I revolver ad avancarica del West

A cura di Alfredo Barattucci, con il contributo di Gualtiero Fabbri

Sparatoria con la Colt Dragoon
Ai tempi del vecchio West – contrariamente a quanto si vede al cinema – i revolver a retrocarica non erano affatto di uso comune e ne circolavano pochissimi. Infatti cominciarono a diffondersi solo dopo il 1873, anno in cui fu prodotta la celebre Colt SAA, cioè il modello denominato “Single Action Army”. Prima di quella data, se si esclude qualche prototipo, o qualche arma modificata, anche i più famosi pistoleri erano armati di revolver ad “avancarica del tamburo”, come la Colt Dragoon, la pistola Remington, la Colt modello Army del 1860, e la Colt Modello 1851.
Quest’ultima, prodotta nel calibro da 36 centesimi di pollice, era chiamata “Colt modello da cintura in calibro navale”, ma fu ribattezzata “Colt Navy Modello 1851” dai primi collezionisti e ancora oggi è conosciuta sotto tale denominazione.
Nonostante questo, dal 1860 al 1873 vi furono diverse ditte che producevano già revolver a cartuccia metallica, generalmente non sviluppavano grande potenza, ad esempio per parlare della sola Smith-wesson produsse circa 350.000 di queste armi di piccolo e medio calibro, nonché, prima del 1874, anche 28.000 potenti revolver in cal, 44.
Tutte queste pistole, seppure a ripetizione, erano ancora ad avancarica e si dovevano predisporre al tiro premendo con una bacchetta a leva (detta calcatoio e incernierata sotto la canna) una palla di piombo in ciascuna delle camere del tamburo. Prima di questa manovra bisognava caricare dal davanti ogni camera con una certa quantità di polvere da sparo, poi bisognava sistemare da dietro le capsule d’innesco sui luminelli forati, e solo allora si era pronti a far fuoco, prima alzando il cane e poi premendo il grilletto. L’intera operazione di avancarica era complicata e spesso non andava a buon fine, specie con cattivo tempo o con le mani bagnate. Malgrado ciò erano armi molto efficaci, del resto le uniche disponibili prima della diffusione di quelle che si caricavano da dietro (a retrocarica) che divennero di uso comune solo molto più tardi, quando nelle armerie delle principali città dell’Ovest ap-parvero le prime cartucce metalliche, che contenevano palla e polvere all’interno di un bosso-lo d’ottone il cui fondello integrava anche l’innesco.
L’efficacia dei revolver ad avancarica del tamburo era basata sostanzialmente su due fattori: la stabilità di tiro, dovuta al rinculo non esasperato, e la pratica ripetizione dei colpi, cosa che oggi appare scontata, ma che allora era considerata ancora un’innovazione.
L’idea di una pistola a ripetizione che sfruttasse la rotazione di un tamburo (brevettata dall’inventore Samuel Colt nel 1836) fu adottata anche da altri costruttori europei e americani, come Remington, Adams, Le Mat e Smith & Wesson, i quali produssero eccellenti armi basate sullo stesso principio, ma queste non raggiunsero mai la diffusione che in pochi decenni ebbero le pistole Colt (dette “six-shoots”, “sei-colpi” per eccellenza) in tutto l’Ovest degli Stati Uniti.
Samuel Colt copiò il suo revolver da quello di Collier, semplificandolo e rendendolo più pratico; i revolver Collier (del 1819) erano a tamburo e con una sola canna, furono fabbricati sia con accensione pietra focaia e poi a percussione di capsula, i primi avevano il meccanismo che girava automaticamente il tamburo alzando il cane, erano largamente diffusi sulle navi, e specie nelle colonie inglesi. Diecimila libbre di queste armi furono spedite a Calcutta qualche anno prima che vi si recasse Colt in veste di marinaio, a sua volta Collier aveva copiato il brevetto di Puckle del 1818.
Del resto anche nell’immaginario collettivo è difficile pensare all’Epopea del West Americano senza evocare automaticamente questo marchio: a volte è usato addirittura come sinonimo di revolver. Insomma, il nome Colt è di una tale notorietà, da essere immediatamente riconosciuto: viene subito associato all’idea di pistola a tamburo, anche da coloro che sono meno informati e interessati di questi argomenti.


