I misteri di Lewis & Clark
A cura di Gian Mario Mollar
Lewis e Clark incontrano gli indiani
Agli inizi dell’Ottocento, il West americano era ancora un mistero.
Prima della grande esplorazione di Meriwether Louis e William Clark del 1804-1806, erano pochi quelli che si erano avventurati a ovest del fiume Mississippi e molto spesso ne erano tornati con racconti incredibili e meravigliosi.
A partire dal Cinquecento e nel Seicento, i primi ad avventurarvisi furono soldati ed esploratori spagnoli. Celebri conquistadores, tra cui Cabeza de Vaca, si erano spinti ad ovest costeggiando il Golfo del Messico e si erano poi addentrati nel continente sconosciuto.
I loro resoconti abbondano di elementi improbabili: pensarono che la California fosse un’isola e vagarono nel New Mexico alla ricerca delle Sette Città di Cibola, piene d’oro e ricchezze.
Quella delle Sette Città è una leggenda affascinante, che ha fatto scorrere fiumi di inchiostro. Si narra che, intorno all’VIII secolo dopo Cristo, sette vescovi sarebbero stati costretti da un attacco moresco ad abbandonare la Spagna e ad affrontare le onde dell’OceanoAtlantico. Una volta approdati su una terra nuova, avrebbero fondato altrettante città favolose, distruggendo le mappe e gli strumenti di navigazione per impedire ai loro compagni di fare ritorno in patria.
Il condizionale è d’uopo perché, malgrado le ricerche del conquistador Francisco Vazquez de Coronado intorno al 1540, nessuna città d’oro fu rinvenuta nel deserto ai confini con il Messico, ma soltanto polvere e qualche villaggio di adobe. L’ipotesi, a quel punto, fu che i sette vescovi non fossero approdati sul continente americano, ma su un’isola misteriosa nel mezzo dell’Atlantico denominata Antilia, successivamente inabissatasi tra i flutti. La leggenda di Cibola si confonde così con il mito di Atlantide, che, da Platone in poi, esercita un fascino irresistibile sugli appassionati di misteri.
Agli esploratori Spagnoli subentrarono altri cacciatori di pellicce e avventurieri europei, che fecero ritorno con storie altrettanto stupefacenti: lucenti montagne di sale, unicorni, castori alti quanto un uomo e bisonti mastodontici comparvero nelle cronache, ovviamente accompagnati da chimere di oro e gemme preziose a profusione. Si fantasticava, inoltre, di tribù di indiani cannibali, di terre in cui cavalcavano le guerriere amazzoni e di una misteriosa tribù di indiani che parlava un dialetto gallese, discendente di un esploratore bretone che aveva raggiunto l’America ben prima di Cristoforo Colombo.
Di fatto, però, nessuno aveva un’idea precisa di che cosa si nascondesse lungo i meandri del fiume Missouri, che nasceva nel remoto occidente dell’America, e ciò spiega la curiosità e l’interesse provati dal Presidente Thomas Jefferson.
L’occasione si presentò nel 1803, quando Napoleone Bonaparte, oberato dai debiti derivanti dalle sue campagne europee, decise di vendere la Louisiana francese agli Stati Uniti. Il territorio acquisito dalle tredici colonie americane era ben più ampio dell’attuale stato della Louisiana: più di due milioni di chilometri quadrati, che comprendevano l’intero bacino del Mississippi – Missouri, fino al confine delle Montagne Rocciose, ceduti per meno di tre centesimi all’acro.
Avendo praticamente raddoppiato il territorio degli Stati Uniti in un colpo solo, il Presidente Jefferson fu finalmente legittimato a organizzare un’esplorazione delle terre acquisite. Affidò l’impresa al suo segretario personale, un ex soldato di nome Meriwether Lewis, che a sua volta scelse come compagno William Clark. I due uomini erano profondamente diversi: il primo era di temperamento malinconico e cupo, mentre il secondo era di indole più pragmatica e vivace. Insieme formarono una coppia affiatata e geniale. Del resto, i tre uomini, Jefferson, Lewis e Clark si conoscevano da lungo tempo, perché erano tutti originari di una cittadina della Virginia, Charlottesville. La missione affidata a Lewis e Clark prevedeva diversi aspetti.
