Le grandi pianure

A cura di Pietro Costantini

Tutti i miti delle società indiane delle Grandi Pianure facevano riferimento all’accettazione della natura e ai metodi per affrontare le diverse condizioni ambientali, accennando frequentemente alla transitorietà della vita nelle Pianure e sottolineavano il fatto che il popolo aveva sempre effettuato spostamenti: le variazioni stagionali e le migrazioni della selvaggina imponevano flessibilità e mobilità essenziali alla sopravvivenza. Vi era sempre la necessità pressante di spostarsi verso zone in cui vi fosse disponibilità di selvaggina. Spesso il malato o l’anziano, riconoscendo che i propri familiari si sarebbero esposti al pericolo se avessero indugiato per aver cura di lui, pregava i parenti di partire.

Il nomadismo

Ecco un esempio reale di queste invocazioni: “Sono vecchio, e troppo debole per mettermi in marcia. Figli miei, la nostra nazione è povera, ed è necessario che voi tutti ve ne andiate verso la terra che vi può fornire carne/La mia vista è offuscata e la forza è svanita; i miei giorni sono contati e sono di peso ai miei figli/Non posso partire e desidererei morire”. Non appena i parenti fossero partiti, il vento avrebbe portato loro le deboli note di un canto di morte. Un canto denso di commozione ma ricco di orgoglio, che ripercorreva le realizzazioni della vita e si faceva preparazione per il lungo, ultimo viaggio: anche con la morte c’era movimento.

La sicurezza economica di questi popoli nomadi era fondata sul principio dell’immediato adattamento alle circostanze che mutavano. Essere disposti a trasferire la propria abitazione presupponeva l’accettazione del carattere transitorio della fonte principale di sostentamento. Tuttavia badavano bene a pianificare i loro trasferimenti in base al ciclo naturale. Al momento del raccolto facevano in modo di trovarsi vicino alle bacche di rosacee che maturavano, o nei boschetti di sambuco quando se ne spillava la linfa primaverile. Avevano dei luoghi preferiti per accamparsi. Essi compresero l’ordine esistente nella natura delle cose e lo applicarono alla routine quotidiana, perché, sebbene accettassero i cambiamenti, desideravano la sicurezza.
Per il resto, la scelta del luogo in cui porre l’accampamento dipendeva quasi esclusivamente dalla prossimità di mandrie apprezzabili di bisonti. Il villaggio poteva restare fisso per parecchie settimane, e anche per un paio di mesi, se le scorte di carne erano abbondanti e i depositi segreti colmi, ma la permanenza non era importante in sé stessa. Al contrario, la ricchezza economica dipendeva proprio dalla temporaneità della residenza, e la quel fine si indirizzò la cultura delle Pianure. E infatti questi Nativi non possedevano niente che non potesse essere trasportato da una persona, da un cane o da un cavallo. Il cibo e il vestiario che non potevano trasportare in sacche di morbido cuoio o in parfleche di cuoio grezzo decorati, venivano trasportati in fagotti.


Parfleche per contenere il pemmican (carne di bisonte essiccata)

