù. TustenuggeThlocko – Grande Condottiero – capo supremo della nazione, si era dichiarato contrario fin dall’inizio all’offerta di Tecumseh, intendendo rimanere fedele al trattato siglato con gli Americani nel 1796 a Coleraine. Anzi, nel giugno 1812 ne firmò un altro a Fort Wilkinson, mettendosi contro l’agguerita fazione di Aquila Rossa, favorevole all’alleanza con gli Shawnee.
Ciò finì per provocare una vera e propria guerra civile all’interno della tribù. Grande Condottiero inviò messaggeri di pace ai villaggi situati sui fiumi Coosa e Tallapoosa, ma gli uomini di Aquila Rossa li uccisero spietatamente.
Da quel momento non vi fu più tregua fra i due schieramenti rivali. A tutti i problemi che gli Indiani avevano già da tempo, si aggiunse la spaccatura netta di una delle loro nazioni più influenti.
AQUILA ROSSA
Sebbene le stime effettuate dagli agenti governativi incaricati di curare gli Affari Indiani fossero spesso esagerate, il gruppo di lingua muskogee – Cherokee, Creek, Choctaw, Chickasaw e Seminole – contava 70.000 anime e la sua forza militare non doveva essere inferiore ai 15.000 combattenti. Fra questi, i Creek disponevano senz’altro di 6 o 7.000 guerrieri, una minaccia che i coloni delle contrade centro-meridionali degli Stati Uniti temevano particolarmente.
Quando finalmente meno di un terzo di essi scese in campo contro gli Amricani, trovò però un avversario – Andrew Jackson – ancora più duro di William Henry Harrison, del quale avrebbe più tardi ereditato la prestigiosa carica di presidente della giovane unione federale.
Il suo intervento si sarebbe rivelato vincente, anche se, prima che ciò avvenisse, i Creek avrebbero avuto la grande soddisfazione di espugnare una roccaforte dei Bianchi.
I Creek della fazione avversa a Grande Guerriero erano in guerra contro gli Americani prima ancora che questi aprissero le ostilità con le truppe di Sua Maestà. Il piano di Aquila Rossa prevedeva una serie di attacchi in Georgia, con il sostegno dei Seminole, mentre gli alleati Choctaw avrebbero preso di mira gli insediamenti del Mississippi e i Cherokee, affiancati da altre bande Creek, gli insediamenti dei coloni nel Tennessee.
Si trattava di un’avventura che non poteva sortire alcun effetto positivo. Comunque, fu una scelta che servì soltanto a far crescere il numero delle vittime civili nell’interminabile guerriglia che da due secoli insanguinava la Frontiera.
Lamochattee, Aquila Rossa, era nato nel 1780 a Creek Settlement, nell’ Alabama meridionale, figlio del commerciante scozzese mezzosangue Charles Weatherford e di una donna Creek che era sorellastra di Alexander Mc Gillivray.
Suo fratello John aveva scelto di vivere alla maniera dei Bianchi, mentre lui, battezzato William, preferì seguire le usanze tradizionali dei Creek. Poiché anche fra i suoi remoti ascendenti compaiono vari elementi di sangue europeo che avevano contratto una serie di matrimoni con squaw indigene, William Weatherford apparteneva alla razza pellerossa soltanto per un ottavo, ma la sua determinazione di essere un Creek ne fece un autentico alfiere della lotta di quel popolo contro gli Americani.
La resa di Red Eagle a Andrew Jackson
Rimasto vedovo nel 1804 della prima moglie indiana, che gli aveva dato alcuni figli, fra cui Charles Charles Weatherford, Aquila Rossa sposò un’altra squaw e più tardi, dopo una nuova vedovanza, convolò a nozze con una donna bianca di nome Mary Stiggins.
La sua adesione alla proposta di Tecumseh nel 1811 era stata sincera e spontanea, ma non era servita a provocare l’intervento massiccio dei Creek al suo fianco ed egli si era ritrovato a minacciare gli Americani con la sua sola banda di 300 guerrieri, denominata dei Bastoni Rossi. L’abile mediazione dell’agente Hawkins riuscì ad evitare che la rivolta tribale assumesse proporzioni allarmanti per i coloni, ma non impedì che gli Indiani scesi sul sentiero di guerra compissero uno spaventoso eccidio. Oltre a Weatherford, altri condottieri dei Creek presero infine le armi e si prepararono a combattere.