La risalita del fiume Missouri
In primo luogo, i due esploratori dovevano risalire il corso del Missouri fino alle Montagne Rocciose e di lì trovare il modo migliore per raggiungere l’Oceano Pacifico, ma alla missione puramente esplorativa si univa la finalità di aprire la via per i futuri commerci, stabilendo relazioni diplomatiche con i nativi presenti sul territorio. Oltre a ciò, i due vennero incaricati di raccogliere campioni della geologia, della flora e della fauna locali. Oltre che come scienziati, gli esploratori avrebbero dovuto agire anche come cartografi, tracciando mappe e punti di riferimento per i luoghi che avrebbero attraversato. Lewis si occupò soprattutto dei dettagli tecnici e delle relazioni diplomatiche con i nativi, mentre Clark si concentrò sulla cartografia e sugli aspetti scientifici e naturalistici della spedizione.
Fu così che ebbe inizio una delle più grandi avventure americane. La spedizione partì il 14 maggio del 1804 da Saint Louis, Illinois, un paesino situato in prossimità del punto in cui il fiume Missouri sfocia nel Mississippi. L’eccitazione che accompagnò la loro partenza potrebbe essere paragonata, in tempi più recenti, a quella provocata dalle esplorazioni spaziali e dall’atterraggio sul suolo lunare: un pugno di uomini partiva alla scoperta dell’ignoto.
Il drappello era composto da trenta uomini, tra i quali c’erano diciassette soldati regolari, nove pionieri del Kentucky, due marinai francesi, un interprete di nome George Druillard, il colossale schiavo personale di Lewis, di nome York, e Scannon, l’inseparabile cane di Clark. Nel corso del viaggio, si unì alla compagnia una ragazzina shoshone di nome Sacagawea, incinta e accompagnata dal marito, un mercante di pellicce franco canadese di nome Thouissant Charbonneau. La giovane Sacagaewa giocò un ruolo fondamentate e inestimabile per la spedizione, contribuendo a guidare gli esploratori e facendo da interprete.
Il viaggio di Lewis e Clark durò due anni, quattro mesi e dieci giorni, durante i quali percorsero più di 12.600 km, seguendo dapprima le anse del Missouri, per poi valicare le Montagne Rocciose e finalmente raggiungere il Pacifico. Nel corso della loro esplorazione non trovarono né unicorni né amazzoni, ma scoprirono più di 200 specie vegetali sino ad allora ignote – tra cui due che battezzarono Lewisia e Clarkia – e catalogarono 122 specie e sub-specie animali, di cui molte autoctone.
Le relazioni con i nativi furono improntate alla diplomazia, ma non sempre risultarono facili e distese, come nel caso del celebre incontro con i Teton Sioux, dove per poco una visita ufficiale non si trasformò in carneficina.
Tra i Sioux
Al di là dei modi formalmente cordiali, il messaggio dei due esploratori era piuttosto chiaro: vi conviene essere amichevoli con i mercanti che arriveranno in seguito, o potreste pentirvene amaramente. Si preparava così quello che, di lì a poco, sarebbe stato denominato Manifest Destiny, il destino manifesto degli Stati Uniti ad espandersi inarrestabilmente, imponendo libertà e democrazia anche a coloro che non le desideravano, perché già le avevano.
Fiumi di inchiostro sono stati rovesciati su questa odissea americana e descriverla nella sua interezza necessiterebbe di ben altro spazio. In questa trattazione, pertanto, ci limiteremo soltanto a descrivere alcuni aspetti curiosi e insoliti della spedizione, sperando di destare la curiosità del lettore.