Circa la preparazione e la conservazione della carne, ecco come si comportavano i Sioux (e il sistema può valere per tutte le tribù delle Pianure):
…la carne veniva tagliata con cura in strisce sottili, lunghe quanto un braccio e larghe circa tre mani. Poi veniva messa al sole, appesa ad un essiccatoio, costituito da un lungo ramo, sostenuto da due robusti pali a forcella. Al sole ci volevano circa tre giorni per essiccarla; se pioveva, al chiuso ci voleva più tempo.
…Quando la carne era secca e dura, era tempo di tagliarla in “papapuze” (carne essiccata e conservata). Il “papapuze” veniva piegato a misura di parfleche, e così compresso veniva conservato nel tepee. Dei pezzi venivano tagliati e cucinati al bisogno: il “papapuze” poteva essere arrostito sulla brace, oppure fette di “papapuze” potevano essere lessate in otri ricavati dallo stomaco del bisonte, riempiti d’acqua che veniva scaldata con pietre roventi.
…Il “papapuze” arrostito era l’ingrediente base per fare il “wakpapi” o” pemmican” Dopo che la carne era stata cotta nella brace, vi veniva spruzzata sopra dell’acqua. Quindi, con un pestello di granito, il “papapuze” veniva ridotto in polvere dentro un recipiente di cuoio grezzo, dove veniva mischiato a pezzetti di grasso per essere più gustoso. Col “pemmican” si facevano dei pasticcini che potevano essere consumati subito o dopo averli fatti asciugare, ben conservati, soprattutto nel periodo del gelo. Il “pemmican” veniva generalmente mischiato a ciliegie o uva secche, schiacciate insieme a nocciuoli e semi. Anche tutto questo poteva essere conservato, o in forma di pasticcini in una sacca ricavata dallo stomaco di un animale, o congelati durante l’inverno. Il più appetitoso era considerato il “pemmican” di carne di bisonte.
Prima del contatto con i bianchi, gli Indiani delle Pianure non possedevano vasellame; cuocevano il cibo mettendo pietre roventi dentro una vescica di bisonte piena d’acqua, sospesa a quattro pali. L’acqua era conservata in una sacca di pelle appesa ad un palo robusto. Per macinare frutta e vegetali secchi, granaglie e carne, le donne usavano un piccolo pestello di quarzite e un mortaio di granito, oppure una mazza con l’estremità di pietra. Il cibo di conserva poteva rimanere per mesi nei nascondigli segreti; in caso di bisogno, i proprietari sarebbero tornati a prenderlo.
L’organizzazione dello spostamento della tribù era simile in tutte le Pianure; ecco cosa scrive Royal B. Hassrick circa i Sioux:
“Il trasferimento del villaggio era un’impresa che comportava il coordinamento di tutto il gruppo. I Naca, cioè le autorità civili della tribù, decidevano dove e quando andare. I Wakincuza, “Quelli che Decidono”, dopo aver scelto fra le varie società guerriere quella che doveva fungere da polizia (Akicita), guidavano ufficialmente la carovana. Su istruzione dei Wakincuza, il banditore faceva l’annuncio in tutto il villaggio. Le famiglie cominciavano a smontare le tende e a caricare le loro cose sui travois e sui cavalli. Un intero villaggio riusciva a mettersi in moto nel giro di un quarto d’ora. L’ordine di marcia non era casuale: ogni famiglia aveva una posizione più o meno permanente, di modo che, nel cominciare il trasferimento, quelle le cui tende si trovavano più vicine alla direzione di marcia, partivano per prime. La formazione di marcia era determinata con altrettanta precisione. Tre o quattro esploratori si disponevano a ventaglio sui fianchi, molto avanzati rispetto alla colonna. Direttamente in testa al grosso c’erano i Wakincuza, che trasportavano ufficialmente il fuoco. Ai lati e dietro c’erano i membri dell’associazione che fungeva da polizia, il cui compito era di tenere la gente al suo posto. A nessuno era consentito di superare i Wakincuza, di deviare per andare a caccia, o di attardarsi. Chi disobbediva, la pagava cara. Chi abbandonava deliberatamente la linea di marcia veniva percosso, ed era inoltre possibile che il suo tipi venisse distrutto insieme ai suoi averi dagli Akicita. La retroguardia veniva protetta anch’essa da scout.


“In marcia” – dipinto di J. Carson

Durante il giorno le soste si facevano a discrezione dei capi. Nonostante il gran numero di cavalli a disposizione, molta gente andava a piedi; si perdeva poi tempo per risistemare i bagagli, riposare e mangiare. In un giorno di marcia si percorrevano in media fino a 25 miglia; ma intere bande che per una ragione o per l’altra avessero fretta, potevano percorrere anche più di 50 miglia al giorno.
A scegliere il luogo in cui accamparsi erano i Wakincuza. Quando si trovava un luogo adatto, i leader fumavano formalmente la pipa e annunciavano la loro decisione per mezzo del banditore. La gente cominciava allora a rizzare il campo; le donne collocavano i tipi con l’apertura rivolta a oriente nell’ordine in cui le famiglie avevano marciato. L’accampamento veniva posto in luoghi dove ci fossero acqua potabile, legna abbondante, erba e foraggio per i cavalli, protezione dal vento e sicurezza dai nemici.”

Una volta l’anno, in estate, le tribù delle Pianure si accampavano su terreni elevati e pianeggianti, sistemando i tipi in un grande cerchio che aveva l’entrata ad est, e là celebravano la Danza del Sole. Ad eccezione di questo caso, normalmente la disposizione delle tende era casuale, dipendendo dalla parentela, dalla posizione nell’accampamento precedente e dalla configurazione del terreno. I familiari tendevano a vivere vicini fra di loro, e in genere una coppia di sposini piazzava il proprio tipi in vicinanza di quello dei genitori di uno dei due. Quando si ergeva una nuova tenda, i proprietari erano liberi di sistemarla dove volevano. Gli alberi e la conformazione del terreno, mentre rendevano impossibile formare un cerchio campale vero e proprio, non compromettevano la facilità e l’ordine con cui il villaggio si trasferiva.