Un esemplare di revolver ad avancarica: il Colt Dragoon prodotto nel 1849.

In particolare la Colt modello Army del ‘60 e la Colt Modello 1851 (cioè quella conosciuta oggi con il nome “Colt Navy’ 51”) furono fra le pistole più “moderne” ed efficaci dell’epoca. Sparavano talmente bene, che anche dopo il 1873, con l’avvento della retrocarica, furono in molti a preferirle, almeno per due motivi che ne costituivano altrettanti pregi: il primo era la canna lunga (lavorata in acciaio di eccellente qualità) che permetteva di tirare con grande precisione, anche se rendeva questi revolver più scomodi da portare, il secondo era la possibilità di dosare la quantità di polvere da sparo secondo le circostanze, cosa che però, li rendeva più scomodi da ricaricare.


Una Colt ad avancarica modello “Army 1860” in calibro .44 e fabbricata nel 1861.

Come per tutte le cose, anche per le pistole di allora ci furono denigratori ed estimatori, sia del “nuovo modello SSA ‘73” a retrocarica, che dei “vecchi” avancarica, che rimasero in circolazione per molti anni – spesso modificati – anche dopo la loro uscita di produzione avvenuta nei primi anni ’70 dell’800.
I “vecchi” modelli Colt Navy ‘51 e Colt Army ’60 sparavano lontano quasi quanto un fucile, ma la precisione lasciava a desiderare a causa del sistema di mira, ovvero la tacca di mira posteriore era posta sul cane, ed erano anche ingombranti e difficili da caricare; invece la “nuova” Colt SAA del 1873 aveva un tiro più corto e minor precisione, ma era più comoda da portare addosso (specie stando a cavallo). Inoltre si poteva ricaricare “da dietro” (a retrocarica) con le innovative cartucce dal bossolo metallico, operazione molto più pratica e veloce di quella necessaria sui modelli precedenti ad avancarica, nei quali si dovevano ancora incamerare “dal davanti” particolari cartucce di carta confezionate a mano. Quando la Colt SAA fu “lanciata” sul mercato, verso la fine del 1873, il superamento dei limiti imposti dalle vecchie cartucce di carta fu talmente enfatizzato, che la casa costruttrice si preparò a un successo clamoroso nell’errata convinzione che il nuovo revolver avrebbe avuto una diffusione rapidissima proprio in virtù del munizionamento a bossolo metallico che esso impiegava.
Invece fu penalizzato da una serie di fattori dovuti al forte rinculo e alla potenza dei colpi “fissa”, cioè basata sulla quantità standard di polvere racchiusa nei bossoli d’ottone si-gillati a macchina, cosa che precludeva la possibilità di quei dosaggi personalizzati cui Pionieri, soldati, cow-boys e avventurieri erano abituati. Inoltre il costo elevato della nuova arma (ben 13 dollari, che a quell’epoca erano davvero tanti) ne rallentò il mercato civile per almeno tre anni dopo il suo esordio.
Per tutte queste ragioni molti utilizzatori, compresi alcuni fra i pistoleri più famosi, rimasero fedeli ai revolver ad avancarica fra i quali preferirono il robusto Remington, la Colt Army del 1860 e soprattutto la “vecchia“ Colt Navy del 1851, che continuò ad entusiasmarli per anni e venne prodotta fino al 1878 (se pur con pezzi di surplus: 23.400 armi dal 1871 al 1878).
Personaggi celebri, come John Henry “Doc” Holliday, Richard Francis Burton, “Wild Bill” Hickok, Bully Hayes, Richard H. Barter, il generale Robert E. Lee, Nathan B. Forrest e Frank Gardiner non seppero rinunciare alla versatilità offerta dall’avancarica del tamburo: dosando bene la quantità di polvere da sparo e scegliendo le pallottole adatte si ottenevano prestazioni simili a quelle del nuovo munizionamento standard commercializzato per la retrocarica. E questo valeva sia in termini di efficacia “terminale” sul bersaglio, sia in termini di precisione.
Un po’ come avviene oggi nelle competizioni di tiro: i campioni difficilmente impiegano munizioni commerciali, ma preferiscono la “ricarica ad hoc”, seguendo criteri personalizzati, con dosaggi talmente affinati, provati e riprovati, da migliorare di parecchio il risultato di una gara di precisione, sia per le pistole, che per le carabine da lunga distanza.
Nessuna meraviglia, quindi, che i revolver ad avancarica rimanessero in circolazione nel West per molto tempo dopo il 1873, di qualsiasi marca essi fossero; tuttavia molte preferenze andarono alla Colt Navy Modello 1851. Questo perché, oltre ai vantaggi della carica ad hoc, la pistola presentava un’indiscutibile eleganza di forme, una buona distribuzione dei pesi ed era assai gradevole da impugnare; inoltre era opinione diffusa fra i tiratori più esperti che il “Calibro Navale di Colt” (nome con il quale l’arma era designata all’epoca) fosse dotato di una “precisione intrinseca” maggiore rispetto a quella degli altri modelli. Insomma, quest’arma era talmente maneggevole e precisa, che fu giudicata la realizzazione meglio riuscita del Colonnello Colt.