Il brontide: l’inspiegabile artiglieria delle Montagne Rocciose
In una nota nel diario di Meriwether Lewis datata 4 luglio 1805, si legge quanto segue: “Abbiamo ripetutamente udito un rumore che arriva da nord ovest. È un rumore tanto forte e rassomigliante con precisione alla scarica di un pezzo di artiglieria da 6 libbre alla distanza di tre miglia. Ne sono stato informato diverse volte dagli uomini prima di prestarvi attenzione. Pensai che molto probabilmente si trattasse di un tuono e che si stessero sbagliando. Dopo qualche tempo, camminando l’altro giorno nelle pianure, ho sentito questo rumore molto distintamente. Era perfettamente calmo, sereno, e non c’era una nuvola.”
Le armi di cui era dotata la spedizione di Lewis e Clark
Dal resoconto di Lewis emerge in primo luogo la sua formazione militare, che gli consente di tracciare un paragone con il rumore di un cannone. Confessa però la sua incapacità di stabilirne le cause: “Non riesco a trovare una spiegazione per questo fenomeno. Non ho dubbi che se avessi tempo potrei scoprire da dove parte questo suono”.
Qualche giorno dopo, l’11 luglio, il capitano Lewis registra ancora due scariche di quella che definisce “l’inspiegabile artiglieria delle Montagne Rocciose”. Gli tornano in mente alcuni racconti degli Indiani Pawnee e Arikara, che gli avevano parlato di un suono misterioso proveniente dalle Black Hills, situate nell’attuale South Dakota, che Lewis, da buon figlio dell’Illuminismo, era stato subito pronto ad accantonare come “fantasmi di un’immaginazione superstiziosa”.
Gli appunti di Lewis si riflettono anche nelle memorie di William Clark, che scrive: “È probabile che il grande fiume che sta a monte di queste Grandi Cascate e sembra puntare nella direzione del rumore abbia preso il suo nome di Medicine River da questo inspiegabile rombo, che viene definito Medicina dagli indiani del Missouri, come tutte le cose inspiegabili”.
Il cupo rumore avvertito dalla spedizione esplorativa, una sorta di rombo di tuono a cielo sereno è, in realtà, più di una semplice curiosità.
Si tratta, infatti, di un fenomeno misterioso che ha stupito viaggiatori ed esploratori di ogni latitudine. Ne parla, ad esempio, un prete gesuita di nome Simao de Vasconcelles (1597 – 1671), al quale i nativi della Serra de Piratinga, un territorio nel Brasile meridionale, avevano raccontato che si trattava “delle doglie e dei gemiti della montagna che si sforza per partorire le pietre preziose nascoste nelle sue viscere”. Essi ritenevano che, in seguito a questi suoni esplosivi, le montagne emettessero delle palle di pietra, grandi quanto un cuore di bue, al cui interno si potevano trovare cristalli bianchi e rossi.
La geologia moderna ci spiega che questa tipologia di minerali esiste realmente: si tratta dei geodi, sfere cave con l’interno incrostato di cristalli. I geodi sono prodotti dalle eruzioni vulcaniche e sono costituiti da emissioni di lava che, raffreddandosi in modo lento e non omogeneo, consentono il formarsi di reticoli cristallini. Le credenze dei nativi brasiliani, dunque, sembrerebbero ricondurre l’origine del suono misterioso a un fenomeno di tipo vulcanico, ma questa teoria non è sufficiente a gettare luce sul caso di Lewis and Clark, perché, nella zona in cui si trovavano, non erano presenti vulcani.
Un altro missionario gesuita, di nome Cristoval de Acuna (1597-1675), ritrovò il medesimo fenomeno esplorando il corso del Rio delle Amazzoni e anche in questo caso i nativi del posto gli assicurarono che “gli orribili rumori che si sentivano di tanto in tanto nella Serra de Paraguaxo sono un segno certo che questa montagna contiene pietre di grande valore al suo interno”.