Il cane

Fino a che il cavallo non diffuse nelle pianure, la mobilità di questi gruppi dipendeva molto dal cane, l’unico animale domestico degli Indiani. Fu con il solo ausilio del cane che avvenne il popolamento delle Pianure nel secolo XVII da parte di Cheyenne, Arapaho, Sioux, Crow e Piedi Neri.
Per il trasporto si utilizzava il travois, una struttura in legno a forma di A, che veniva legata ad una rozza sella posta sul dorso del cane e trascinata alle sue spalle. Con questo sistema, un cane poteva trasportare fino a ventotto chili. L’importanza del ruolo svolto dai cani negli spostamenti conferiva a questi animali un particolare significato. Da loro dipendeva la possibilità per il gruppo di trasportare i propri beni. Erano normalmente di proprietà delle donne ed apprezzati per mole e robustezza. Durante la stagione delle bacche, veniva impiegato per trasportare a casa il raccolto.
Anche l’uomo era orgoglioso dei suoi cani, a cui attribuiva nomi che riflettevano azioni coraggiose, come “Tolse-il-suo-scudo”. I guerrieri Crow e Cree se ne servivano per trasportare grossi involucri di mocassini di ricambio quando era previsto un viaggio piuttosto lungo; oppure i cani venivano impiegati per la caccia, come presso i Pedi Neri, che li addestravano ad aizzarsi contro l’orso e a stanare o far alzare in volo i piccoli animali del sottobosco. La mitologia tratta frequentemente il tema dello stretto rapporto tra uomo e cane. In una narrazione il cane segue il popolo, che proviene da un mondo sotterraneo, e sacrifica sé stesso in modo che la malattia possa essere allontanata. Riferendosi al suo spirito dice: “Rimarrò sempre con il popolo. Sarò il guardiano dei suoi beni”.
L’atteggiamento verso il cane è ben riassunto nelle sacre pipe dei Crow, le quali avevano sempre un’unica piuma d’aquila, che rappresentava la coda del cane, “perché il cane è il protettore e l’amico di ogni persona al mondo”. In rituali che implicavano la consumazione di carne di cane, esso assumeva una funzione sacra, particolarmente presso Sioux e Arapaho.

La carne di cane poteva anche divenire espressione di rispetto verso ospiti di riguardo appartenenti ad altre tribù, ai quali l’Indiano offriva solo il meglio, oppure a visitatori di rispetto bianchi, come attestato dall’esperienza personale del pittore ed etnografo G. Catlin. Per l’occasione veniva scelto il cane preferito e più fedele, e quando esso veniva servito si teneva un’orazione per lodarne la fedeltà, il coraggio e i servigi.
Di norma i cani di taglia piccola, almeno presso i Sioux, venivano allevati solo per mangiarli. Comunque, quand’erano cuccioli venivano vezzeggiati, nutriti ed anche allattati – se la madre moriva – con succo di carne messo dentro un’improvvisata pelle di daino a forma di bottiglia, che fungeva da biberon. I cuccioli venivano tolti alla madre e svezzati ad un mese o due. A quest’età le donne, dice Piccolo Giorno, donna Sioux, “mettevano loro due dita nelle fauci e gliele allargavano”, e li nutrivano con brodo. Sempre Piccolo Giorno dice: “dentro il tepee avevamo un canile. Somigliava un po’ ad una tenda sudatoria, ma aveva un diametro di circa tre piedi. Era ricoperto a sua volta da zolle; l’entrata era costituita da un passaggio coperto con pali e quindi con zolle. Dentro vi era un tappeto d’erba. Questo canile lo fece mia madre, ma quasi tutte le famiglie ne avevano uno del genere.
Mia madre lo costruì per una cagna con cinque cuccioli. Non era un cane da travois, ma ordinario, i cui cuccioli mangiammo quando ebbero circa tre mesi. Questa era la principale ragione per cui tenevamo quel tipo di cane”.
I cani servivano anche per la guardia: i cani da travois dormivano dentro il tipi, vicino all’ingresso, ed erano addestrati ad abbaiare ad ogni rumore sospetto.