Uno di questi, un meticcio chiamato Peter Mc Queen, guidò 350 uomini fino a Pensacola, in Florida, dove chiese armi e munizioni alla guarnigione spagnola. Poi, il 24 luglio 1813, sulla via del ritorno, il gruppo sostenne a Burnt Corn Creek il primo scontro con gli Americani, sbaragliandoli e mettendoli in fuga.
A questo punto, Weatherford, che non aveva preso parte alla scaramuccia, ordì un’impresa molto più ardimentosa, mettendosi in testa di spazzare via l’odiato presidio di Fort Mims, abitato da centinaia di Bianchi, meticci e schiavi negri.
L’operazione poteva sembrare assurda, ma Aquila Rossa aveva bisogno di un successo di grande risonanza per poter coalizzare intorno a sé l’intera nazione creek. Soprattutto, doveva convincere il suo popolo che Grande Guerriero e gli altri capi amici degli Americani erano semplicemente dei traditori e dei ciarlatani e che nulla – come aveva incautamente profetizzato un giovane sciamano di Old Coosa Village, il diciottenne Letecau, che venerava Tecumseh come un dio – avrebbe fermato la riscossa dei Creek.
Ma due secoli di illusioni sarebbero dovuti bastare a far riflettere sull’improbabile riuscita di un simile progetto.
FORT MIMS
Raramente nella storia della colonizzazione americana si ritrovano episodi cruenti quali la completa distruzione di un avamposto abitato da oltre mezzo migliaio di persone. Forse il precedente più prossimo nel tempo era stato quello di Fort William Henry, durante la Guerra dei Sette Anni, ma in quel caso il massacro venne compiuto fuori dalle mura, allorchè gli Indiani alleati della Francia attaccarono proditoriamente la colonna inglese in ritirata.
Nell’agosto del 1813 Fort Mims, il forte costruito dal meticcio Samuel Mims nei pressi del fiume Alabama, a più di 35 miglia dalla città di Mobile, ospitava 553 fra soldati, miliziani, sanguemisti e schiavi negri. Vi si trovavano anche soldati spagnoli che avevano disertato dalla fortezza di Pensacola. Il suo comandante era il maggiore Daniel Beasley, coadiuvato dal capitano Dixon Bailey. Entrambi gli ufficiali avevano sangue pellerossa nelle vene e nessuno dei due poteva immaginare quali proporzioni stesse per raggiungere la spietata insurrezione dei Creek.
D’altro canto, la guarnigione – 175 militari, ai quali si aggiungevano 378 civili – era tranquillizzata dal notevole numero di difensori di cui disponeva la postazione, protetta da una doppia palizzata, una esterna ed un’altra più interna, che avrebbe scoraggiato qualsiasi azione in forze da parte degli Indiani ostili. La negligenza del suo comandante era arrivata al punto di non preoccuparsi neppure del fatto che il portone d’ingresso non si potesse più richiudere, a causa della sabbia accumulata dal vento davanti all’ingresso.
Aquila Rossa, il principale fautore della guerra ad oltranza contro gli Americani, aveva studiato accuratamente le proprie mosse, per essere certo che nessuno potesse giungere in soccorso dell’odiato forte. Per evitare che l’agente governativo Hawkins potesse segnalare all’esercito movimenti indiani sospetti, fece affluire parecchi guerrieri da ben 13 villaggi, quali Artussee, Tallassee e Okfuskee, ma ne spedì una parte verso Coweta, distogliendo così l’attenzione dei Bianchi dal suo vero scopo.
Quindi si avvicinò a Fort Mims nella mattinata del 29 agosto 1813, facendo appostare circa 900 combattenti fra la boscaglia e i canneti, in attesa di sferrare l’attacco.
I primi a sospettare la tragedia che si stava preparando furono gli schiavi impiegati nelle piantagioni intorno al presidio. Infatti, vi erano oltre 100 Negri che lavoravano in quel luogo e alloggiavano all’interno dell’avamposto.