Un bellissimo esemplare di Colt Navy Modello 1851 in calibro .36, fabbricato nel 1858 (2^ serie con ponticello in ottone).

L’appellativo “Navy” che caratterizza quest’arma ad avancarica (denominata all’epoca “Modello da cintura in calibro navale”) cominciò a essere usato solo nel ‘900 dai primi collezionisti.
Rispetto al più potente modello Army ‘60 (realizzato nove anni più tardi in calibro da 44 centesimi di pollice, ma sempre ad avancarica) era molto apprezzata per la rapidità di tiro e per il rinculo leggero. Ancora oggi viene considerata dagli esperti uno dei migliori revolver ad azione singola mai costruiti.
Si tratta di un modello a “castello aperto”, smontabile senza attrezzi, basta sfilare un traversino battendo leggermente su una specie di spina e l’arma si scompone immediatamente nei suoi tre pezzi principali: canna, tamburo e impugnatura. Ma la peculiarità della Navy – trasmessa poi al nuovo modello a “castello chiuso” Colt SAA 1873 a retrocarica – consiste nell’estrema semplicità del meccanismo di funzionamento ad azione singola: quando si alza il cane, il braccio posteriore della leva d’arresto del tamburo è spinto in fuori e verso l’alto, e così lo svincola. Tale leva può quindi inserirsi nell’arpionismo che si trova nella parte posteriore del grilletto provocando la rotazione di un sesto di giro del tamburo; questo scatto che fa sì che una delle camere di quest’ultimo venga sempre a trovarsi esattamente allineata con la canna. Non appena il cane viene armato completamente, la leva di arresto del tamburo scatta di nuovo e lo blocca saldamente in posizione. E’ proprio il meccanismo di collegamento tra cane e leva d’arresto che permette di sparare con questo revolver azionando unicamente il cane, sia tenendo premuto il grilletto e lasciando sfuggire il cane con il pollice, sia col sistema meno preciso ma più spettacolare, di manovrare il cane con il palmo della mano sinistra tenendo impugnata l’arma con la destra.
Il sistema ad azione singola, a differenza di quello a doppia azione dei revolver moderni (in cui un meccanismo più complesso, prima arma il cane vincendo la forza della molla, e poi lo lascia abbattere sulla capsula) fa sì che la pressione dell’indice, necessaria a sganciare il cane – dopo averlo armato con il pollice – sia minima: così nel tiro “mirato” il colpo parte senza sforzo del dito sul grilletto, a tutto vantaggio della precisione del tiro.
Il modello Army del 1860 presentava qualche aggiornamento, ma montava lo stesso indovinato meccanismo e quindi funzionava esattamente allo stesso modo. Essendo prodotto solo in calibro .44 (che sparava pallottole più “persuasive” da 11 millimetri di diametro) era – però – penalizzato da un maggiore impennamento dell’arma alla partenza del colpo.