Famiglia Piedi Neri con cani

Il cavallo

Sebbene l’importanza del cane non sia mai venuta meno, la sua funzione come animale da soma si fece meno essenziale allorquando il cavallo, dalle antiche vie commerciali aperte dalle colonie spagnole insediate nel Sud Ovest nel corso del XVII secolo, raggiunse le pianure: l’impatto fu enorme. Questo animale poteva svolgere il lavoro di un cane, ma in modo assai più efficace. La sua taglie e la sua forza gli permettevano di trainare travois più grandi e trasportare some più gravose, quantità maggiori di carne, la quale poteva essere essiccata e portata agli accampamenti invernali nelle vallate lungo i fiumi. Ciò ridusse il rischio della penuria di cibo dovuta a scarsità di bisonti. E come se non bastasse, questa magnifica bestia poteva portare un cavaliere, rendendo quindi un uomo più veloce di quanto la mente umana avesse immaginato. Era talmente importante che i Sioux lo chiamarono “cane sacro”.
Una delle conseguenze più importanti dell’arrivo del cavallo nelle Pianure fu di natura economica. I cacciatori di bisonti a cavallo erano in grado di spingersi più lontano, e più velocemente, dei loro predecessori e inoltre, grazie all’estrema mobilità e alla maggior consistenza numerica, potevano affrontare branchi molto più numerosi. In definitiva, potevano avere rifornimenti abbondanti.
Tutto ciò creò problemi d’ordine culturale e portò a inevitabili modifiche nell’assetto sociale. Il cavallo costituiva ben più che un semplice vantaggio: esso possedeva gli attributi del potere soprannaturale, analogo alla “Medicina” .Pertanto. possedere un cavallo dava realmente agli uomini gli stessi vantaggi di una personale Medicina, sia a caccia che in guerra.


Cronologia della diffusione del cavallo nelle Pianure

Il cavallo, infatti, era comunque un bene tangibile, la cui accumulazione andava contro l’ideale forzato della cooperazione, mentre accumulare beni immateriale, cioè potere, era requisito per il positivo adempimento del proprio ruolo. Questo sistema richiedeva delle modifiche per poter accettare il cavallo. I Sioux risolsero parzialmente questo problema stabilendo che lo status di un uomo non era determinato dal numero di cavalli che possedeva, ma dal numero di cavalli che era in grado di dare in cambio di beni di necessità o servizi o prestigio. Tuttavia, l’importanza ed il valore del possesso non erano messi in discussione, né lo potevano essere. Il numero sempre crescente dei cavalli a disposizione ed i riflessi sempre più profondi che il cavallo determinò sull’economia, crearono un surplus ed una slancio per i quali il sistema esistente non era preparato. Tepee grandi, numero di mogli o vestiti elaborati potevano essere indici di ricchezza, ma il mezzo diretto o indiretto di ottenerli restava il cavallo.
Inizialmente i cavalli potevano essere ottenuti tramite scambi commerciali. Mercanti Kiowa e Comanche versi il 1680 in Kansas cavalcavano pony dipinti e gli Shoshone del Wyoming, che ebbero i primi cavalli solo verso il 1690, all’inizio del XVIII avevano già iniziato a rifornire i Piedi Neri. Sebbene il commercio presumibilmente potesse soddisfare la domanda, all’interno della comunità i cavalli divennero oggetto di conquista. I giovani guerrieri integrarono i cavalli del gruppo di appartenenza con quelli depredati a comunità rivali, e l’abilità nel fare incursioni divenne ben presto un mezzo accettato per ottenere riconoscimento sociale.