Alcuni di essi abbandonarono i campi e si recarono trafelati da Beasley, raccontandogli che i Creek stavano preparando un assalto a Fort Mims. Per tutta risposta il comandante, che non credette minimamente al loro racconto, li fece arrestare e legare ai pali all’interno della palizzata, disponendo che il giorno seguente venissero severamente puniti con la fustigazione.
Il massacro di F0rt Mims
Il 30 agosto quasi tutti gli abitanti della postazione stavano trascorrendo pigramente la torrida giornata d’estate, senza immaginare lontanamente ciò che Aquila Rossa aveva tramato contro di loro. Quando un tamburo del forte battè il mezzogiorno, i Creek scatenarono le loro forze contro Fort Mims.
Il maggiore Beasley, resosi conto troppo tardi della propria leggerezza, si mise a gridare di chiudere il portone e corse egli stesso verso l’ingresso per compiere l’operazione, ma i detriti accumulatisi gli impedirono di sbarrare l’ingresso alla marea urlante che avanzava. La sua fine fu terribile: alcuni guerrieri nemici lo raggiunsero e lo ammazzarono a bastonate.
Il capitano Dixon Bailey, assunto il comando, si accorse subito della difficoltà di difendere il presidio, ma organizzò una linea di difesa dietro la seconda palizzata, sperando di riuscire a respingere i Creek. Purtroppo per lui, la situazione era già degenerata, perché gli Indiani si stavano spargendo per tutto il cortile, uccidendo e scotennando civili e militari. All’interno del primo recinto, gli uomini di Aquila Rossa sbaragliarono, facendo molte vittime, due compagnie di militari, scannarono senza pietà i civili incontrati sul loro cammino e finirono perfino gli schiavi legati ai pali, del tutto impossibilitati a difendersi.
Dopo un paio d’ore di combattimenti, i Creek avrebbero potuto sentirsi paghi del risultato conseguito: Fort Mims era stato quasi distrutto e 300 dei suoi abitanti giacevano a terra, morti o feriti. Aquila Rossa, però, aveva deciso di andare fino in fondo e disse loro che l’avamposto doveva essere spazzato via, sterminando tutti i suoi occupanti fino all’ultimo uomo.
Alle tre e mezza del pomeriggio lo scontro, anziché attenuarsi, si riaccese in maniera ancora più accanita. I Creek, dopo aver lanciato molte frecce incendiarie contro le baracche, obbligando i loro difensori ad uscire allo scoperto, sfondarono le residue difese e dilagarono come un fiume in piena. Il capitano Bailey cadde gravemente ferito, mentre intorno a lui la linea dei difensori si andava sempre più assottigliando. Gli Indiani non stavano risparmiando nessuno, incuranti del sesso, dell’età o del colore della pelle delle loro vittime. Massacrarono infatti anche gli schiavi negri, pur sapendo quale fosse la loro triste condizione in mano ai Bianchi e infierirono sui rifugiati spagnoli. In quella sanguinosa giornata, gli Indiani prelevarono dai cadaveri almeno 250 scalpi, confermando probabilmente ciò che gli Americani già sapevano a proposito della ricompensa promessa dagli Inglesi, consistente in 5 dollari per ogni capigliatura tolta al nemico.
Verso le cinque pomeridiane gli spari cessarono e la battaglia terminò.
Fort Mims era stato distrutto, la sua guarnigione completamente annientata.
Benchè vi siano molte discordanze fra gli storici circa il numero effettivo delle vittime, sembra credibile che le persone uccise sul campo fossero oltre 400. Aggiungendovi quelle catturate delle quali non si ebbero più notizie in seguito, si raggiunse addirittura lo spaventoso numero di 517.
Nessun assalto ad una postazione fissa, condotto nei successivi 70 anni di guerriglia indiana alla Frontiera, avrebbe mai più offerto un quadro tanto devastante, con una quantità così elevata di perdite umane.
Una quindicina di abitanti, compreso il capitano Bailey, che però era stato ferito a morte, riuscirono a fuggire, mentre altre – fra cui alcuni schiavi – furono catturate. Le perdite degli assalitori erano state invece, secondo la versione fornita da loro stessi, molto più contenute, limitandosi a circa 200 morti e numerosi feriti.