Colt Army Mod. 1860 US

La Navy ‘51 in calibro .36 si caricava con 20 o 25 grani di polvere nera (da 1,4 a 1,6 grammi per ogni camera del tamburo) e poteva sparare a ripetizione 6 proiettili di circa 9 millimetri di diametro e 85 grani (5.5 grammi) di peso a una velocità di 304 metri al secondo; quindi aveva un’energia cinetica alla bocca di quasi 270 joule (circa 26 kgm).
La Army ’60 in calibro .44 era più potente, con 345 joule impressi a una pallottola da 112 grani: niente male se si pensa che una moderna semiautomatica “9 x 21” (del tipo in dotazione alle Forze dell’Ordine) di solito con la palla da 125 grs e una velocità di 350m/s eroga mediamente 496 J ovvero sui 50Kgm.
La canna lunga e pesante (a 6 rigature interne elicoidali destrorse) oltre al rinculo particolarmente contenuto, rendevano abbastanza precise le Colt Navy (pur in considerazione del fatto che già a 100 yarde di distanza, 91 metri, era difficilissimo colpire alcunché), soprattutto negli spari ”mirati” di un buon tiratore, quando questo poteva sollevare l’arma “a braccio teso” fino all’altezza degli occhi, armare il cane, portare sul bersaglio il mirino d’ottone e premere con calma il grilletto.
Altra cosa era il tiro dinamico non mirato, quello “d’intuito”, che veniva eseguito estraendo velocemente la pistola dalla fondina e sparando tenendola all’altezza del fianco con il gomito piegato ad angolo retto. Era la maniera usuale dei pistoleri, il modo più veloce per difendersi alle brevi distanze o per provare a mettere fuori combattimento l’avversario in un duello; il risultato in termini di precisione era moderatamente accettabile: merito della forma dell’impugnatura e dell’indovinata distribuzione dei pesi, oltre beninteso, dell’abilità individuale del pistolero. D’altro canto, il tiro rapido, sventagliando il cane, poteva venire usato solo in casi eccezionali, verso avversari vicinissimi e solo per emergenza in modo da disorientarli, dato che sparando in questo modo è difficile colpire qualcosa anche a soli pochi metri.
Wild Bill Hickok
Nel tiro dinamico molti “gun-men” famosi (“Wild Bill”, Pat Garrett, Wyatt Earp, “Doc” Holiday, Wesley Hardin e altri) mostrarono una padronanza sbalorditiva nell’uso delle pistole Colt ad azione singola, sia che fossero le ”vecchie” Navy del 1851, sia che fossero le “nuove” SAA Modello 1873 a retrocarica, che ne ereditarono la geniale semplicità di funzionamento. Secondo alcuni esperti essi raggiunsero gli altissimi livelli di abilità che li resero celebri, sfruttando una tecnica particolare permessa proprio dal meccanismo ad azione singola: quando afferravano il calcio della pistola, il loro pollice già si posava istintivamente sul cane, e lo alzava in quelle poche frazioni di secondo che servivano a estrarre l’arma dalla fondina( ).
Poi, tenendo premuto il grilletto, lo lasciava scivolare facendolo abbattere sulla capsula nel preciso istante in cui la lunga canna, giunta in posizione orizzontale, puntava “intuitivamente” verso l’avversario. I colpi successivi, se ce n’era bisogno, venivano sparati armando e facendo sfuggire il cane con il palmo della mano sinistra mentre l’indice della destra continuava a tenere premuto il grilletto: se la mano che azionava il cane si muoveva abbastanza velocemente si otteneva una rapidità di tiro paragonabile a quella di molte “automatiche” della produzione moderna.
Inutile aspettarsi la precisione assoluta sparando in quel modo (finzioni cinematografiche a parte), ma alle brevi distanze l’effetto era sorprendente e micidiale.
Alcuni personaggi dell’epoca arrivarono addirittura a limare il cane per renderlo più levigato e sfuggevole, per non parlare del grasso speciale che serviva ad ungere il bordo delle fondine di cuoio, al fine di rendere ancora più veloce l’estrazione.