“Con due pony” – dipinto di Howard Terpning

Per la maggior parte delle popolazioni il cavallo eliminò le restrizioni imposte precedentemente dal cane: rese la vita più facile, più comoda e più sicura, ma soprattutto permise all’indiano di godere di un’indipendenza e di una libertà di movimento molto simili a quelle che egli notava nell’ambiente intorno a lui. Si sentiva finalmente posto in una relazione più paritaria con le forze naturali. La rapidità con la quale i nomadi si trasformarono in abili cavalieri può essere spiegata con l’affinità e la profonda conoscenza che l’indiano delle Pianure aveva degli animali e del loro comportamento: egli considerava ogni animale come un essere vivente degno del massimo rispetto e non soffriva di alcun senso di malintesa superiorità. A causa di questo atteggiamento, la cultura legata al cavallo fiorì nelle Pianure, e quando George Catlin fu ospite dei Comanche affermò: “Senza alcuna esitazione, sono pronto a sostenere che i Comanche sono i più straordinari cavalieri che io abbia mai visto durante i miei viaggi, e dubito molto che altri popoli possano superarli.” Egli ha lasciato questa vivida descrizione di uno dei loro guerrieri mentre compiva un’impresa che richiedeva particolare abilità e poteva parimenti essere effettuata da tutti gli altri Comanche:
“…è in grado di lasciar scivolare il proprio corpo lungo i fianchi del cavallo, efficacemente protetto dalle armi del nemico mentre giace in posizione orizzontale dietro il dorso del cavallo, con il tallone sospeso alla sua groppa.; è quindi in grado di cavalcarlo di nuovo o in caso di necessità di cambiar lato. In questa stupenda posizione rimaneva appeso mentre il cavallo correva al massimo delle sue possibilità, portando con sé arco, scudo, e anche la lancia…alzando e scagliando frecce al di sopra del dorso del cavallo, o al di sotto del suo collo con altrettanta facilità e successo..”
Ciò poteva essere realizzato tramite una piccola cavezza, fatta generalmente con capelli, intrecciata alla criniera del pony e annodata sotto il suo collo, alla quale il guerriero si reggeva con tutto il suo peso. Comunque queste dimostrazioni servivano ai Comanche più per ostentare la loro abilità che per aver successo nelle imprese belliche.


Tecnica di guerra Comanche – dipinto di G. Catlin

I vantaggi derivanti dal possesso di cavalli, uniti alla lunga vita dell’animale, lo rendevano un eccellente mezzo di scambio. Gli Indiani valutavano tutti i beni ed i servizi importanti in relazione al cavallo. Il prezzo di una moglie, di uno scudo, della foratura delle orecchie dei figli o di un copricapo da guerra, era di solito un cavallo. Pertanto, più numerosi erano i cavalli, più agevole era il sentiero che portava alla tranquillità economica e alla posizione sociale più elevata.
Uno degli effetti del cambiamento portato dal cavallo fu un incremento dell’individualismo. La ricchezza personale poteva essere – e lo veniva di fatto – distribuita, e la forte richiesta di cavalli intensificò il valore della proprietà. La capacità di donare più degli altri era il segno evidente della superiorità di un individuo o di una famiglia. Non solo chi possedeva molti cavalli poteva esibire la prova tangibile per affermare la sua superiorità sui meno abbienti, ma inoltre l’agiatezza e il lusso consentiti dal cavallo erano una ricompensa in sé stessi.
Non era facile acquisire una grande mandria di cavalli, né erano praticate forme di allevamento efficaci. Il metodo principale di acquisizione di cavalli era di catturare cavalli selvaggi o di rubarli alle altri tribù, ma razziarli era molto più facile che catturare gli animali allo stato brado. Si stima che il numero dei cavalli selvaggi fosse già esiguo all’inizio del XIX secolo, e la cattura anche di un solo capo richiedeva molta abilità e una considerevole fortuna. Rubandone, c’era la possibilità di assicurarsene un buon numero in una sola volta. Così facendo c’era anche una certa sicurezza di prenderne qualcuno già domato, nonché la certezza di ricavare vantaggio economico e prestigio sociale da una spedizione fortunata. Il prestigio sociale poteva già per sé stesso essere un motivo valido per andare a razziare cavalli, in quanto prendere un cavallo in tal modo significava “contare un colpo”, cioè guadagnare onore militare. L’accumulo di tali colpi costituiva la chiave del successo sociale e politico.