Nel 1807, poco dopo l’avventura di Lewis e Clark, un altro esploratore, di nome David Thompson (1770-1857), fece un’esperienza analoga nell’attraversare le Montagne Rocciose del Canada. Egli collegò il fenomeno alle valanghe, spiegando che “le montagne sono cariche di neve, il cui continuo scorrere fa un rumore come di tuono”. Nel 1850, ne parlerà anche il celebre James Fenimore Cooper, l’autore de “L’ultimo dei Moicani”, in un breve racconto satirico denominato “The lake gun”.
Il nome generalmente utilizzato per riferirsi a questi fenomeni è brontidi, un termine di etimo greco che indica per l’appunto questo rombo misterioso.
Il fenomeno è in realtà diffuso in tutto il mondo: dall’India, dove viene definito barisal guns, “cannoni della città di Barisal”, situata sul delta del Gange, alle spiagge del Mare del Nord, dove i marinai olandesi chiamano questo suono mistpoeffers, “rumore della nebbia”, e gli inglesi paperbags, per la somiglianza con il rumore che si ottiene facendo scoppiare un sacchetto di carta gonfiato d’aria.
In Svizzera si parla di Seeschiessen e anche in Italia ci sono diverse attestazioni del fenomeno, che venne studiato con particolare acume agli inizi del 1900 dal professor Tito Alippi: “In Italia essi vengono chiamati pure con vocaboli diversi da regione a regione: marina nelle campagne umbre, ruglio della marina in Val d’Orcia, nel senese e nelle campagne grossetane; baturlio della marina nell’Appennino della provincia di Arezzo; bonniti e bombiti nell’Appennino marchigiano; tuono o mugghio della Balza o trabusso nel territorio faentino e nella Romagna toscana, e poi chissà con quanti altri nomi”.
In alcuni casi, questi rumori preludono a terremoti o scosse sismiche, mentre in altri, invece, non si verifica nulla di tutto ciò.
L’incontro con i Mandan
Una delle descrizioni più suggestive di questo tipo di fenomeno ci proviene dall’esploratore e scrittore polacco Ferdinand Ossendowski (1876-1945). Attraversando il deserto del Gobi, in Mongolia, vide la sua guida e il resto del suo drappello arrestarsi improvvisamente, scendere dai cammelli e iniziare a pregare, a causa di una “sommessa vibrazione” che percorreva l’aria.
Si trattava di un caso di brontide? Non è dato saperlo con precisione, ma è certo che le condizioni atmosferiche concordano con quelle descritte da Lewis e Clark: anche in questo caso, infatti, abbiamo una prateria sconfinata e un cielo limpido, che non fa pensare a tuoni.
La cosa più interessante, tuttavia, è la spiegazione che Ossendowski ricevette dalla sua guida: si trattava, gli disse, del “Re del Mondo che prega nel suo palazzo sotterraneo e vaglia il destino di tutti i popoli della terra”. Secondo la testimonianza raccolta dallo scrittore, il Re del Mondo vivrebbe in un regno sotterraneo denominato Agharti, che “si sviluppa attraverso una rete planetaria di gallerie sotterranee”. Nessuno sa dove sia collocato questo regno misterioso, forse al di sotto delle monumentali montagne del Nepal, forse in India. La tradizione vuole che sia un mondo felice, in cui regnano pace e giustizia, e che sia abitato dai sopravvissuti all’inondazione di Atlantide e Mu. Le sue gallerie si estendono in tutto il mondo: “ho udito”, raccontò a Ossendowski il principe Chultun Beyli, “un dotto lama in Cina riferire al Bogdo Khan che tutte le caverne d’America sono abitate dall’antico popolo che era scomparso nel sottosuolo”.
Sarà il grande esoterista francese René Guenon ad approfondire le implicazioni iniziatiche di questo mito, in un libro, Il re del mondo, che diventerà un classico. In questa trattazione ci è sufficiente immaginare la suggestiva e affascinante ipotesi che gli intrepidi Lewis e Clark abbiano potuto avvertire, per qualche istante, il rumore del Re del Mondo, che, accompagnato dal suo corteo, attraversa il suo regno sotterraneo.