I pistoleri più famosi sparavano ad una mano sola e braccio teso, armando ogni volta il cane con il pollice della mano che impugnava la pistola, perché usavano, se possibile, più di un’arma, e i più efficienti erano tutti ambidestri, come Hickok e Hardin.
Una curiosità a proposito della “fondina”: ai tempi dei revolver ad avancarica, erano ancora pochi coloro che usavano fondina e cinturone come si vede al cinema. Lo facevano solo i militari con la buffetteria d’ordinanza, che era costituita da una cinghia di cuoio sostenuta da bretelle. A questa cinta, che portava anche la dotazione delle palle di piombo, erano fissate sul lato destro 2 giberne (per le cartucce di carta, la fiaschetta della polvere e le capsule) e sul lato sinistro una fondina chiusa.
Quando la Guerra Civile finì (1865) migliaia di reduci di ambo le parti continuarono a vestire per anni buffetterie militari insieme a indumenti ancora buoni dell’uniforme. Il cinturone cosiddetto “da civile”, con la fondina a destra, detta ”holster”, in cui il revolver veniva riposto con l’impugnatura all’indietro come si vede nei film, divenne di uso comune solo dopo il 1880, portato soprattutto dai cow-boys texani, che a loro volta, ne avevano ap-preso l’uso dai mandriani messicani.
Poco verosimile appare l’uso dei guanti mostrato in qualche western, perché avrebbe privato il pistolero della giusta “presa”, oltre che dell’irrinunciabile sensibilità del pollice nel lasciar sfuggire il cane.
È vero anche che negli anni a cavallo dei due secoli, i sarti corredavano giacche e “spolverini” di asole e bottoni supplementari per tenerne sollevate le falde, in modo da non ostacolare i movimenti quando serviva.
Salvo casi eccezionali in cui il tiratore cadeva in un agguato, le sparatorie iniziavano con i contendenti che impugnavano già l’arma. Le sparatorie con l’estrazione rapida dalla fondina sono prevalentemente una moderna finzione cinematografica, così come le fondine portate basse, alla coscia, e fermate da un laccio che non sono mai esistite al tempi del west e neppure nei primissimi film western. Nel west la fondina era “passata” nella cintura e portata all’altezza del fianco.
Proprio grazie all’estrema semplicità, sicurezza di funzionamento e enorme diffusione dei suoi revolver, prima ad avancarica, e poi a retrocarica, il contributo del Colonnello Samuel Colt fu definito dallo storico James E. Serven come “Quell”evento che indirizzò lo sviluppo dell’industria delle armi e condizionò la storia degli Stati Uniti d’America”.
Ancora oggi le ottocentesche pistole con questo marchio, sebbene superate nella concezione, stupiscono per le loro prestazioni, anche nel paragone con armi moderne. Ai loro tempi una SAA a retrocarica non si inceppava quasi mai, né risentiva di temperature troppo alte o troppo basse. Questo perché utilizzavano cartucce metalliche, mentre le armi Colt ad avancarica (ma anche tutte le altre) potevano perdere la capsula, oppure avere la polvere inumidita, allo sparo, e poi i residui di una capsula potevano inceppare l’arma ed impedire che il tamburo ruotasse liberamente.
Nessuna delle due diventava inutilizzabile, data la grande facilità con cui i pezzi potevano essere smontati e sostituiti, ma in nessuna delle due erano presenti dispositivi di sicura. Si ovviava a questa mancanza con un espediente tanto semplice quanto lo era il loro meccanismo di funzionamento: siccome, ad arma carica, il cane di queste pistole riposa direttamente su una capsula d’innesco, per evitare colpi accidentali si ruotava a mano il tamburo in modo da far poggiare il becco del cane nello spazio fra due camere adiacenti. Tale accorgimento evitava che fossero trasmessi alla capsula urti capaci di farla esplodere provocando l’involontaria partenza di un colpo. Quando si doveva estrarre e sparare, l’arpionismo che comandava la rotazione del tamburo (armando di nuovo il cane) scattava comunque, e riallineava la camera con la canna. Molti non si fidavano di questo sistema, sebbene giudicato ampiamente efficace, e trovavano più sicuro caricare la pistola con soli cinque colpi, tenendo il cane abbassato in corrispondenza della camera lasciata vuota: questo procurava loro una buona serenità di spirito anche nelle cadute da cavallo più rovinose e durante le più accanite scazzottate nei saloons.