“Vanishing pony tracks” – dipinto di Howard Terpning

Il metodo per domare i cavalli era sbrigativo, crudele ed efficace. Due o tre uomini stringevano un cappio intorno al collo dell’animale, costringendolo ad abbassarsi. Un altro gli si sedeva sulla testa. Quando si era certi che non potesse scappare, l’uomo che gli sedeva sulla testa si toglieva, badando ad evitarne i calci. Il cavallo cercava di tirarsi su immediatamente, e gli uomini, tenendo salda la fune, si disponevano a resistere ai suoi strattoni. Poi lo tiravano a poco a poco verso il cerchio campale dove, girandogli la fune parecchie volte intorno alle zampe e strattonandolo poi improvvisamente, lo facevano stramazzare. Velocemente, uno degli uomini gli saltava addosso, mentre gli altri gli legavano le zampe anteriori fra loro e poi le collegavano con la zampa posteriore sinistra. Quando gli si consentiva di alzarsi nuovamente, la pastoia lo faceva cadere in continuazione. La prova durava finché il cavallo non era esausto. Quando infine il cavallo era così stremato che giaceva per terra, troppo indebolito per reagire, gli uomini gli davano delle pacche leggere, specialmente suo collo, sulle orecchie e sulla groppa. Dopo di ciò, gli mettevano una coperta sul dorso, ed il cavallo, tentando di liberarsene, scalciava e saltava ma, essendo impastoiato, cadeva in continuazione ad ogni tentativo. Quando non aveva più forza per scrollarsi di dosso la coperta, un uomo gli si avvicinava e gli saliva in groppa con delicatezza. Quindi il cavaliere gli metteva con garbo un osso alla bocca. Quando era palese che il cavallo si era abituato al cavaliere ed al morso, gli altri cominciavano a dargli delle pacche e ad accarezzarlo per addolcirlo. Poi, con cautela, slegavano le pastoie ed il cavallo trotterellava con il suo cavaliere. Ci voleva un giorno intero per domare un cavallo, qualche volta due. Ma in ogni caso questo metodo, adottato specialmente dai Sioux, fu abbastanza efficace da assicurare loro cavalli ottimamente addestrati, velocissimi ed resistentissimi.


Sioux: a1 –a2 – a3: briglie; b: cavezza per l’addestramento

L’animale che riusciva a superare tutti gli altri nella corsa era un tesoro inestimabile. Aveva un valore così elevato che il proprietario se lo guardava a vista, legandolo perfino all’ingresso del tepee. I guerrieri prendevano nota dei cavalli più pregiati, e organizzavano anche delle spedizioni per catturarne qualcuno particolarmente rinomato. Ai cavalli da corsa si dedicavano cure e trattamento speciali; venivano usati solo quando ce n‘era effettivo bisogno: un guerriero cavalcava il suo cavallo da sella sul sentiero di guerra, ma poi passava al cavallo da corsa quando cominciava l’attacco. I Sioux aspergevano quotidianamente i cavalli da corsa con acqua fredda, credendo che ciò accrescesse la loro vitalità.
In un certo senso il cavallo era divenuto un’appendice dell’uomo: l’Indiano era perfettamente conscio del rapporto che si creava tra sé stesso e l’animale. Grande attrazione costituiva la bellezza dei cavalli selvaggi, che in gran quantità erravano nell’intera zona delle Pianure, ma che per lo più erano concentrati nelle Pianure meridionali, in territorio Comanche, dove le condizioni ambientali erano praticamente identiche agli originari territori andalusi. Sebbene questi pony fossero di piccole dimensioni, erano incredibilmente resistenti. La loro nervosa vitalità creava movimento perfino quando stavano tranquillamente pascolando, e il temperamento di un libero stallone, pieno di impetuosità e di controllata energia, si sposava perfettamente al carattere indiano.

La parata

Le cosiddette “parate di guerra” esprimevano compiutamente la combinazione dei due spiriti così orgogliosi e indipendenti: quello dell’Indiano e quello del cavallo. Si trattava di esibizioni a cavallo con sfoggio di costumi, che abitualmente avevano luogo durante i grandi raduni, ed avevano anche lo scopo di impressionare ospiti importanti appartenenti ad altre tribù. Erano dimostrazioni di identità tribale e conferme della vittoria nella lotta per la sopravvivenza: volevano destare meraviglia e non potevano mancare tale obiettivo. Con formazioni perfette, a lunghe file o a grandi cerchi concentrici, la parata era una turbinosa ruota di colori e di movimenti che offriva fugaci apparizioni di copricapi di piume d’aquila dalla punta nera, scudi meravigliosamente dipinti e lance ornate di piume, pony dipinti con linee a zig-zag, simbolo dei fulmini, e punti bianchi, simboli della grandine, a testimonianza del loro potere di cavalcare incolumi; inoltre frange di ermellino o ciocche di capelli ornavano le cuciture dei gambali e delle camicie di pelle di daino ricamate con aculei di porcospino.
Il tutto scorreva in un’abbacinante e vertiginosa esibizione di uomini, pony e colori che incuteva ammirazione e rispetto negli ospiti ai quali veniva presentata. La complessità della parata era straordinaria e, sebbene ognuno recassi gli emblemi della propria esperienza spirituale, l’organizzazione dimostrava che ciascuno dipendeva dall’altro per sostegno reciproco. Alcuni uomini ponevano intere pelli di puma sul dorso dei loro cavalli e indossavano mantelli di pelle di lupo che indicavano il loro valore come guide per spedizioni di guerra e di caccia, dal momento che l’astuzia e la tenacia del lupo venivano trasmesse indossando la sua pelle. Altri dovevano la loro potenza al bisonte, e portavano copricapi di corna di bisonte incise e levigate; oppure la ricevevano dal falco, e usavano le sue piume per simboleggiare questo passaggio di potenza. Le piume delle ali e della coda dell’aquila sacra erano simbolo di eccezionale prestigio di guerra, “perché l’aquila è il più importante degli uccelli. E’ il più potente, può volare più in alto, eppure può vedere tutto quanto accade sulla terra”.


