Ho combattuto con Black Horse

A cura di Marco Aurilio

Black Horse (seduto a destra nella foto) con altri Navajo
Trading post di Blue Clay Point, nordest Arizona, un uomo bianco (Richard Van Valkenburgh) è seduto con il suo interprete Jerry davanti ad un vecchio navajo chiamato Hastin Tsosi, che in cambio di cibo e sigarette è lieto di raccontare storie e tradizioni da lui conosciute. Il racconto inizia al crepuscolo con storie di mitologia indiana, sulla creazione del mondo per poi passare alle battaglia con i messicani.
Quando il fuoco ormai è spento decide di parlare di Bililhizin, il navajo noto ai bianchi come “Black Horse”. “A Bililhizin non sono mai piaciuti gli uomini bianchi!”; iniziando dai messicani che uccisero il suo vecchio nonno e fecero schiave alcune donne della sua famiglia. Da giovane guerriero aiutò il capo Francisco Capitan a scacciare i cercatori d’oro dai Monti Carrizo. Quando nel 1863-64, Kit Carson condusse l’ultima guerra navajo, con la sua banda di giovani guerrieri eluse la cattura, trovando rifugio sulle Red Sandstones in inverno e spostandosi sui monti Lukachukai in estate, in aree isolate e selvagge dove solo pochi nativi e qualche archeologo hanno mai messo piede. Mentre la maggior parte dei Navajos fu costretta a recarsi nella riserva di Bosque Redondo, Black Horse ed i suoi uomini rimasero liberi come nei vecchi tempi: “ spesso attraversavano il San Juan per rubare cavalli ai Mormoni ed ai Paiutes. I soldati di Fort Lewis cercavano di catturarli ma le loro tracce sparivano puntualmente nelle Red Sandstones”. Nel 1863 i Navajos portarono a termine una vittoriosa imboscata ai danni dei soldati nella località allora nota come China Springs e ci sono indizi che mi lasciano pensare che a guidarli fu proprio Black Horse… la località in seguito divenne nota come “many arrows”. Will Evans, un trader che lo conobbe, lo descrive cosi ” Black Horse era un uomo alto, con un ossatura robusta ed un volto severo. Aveva sempre una pistola calibro 44 con un impugnatura perlata al fianco e una cintura con numerose cartucce, portava anche la vecchia “ borsa da guerra” di una volta sul fianco sinistro. Era il tipico navajo purosangue di Black Mountian, alto e slanciato, diverso dai Navajos che vivono ai confini della riserva, con sangue pueblo nelle vene che li rende più bassi e tarchiati”.


Black Horse – Bilii Lizhini (a sinistra) e Taiyoni

Quando il vecchio Tsosi riprese il suo racconto decise di parlare di quando a Fort Defiance fu istituita una scuola per i giovani indiani. L’allora agente Dana Shipley, che gli indiani chiamavano “caprone maleodorante”, impose di portare lì tutti i ragazzini tra i 6 ed i 16 anni. Presto si diffuse la notizia che aveva costretto a recarsi a scuola alcuni piccoli indiani con la forza e che spesso li maltrattava. Quando questo arrivò alle orecchie di Black Horse, organizzò un consiglio di guerra nella località Kabizhi, nota ai bianchi come Cove. “In poco tempo giunsero Navajos da tutte le parti, sulle montagne apparvero spirali di fumo e tutti giunsero all’hogan estivo di Black Horse parlando di guerra; un uomo disse che aveva sentito che Black Horse aveva poteri magici in guerra e voleva vederli su sè stesso. Questi gli rispose ridendo, affermando che li avrebbe usati solo sugli uomini bianchi”. Era il 1892 quando l’arrabbiato capo si presentò davanti la scuola. Con l’agente indiano c’erano anche Hery Chee Dodge, il missionario Alfred Harey, Charly Hubbel e sette poliziotti navajo. Appena fu fatto il tentativo di far entrare i 30 ragazzini nell’edificio, il capo gli urlò in maniera decisa: “lasciali immediatamente!” e si avvicinò. L’agente chiese di parlare pacificamente e Black Horse acconsentì. La discussione assunse toni sempre più accesi, fin quando i Navajos non presero Shipley e lo trascinarono fuori colpendolo con pietre e bastoni, fino al momento in cui apparve un poliziotto a cavallo”.


La trasformazione di un bimbo Navajo dopo l’ingresso in una scuola

Tsosi fece una pausa mentre l’uomo bianco che lo intervistava pensava alla versione della storia a lui raccontata da Henry Chee Dodge: “Per lui si mise male, quando fu trascinato fuori, io (Dodge) e Charly Hubbel barricammo le finestre, avevamo solo una carabina ed un piccolo revolver. Tall Policeman (un poliziotto navajo li presente) scivolò fuori dal fabbricato afferrò l’agente per le gambe e lo trascinò velocemente dentro… aveva il naso rotto. Anche Tall Policeman era stato colpito al volto mentre lo metteva in salvo”. La voce bassa di Tsosi interruppe i pensieri dell’uomo bianco per riprendere il racconto: “gli uomini di Balck Horse attraversarono un vicino torrente e tennero un consiglio. Sapevano che c’erano armi da fuoco nell’edificio e per questo esitarono ad attaccare. Aspettarono tutta la notte ed infine decisero di appiccare il fuoco per costringere i nemici ad uscire e poterli così uccidere. Ma proprio quando erano pronti per attaccare in lontananza apparvero dei soldati. Il capo disse ai suoi che ci avrebbe parlato da solo e così si diresse verso di loro”. Il colloquio terminò con la promessa di un incontro futuro a Fort Defiance, dopodichè Black Horse e i suoi risalirono il Dove Water Canyon e sparirono nelle loro Red Sandstones. In seguito due suoi emissari arrivarono a l forte per annunciare in un primo momento che si sarebbe presentato, per poi cambiare idea temendo di essere arrestato. Così presero la parola gli altri capi Ganado Mucho, Mariano, Chee Dodge e Gordo, sostenendo la causa di Black Horse. Gordo in particolare sostenne che l’agente maltrattava i piccoli navajos e tenne una lunga arringa contro “caprone maleodorante”, in seguito alla quale questi venne licenziato e sostituito con un uomo migliore, che non costringeva e maltrattava gli scolari.


Bambini della nazione Navajo

Black Horse mantenne il suo piglio ostile per tutta la vita. Il “Morning Press” del 13 Novembre 1913 riportò la notizia del rischio di una rivolta tra i navajos in seguito al tentativo di arresto di “Black Horse e la usa banda di undici rinnegati”, che giuravano che “non si sarebbero fatti mai arrestare e avrebbero combattuto”, rischiando così di coinvolgere altri indiani e ampliare l’entità della rivolta. Tsosi si stava rannicchiando nella sua coperta quando l’ intervistatore gli chiese se Black Horse si era mai arreso: “Dota! Mai!” rispose perentorio, “è sempre rimasto nelle sue terre fino alla morte qualche anno fa ed ha sempre odiato i bianchi”. Nonostante la cattiva fama che si era creato fece del bene al suo popolo, la sua ostilità mise fine ai maltrattamenti per i piccoli indiani. Mentre il fuoco si spegneva completamente, l’ultima domanda: “Come fai a sapere tutti questi particolari che lo riguardano?”. Tsosi spostò il gomito.. girò lentamente la testa verso il suo interlocutore, lo guardò… “Per forza… io… ho combattuto con Black Horse!”

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