Ma qual è la vera origine dei brontidi? Come sosteneva Sherlock Holmes, “una volta eliminato l’impossibile ciò che rimane, per quanto improbabile, dev’essere la verità”. Lasciando dunque da parte cortei sotterranei, dischi volanti e funesti presagi, le spiegazioni scientifiche per il fenomeno sono fondamentalmente tre.
La prima ne identifica la causa in movimenti sismici sotterranei, che trasmetterebbero le vibrazioni all’aria, causando l’emissione di suoni bassi e cupi che viene udita anche a grande distanza. Una seconda ipotesi, invece, attribuirebbe l’origine di questi scoppi ad uno scontro atmosferico di masse d’aria con temperature differenti. Una terza spiegazione, infine, la cui paternità è da attribuirsi alle teorie del fisico Jearl Walker, potrebbe ricondurre il brontide a un fenomeno di rifrazione sonora. Secondo questa teoria, i brontidi sarebbero semplicemente dei tuoni che deflagrano a grande distanza. Le onde sonore che compongono questo suono detonante tenderebbero ad aumentare la loro velocità con l’aumentare della temperatura dell’aria, il mezzo attraverso il quale si diffondono. La differenza di temperatura dell’atmosfera, più fredda in prossimità della superficie terrestre e più calda negli strati superiori, creerebbe una sorta di “galleria del sussurro”, una cupola di forma ellissoidale in grado di trasmettere rumori a grande distanza. Attraverso una complessa forma di rifrazione sonora sarebbe quindi possibile udire il rombo del tuono senza vederne i fenomeni atmosferici correlati, quali lampi e temporali.
Vi è, infine, un’ultima ipotesi azzardata dal professor Alippi, che suppone la presenza di cavità sotterranee capaci di fungere da cassa di risonanza per i fenomeni atmosferici e per scosse sismiche, simili alle gallerie sotterranee di cui si favoleggiava precedentemente.
In ogni caso, il brontide è rimasto, a più di due secoli dalla spedizione di Lewis and Clark, un mistero non risolto.
Il fantasma di Black Bird Hill
L’11 agosto del 1804, il Capitano Clark scrisse nel suo diario: “Quando è finito di piovere, il Capitano Lewis, io e 10 uomini siamo saliti sulla collina dove il re dei Mahars Black Bird fu sepolto quattro anni fa. Sulla sua inumazione sorge un mound (tumulo) di terra con un diametro di circa 3,5 metri alla base, alto 1,80 metri, con un palo alto 2,40 piantato nel mezzo. Su questo palo abbiamo fissato una bandiera bianca, bordata di rosso, blu e bianco”.
Capo Uccello Nero, Wash-ing-guh Sah-ba nella lingua degli Omaha – quelli che Clark, con uno spelling un po’ fantasioso, definisce Mahars – visse tra il 1750 e il 1800, e fu uno dei primi leader nativi delle Grandi Pianure a commerciare con i bianchi. A quel tempo, il Nebraska era ancora proprietà della Francia, e i commercianti di pelli erano soprattutto francesi e spagnoli.
Oltre che per i commerci, Black Bird viene ricordato per essere stato un grande guerriero e per le sue battaglie contro varie tribù limitrofe, tra cui i Sioux e i Pawnee. Perdette la sua ultima battaglia contro un temibile nemico portato dall’uomo bianco, il vaiolo, che lo uccise insieme a gran parte della sua tribù.
Il poggio di Black Bird Hill, che sovrasta il fiume Missouri, è famoso per essere infestato e maledetto.
Il fantasma che vi si aggira, in realtà, non è quello dell’autorevole Capo degli Omaha, ma quello di una giovane donna, che fu assassinata in quei luoghi quarantacinque anni dopo l’esplorazione di Lewis e Clark, il 17 ottobre 1849.
La leggenda narra di una coppia di innamorati nella parte orientale degli Stati Uniti. Il giovane fidanzato decide di partire per un viaggio in mare, promettendo alla sua innamorata di sposarla al suo ritorno. La ragazza lo aspetta per anni invano, affranta, e alla fine decide di sposare un altro uomo. Il nuovo marito è un pioniere e la porta all’Ovest: i due costruiscono una piccola capanna proprio sulla collina di Black Bird e iniziano una nuova vita insieme.