Gambali da parata, con frange di crine e capelli provenienti da scalpi – tribù Crow

La brezza muoveva i copricapi di piume d’aquila dalle nere estremità. Questi erano costruiti in modo che i loro aggraziati ondeggiamenti nel vento rispecchiassero il profondo, lento e poderoso battito d’ali di un’aquila in volo. I copricapi di guerra erano impregnati di forza spirituale e, quali evidenti emblemi di leader e di uomini di prestigio, si distinguevano dalla singola piuma o dalle poche piume con cui la maggior parte degli individui mostrava il proprio status. Una sola piuma maestosamente penzolante dalle briglie di un pony era espressione di equilibrio, non meno vigorosa delle più appariscenti esibizioni. Anche quando l’insieme degli uomini si muoveva in cerchio e quindi si fermava, il movimento continuava per l’azione del vento che sfiorava le piume, e faceva ondeggiare gli ornamenti delle camicie di guerra, della lance e degli scudi. I fremiti vivaci dei pony accrescevano il movimento, facendo tintinnare i sonagli di sperone di cervo delle briglie, arruffando le criniere e facendo oscillare le piume d’aquila o di falco poste nelle code a trecce.
La parata, quindi, era una conferma di vita che, oltre a suscitare una forte impressione, conciliava le forze dell’uomo con quelle della natura e simboleggiava apertamente il moto che animava ogni angolo dell’ambiente: e in questo movimento della natura l’uomo, grazie all’introduzione del cavallo, poteva inserirsi completamente.
I nuovi oggetti importati fra dall’industria manifatturiera europea, punteruoli di ferro e metallo, perle e tessuti, semplificarono molti compiti (per esempio, era molto più facile tagliare spesse pelli di bisonte e applicare ornamenti di aculei di porcospino con coltelli di metalli e punteruoli che con utensili di osso), e arricchirono a tal punto la cultura dell’indiano che la trasformazione da comunità pedestri e poco attrezzate a vivide ed esuberanti culture di cavalieri fu così profonda che Catlin descrive le tribù del Missouri settentrionale come “indubbiamente le più belle, meglio attrezzate e meglio adornate di chiunque altro nel continente…niente al mondo, di questo genere, può forse essere più bello ed aggraziato delle loro danze e parate…al primo posto forse vi sono i Crow e i Piedi Neri; e nessuno sarebbe in grado di apprezzare la ricchezza e l’eleganza (e perfino il buon gusto) dei loro abbigliamenti, se non vedendoli sul loro territorio”.


Copricapo di guerra con piume di coda d’aquila appartenuto al capo Vitello Giallo (Arapaho)

I capelli

In particolare i Crow conquistarono una grande reputazione di sicurezza e fiducia in sé stessi. Sebbene fossero una piccola tribù, si gloriavano apertamente della loro audacia, e ciò si rifletteva nell’abitudine di lasciar crescere i capelli in modo straordinario. Ci fu un guerriero, di nome Colui-che-salta-alto, con i capelli tanto lunghi che, liberati dal laccio che li raccoglieva quando lui saliva a cavallo, toccavano il terreno! I capelli erano portati sciolti solo in occasione di parate e cerimonie, e per mantenerli in ordine vi si applicavano dei puntini di pece. Altre volte venivano raccolti e annodati con strisce di pelliccia o tessuto. Le donne Crow, Mandan, Piedi Neri ed altre tribù delle pianure portavano i capelli più corti, con una scriminatura centrale dipinta di rosso, come si usava anche presso le donne delle praterie (per esempio le Osage). Sia uomini che donne adornavano i loro capelli con grasso di orso per conferire ad essi la lucentezza dell’ebano, “simile all’ala del corvo”, e quindi li profumavano con erbe dolci. L’insolita attenzione riservata dagli uomini alla lunghezza dei loro capelli era in realtà un aspetto di un costume consueto per manifestare orgoglio e vanità. I Crow tagliavano corti i capelli sulla fronte e li spazzolavano all’indietro creando un effetto così caratteristico, che nelle pittografie dei Sioux appariva come il segno distintivo dei loro guerrieri. Alcuni uomini Arapaho portavano i capelli diritti sulla fronte, li tagliavano a zig zag sulle tempie, e li raccoglievano dietro la testa in una grossa treccia. Con l’arrivo dei bianchi e dei loro ornamenti in metallo, nelle Pianure si diffuse l’uso di portare nei capelli delle placche in alpacca. A volte, alle forme tradizionali di ornamento per capelli, costituite da aculei di porcospino e piume, si includevano piccoli oggetti in metallo.


Acconciatura Sioux, con aggiunta di uno specchietto – 1890

Anche gli uomini Mandan portavano capelli molto lunghi, divisi in grosse ciocche e abbondantemente cosparsi di colla e terra rossa, in modo da restare fissati molto a lungo. Nei lamenti funebri, le donne delle Pianure dovevano di norma tagliarsi i capelli; il lutto aveva termine quando essi erano completamente ricresciuti. In tali circostanze, gli uomini sacrificavano solamente una ciocca o due, tanto per far capire agli amici il loro dolore, senza danneggiare il loro più caro ornamento ed esibendo comunque rispetto e venerazione per il morto.
Diverse tribù, come Pawnee, Osage e Kansa, avevano l’usanza di rasarsi il cranio e di ornarlo con pelli di daino. I capelli venivano tagliati il più possibile radenti al cranio, tranne per un ciuffo della larghezza di una mano chiusa sulla sommità del capo, dove venivano lasciati crescere fino a circa cinque centimetri di lunghezza. Al centro veniva legata una cresta fatta con i peli della coda di un daino o di un cavallo, tinti di rosso, spesso sormontata da penne d’aquila. Al centro del ciuffo veniva lasciato crescere un ciuffo più ristretto, che non era mai tagliato, ma che si lasciava crescere il più possibile, per essere intrecciato e poi fatto passare attraverso un osso cavo. La treccia era chiamata “ricciolo dello scalpo” e veniva scrupolosamente tenuta nel modo descritto, per essere offerta al nemico quale trofeo, ovviamente a patto che se la sapesse conquistare. Tagliarsi il ciuffo sarebbe stata considerata codardia: non lasciare al nemico nulla da afferrare, nel caso si fosse caduti nelle sue mani durante il combattimento, sarebbe andato a danno della reputazione del guerriero.
Fra le tribù che si rasavano la testa in questo modo, la cresta era sempre color rosso sangue, e la parte superiore del cranio, e di solito anche di buona parte del viso, era di un vermiglione acceso. Dopo il Contatto questi popoli si tagliavano i capelli con piccole forbici ottenute dai commercianti di pellicce. Prima usavano i coltelli, e prima ancora bruciavano i capelli con pietre arroventate, con una procedura lenta e dolorosa.


Guerriero Kansa – dipinto di G. Catlin

L’abbigliamento

Sebbene lo splendido abbigliamento di solito in uso fra i Crow facesse sì che i cacciatori francesi li definissero “uomini di bell’aspetto”, non vi sono dubbi che, dal punto di vista estetico, le usanze più notevoli appartengano ai Piedi Neri. Essi frequentemente usavano l’ermellino laddove le altre tribù impiegavano piume o ciocche di pelo: le pellicce bianche spiccavano con effetto superbo sulle più scure pelli di cervo. Una tonalità ancora più profonda era data dalle strisce orizzontali marrone o nere con le quali essi a volte dipingevano camicie e gambali: la tradizione dice che questo era un diritto conferito dal Sole all’eroe culturale Viso Sfregiato come ricompensa per aver salvato la vita a Stella del Mattino, e trasmesso poi da Viso Sfregiato ai guerrieri Piedi Neri. Le linee dipinte, intersecate da frecce e pipe, erano testimonianza di imprese di guerra, mentre le impronte di zoccoli disposte verso il centro rappresentavano i cavalli catturati durante le incursioni. Una camicia così veniva indossata solo da guerrieri eccezionali.

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