In un giorno fatale, però, la donna vede sbucare dalla foresta il suo antico amore. Un naufragio lo aveva trattenuto lontano per cinque anni: tornato in patria, aveva trovato la vecchia madre morta e la fidanzata di un tempo sposata con un altro uomo. Senza più radici, aveva così deciso di esplorare la frontiera, con l’unico risultato di ritrovarsi di fronte al suo antico amore.
La donna, nel suo intimo, non ha mai smesso di amarlo e decide così di riferire al marito l’accaduto, chiedendogli di liberarla dal vincolo matrimoniale e di lasciarla andare. Il consorte, tuttavia, non è così contento della proposta: dapprima, con il cuore infranto, la supplica di restare, poi, vedendo che lei si rifiuta, mette mano al suo coltello da caccia e la trafigge più volte. Quando si rende conto di quello che ha fatto, è ormai troppo tardi: prende la moglie in fin di vita tra le braccia e si getta con lei dal picco di Blackbird nelle gelide acque del Missouri, scomparendo per sempre. Il fidanzato di un tempo, scioccato per la tragedia che non era riuscito a evitare, continua a vagare per la foresta e a delirare, fino a quando non viene ritrovato e soccorso dagli Omaha.
Secondo la leggenda ancora oggi, nella notte del 17 ottobre, sulla collina di Blackbird è possibile udire le urla e i lamenti della giovane e infelice sposa e c’è chi giura sia vero.
Per quanto l’ululare del vento o la semplice suggestione possano giocare un ruolo importante in quest’apparizione, quella di Blackbird è una leggenda intrisa di tragico romanticismo che continua ad esercitare il suo fascino.
Il piccolo popolo
25 agosto 1804. Dal diario di Clark: “Stamattina il Capitano Lewis ed io [con altri 10 componenti della spedizione] siamo usciti in esplorazione per visitare questa montagna di Spiriti Malvagi” (evel Spirits) […] Qualche tempo prima di raggiungere la collina abbiamo osservato un gran numero di uccelli che sorvolava la cima di questo rilievo e, una volta raggiunta la sommità, gli uccelli volarono via. Ho scoperto che stavano cacciando una specie di formiche volanti, presenti in gran numero sulla cima del colle.”
William Clark descrive il luogo misterioso come un colle di forma conica e spiega che è temuto ed evitato dalle tribù dei dintorni, perché credono che sia la dimora del Piccolo Popolo, o dei Piccoli Diavoli. La stessa struttura regolare, spiega, potrebbe far pensare a una costruzione umana, ma la somiglianza del suolo con il resto del territorio lo porta a concludere che si tratta semplicemente di un prodotto della natura.
“Una prova che gli indiani adducono per credere che questo posto sia il luogo in cui risiedono certi spiriti insoliti è che trovano spesso dei grandi stormi di uccelli che volano nei pressi della collina – è a mio avviso una prova sufficiente per produrre in una mente selvaggia la credenza in tutte le proprietà che gli attribuiscono”.
Tra gli appunti di un altro membro della spedizione troviamo la conclusione dell’avventura: “saliti in cima al colle, non abbiamo trovato il Piccolo Popolo, ma abbiamo visto diversi buchi nel terreno”.
Questo breve episodio del diario di Lewis e Clark porta alla luce un’altra leggenda dalle radici antichissime: la credenza nel Piccolo Popolo. Essa, in genere viene associata alle culture del Nord Europa, i cui miti abbondano di elfi, fate, gnomi, coboldi e leprecauni.
È una stirpe fatata, che secondo il folklore vivrebbe nel cuore della foresta, o sottoterra, all’interno di colli e montagne. Non a caso, la parola gaelica che li indica, Shide, significa letteralmente “il popolo delle Colline”. Pur essendo di dimensioni ridotte, il Piccolo Popolo è tutt’altro che innocuo: se sfidato o trattato con leggerezza dagli umani, può rivelarsi estremamente pericoloso e anche letale. È quindi opportuno trattare queste creature elfiche con il dovuto rispetto, e un segno di questa timorosa riverenza rimane in un altro nome che tradizionalmente gli viene dato: il Buon Popolo.
La natura di questi folletti è fondamentalmente ambigua: al loro lato oscuro e pericoloso si contrappone una grande generosità, che può portarli, talvolta, a offrire agli uomini doni e segreti preziosissimi. A essi, in genere, sono associate ricchezze – si pensi all’oro che i nani estraggono dalle viscere della terra o al pentolone di monete che i folletti irlandesi nascondono dove inizia l’arcobaleno – e anche la musica: nel profondo dei boschi si svolgono le loro danze gioiose e forsennate, che il Cristianesimo medievale ha trasformato nei terribili sabba delle streghe.
È proprio questa duplicità, dallo scherzo più spietato alla prodigalità incondizionata, che permette di classificare il Piccolo Popolo con la figura mitologica del trickster, il sacro buffone.
In molte popolazioni native del Nord America la credenza nel Piccolo Popolo segue esattamente queste linee. Nei loro miti si ritrova, in genere, una razza di piccoli uomini barbuti, alti una cinquantina di centimetri ma al contempo dotati di una forza prodigiosa. Talvolta, la loro bocca è irta di denti aguzzi e sono spesso dotati di piccoli archi e coltelli in grado di provocare dolorose ferite.
Una testimonianza diretta, ed estremamente suggestiva, di queste figure ci viene fornita dal Capo Crow Molti Trofei (1848 – 1932): “I Nani, ovvero la piccola gente, sono esseri immaginari che si crede dotati di grande forza fisica. Nella leggenda del Fanciullo Smarrito, un Crow vede un Nano che si carica in spalla un alce adulto e cammina sotto il peso di questo grosso animale. I Nani dimorano sulla Montagna Sacra, che è vicino a Pryor, nel Montana. I Crow credono che sia stata la Piccola Gente a introdurre l’uso delle punte di pietra per le frecce”.
Secoli e migliaia di chilometri separano i racconti di questo condottiero crow dai miti celtici e germanici, eppure le caratteristiche del Piccolo Popolo rimangono le medesime: tra queste, il legame ctonio con le viscere della terra, che si esplicita, in questo caso, nella produzione di punte di freccia in pietra.
Gli umani che entrano in contatto con il popolo fatato possono subire conseguenze gravi: se mangeranno il loro cibo o parteciperanno alle loro danze, correranno il rischio di non fare più ritorno alle loro case. In genere, gli elfi hanno un debole per i bambini umani, che talvolta rapiscono. In alcuni casi, il bambino viene trattenuto per sempre nel loro regno e sostituito sulla terra con un simulacro non del tutto umano, vorace e capriccioso, il cosiddetto changeling.
Molti Trofei, Crow
In altri casi, invece, l’incontro con il popolo fatato è foriero di grande fortuna. Ancora una volta, la testimonianza di Molti Trofei è illuminante in questo senso: a lui apparvero in sogno all’età di nove anni, annunciandogli il suo destino di capo e rivolgendogli queste parole: “Molti Trofei, noi, i Nani, la Piccola Gente, ti abbiamo adottato e saremo i tuoi Esseri Protettori finché vivi in questo mondo”. I consigli che gli vengono rivolti sono ricchi di una profonda saggezza, e meritano di venire citati: “In te, come in ogni uomo, vi sono dei poteri naturali. Hai volontà. Impara a usarla. Trova il modo di usarla. Aguzza i sensi così come affili la lama del coltello. Ricordati che l’olfatto del lupo è migliore del tuo, perché il lupo ha imparato che tutto dipende dal proprio naso. Esso gli rivela ogni segreto portato dal vento perché lo usa sempre, lo fa lavorare. Noi non possiamo darti nulla. Tu hai già tutto quanto è necessario per diventare grande. Usa i tuoi poteri, falli lavorare per te, e diventerai un capo.”
La profondità di questi insegnamenti lascia intendere che l’esistenza di questi esseri magici dovrebbe essere ricercata soprattutto nelle profondità dell’essere umano. Sebbene la nostra vita quotidiana di uomini del ventunesimo secolo sia piuttosto lontana dalle foreste e dagli scenari selvaggi che fecero da sfondo alle avventure di Lewis e Clark, il Piccolo Popolo non ha smesso di abitare il nostro inconscio. Con grande acume intellettuale, lo studioso francese Jacques Vallée ha evidenziato come la credenza contemporanea in extraterrestri, ufo e rapimenti alieni abbia numerose caratteristiche in comune con l’antico mito del Popolo Fatato. Gli “omini grigi” che popolano una vastissima letteratura più o meno fantascientifica ricordano da vicino gli elfi e gli gnomi della mitologia e si comportano in modo molto simile: “la moderna, globale credenza nei dischi volanti e nei loro occupanti è identica a una credenza più antica del mondo fatato”.
Nel 1932, molti anni dopo l’episodio raccontato, due cercatori d’oro, di nome Cecil Mayne and Frank Carr, si trovavano sui monti San Pedro, in Wyoming. Mentre stavano scavando per fare emergere una grossa vena di minerale, si imbatterono in una piccola nicchia scavata nella roccia, all’interno della quale era deposto un essere mummificato molto curioso.
La piccola mummia aveva fattezze umane ed era stata deposta in posizione seduta. Le sue dimensioni ridotte, una quarantina di centimetri di altezza immaginandola distesa, fecero immediatamente pensare che i due cercatori avessero trovato la prova dell’esistenza del Piccolo Popolo o, perlomeno, di qualche antica razza pigmoide. Il ritrovamento suscitò non poco scalpore.
Il piccolo corpo mummificato
L’analisi del reperto ai raggi X, tuttavia, portò alla luce una verità più prosaica: il corpo mummificato non apparteneva a un folletto, ma a un neonato affetto da una forma di anencefalia, una deformazione che blocca lo sviluppo del lobo frontale del cervello. Tale malformazione aveva ristretto notevolmente le dimensioni craniche del bambino, conferendogli un aspetto curiosamente adulto. La datazione al C14 provò che il corpo risaliva al 1700 circa.
Dopo questi esami, forse per caso e forse no, la Mummia dei Monti San Pedro fu misteriosamente trafugata e, malgrado una taglia di 10.000 dollari, nessuno, fino ad ora, è riuscito a ritrovarla.
Termina qui il nostro viaggio negli aspetti insoliti dell’avventura di Lewis e Clark, un’avventura già di per sé avvincente e meravigliosa. Rumori misteriosi, fantasmi, folletti e mummie hanno rappresentato l’occasione per esplorare un territorio ben più vasto di quello attraversato dal fiume Missouri: un mondo di folklore e immaginario che, allora come oggi, non cessa di stupirci.
Riferimenti bibliografici
Dee Brown, Lungo le rive del Colorado, Mondadori, 2001
Bil Gilbert, The trailblazers, in The Old West, Time-Life Books, 1973
AA.VV., BRONTIDI Fenomeni acustici in atmosfera conosciuti anche come mistpoeffers?Marco Maculotti, Il “Piccolo Popolo” nel folklore dei Nativi Americani del Sud-Est, https://axismundi.blog/2016/01/02/il-piccolo-popolo-nel-folklore-dei-nativi-americani-del-sud-est/ ?Marco Maculotti, I rapimenti dei Fairies: il “changeling” e il “rinnovamento della stirpe” https://axismundi.blog/2017/10/31/i-rapimenti-dei-fairies-il-changeling-e-il-rinnovamento-della-stirpe/ ?Jacques Vallée, Passport to Magonia. From folklore to flying saucers, Daily Grail Publishing, 2014.?Chris Dingess, Matthew Roberts, Owen Gieni, Manifest Destiny, Image Comics 2017