Prima dell’avvento della cartuccia a bossolo metallico, i revolver ad avancarica del tamburo erano armi abbastanza avanzate per la loro epoca, soprattutto per il meccanismo che assicurava la ripetizione dei colpi, praticamente esente da malfunzionamenti, ma apparve subito chiaro che non era agevole né veloce ricaricare un revolver ad avancarica do-po aver esploso i primi sei colpi: sebbene notevole per fattura e sicurezza di funzionamento, una Colt Navy ‘51 o una Army ’60 doveva essere sempre ricaricata “a polvere nera e pallottole dal davanti”, mediante un’operazione non facile, che poteva dirsi conclusa solo dopo aver sistemato le capsule di innesco sui luminelli forati posti sul “didietro” del tamburo.
Ma qualcuno aveva già pensato a come rendere più pratica questa operazione. Infatti, già molto prima della Guerra Civile, soldati e Pionieri avevano imparato a prepararsi le dosi di polvere in piccoli rotoli di carta lubrificata (le prime cartucce) che contenevano anche la palla di piombo. Dopo averne aperto il fondello (di solito mordendolo) infilavano queste “cartucce” nelle camere del tamburo dal davanti e le calcavano. Poi piazzavano le capsule sui luminelli da dietro ed erano pronti a sparare, ma il sistema era ancora lento e laborioso, assolutamente impraticabile in caso di pioggia.
Le prime cartucce di carta lubrificata erano apparse addirittura nel 1837. Queste «pseudo-cartucce» erano chiuse sul davanti direttamente dalla palla, e dietro da una piega ben fatta, in modo da contenere nel mezzo la dose di polvere nera necessaria, ma la fiammata delle capsule d’innesco utilizzate a quel tempo non era sufficiente a perforarne il fondo (la piega) e ad incendiare (facendola esplodere) la carica di lancio che esse racchiudevano.
Quindi, per essere certi di far partire il colpo, bisognava prima «bucarle» – generalmente con i denti – e poi inserirle dalla parte anteriore del tamburo (avancarica). Una volta inserite si dovevano calcare una per una in fondo alle camere e solo allora si piazzavano le capsule sui luminelli. Per caricare tutti e 6 i colpi ci volevano 2 minuti buoni, ma malgrado la laboriosità di tale operazione, la manovra era infinitamente più rapida del vecchio sistema in cui bisognava «versare» la polvere sfusa direttamente nelle camere e pressare le pallottole sui borraggi (7 o 8 minuti, se andava bene). Quando apparve la carta speciale (trattata al nitrato in modo da essere più facilmente infiammabile) le «paper-cartridges» furono adottate da tutti i militari del tempo (1845). Dopo qualche anno migliorarono anche le capsule d’innesco, che finalmente produssero fiammate più sicure e consistenti. Così, quando il cane le «batteva» riuscivano sempre a incendiare la polvere nera contenuta negli involucri senza bisogno che questi fossero preventivamente bucati aprendone il fondello con un morso : «Chi spara buone cartucce si riconosce dai denti bianchi…» si diceva fra i celebri «Texas-Rangers».


Rangers del Texas

Questa combinazione «carta speciale – nuove capsule» si diffuse così velocemente, che la fabbricazione di cartucce a bossolo di carta per revolver diventò presto un’attività artigianale su larga scala, quasi un’industria che impiegò soprattutto mano d’opera femminile. Le cartucce di carta trattata al nitrato furono regolarmente utilizzate dalle forze armate americane ed il loro impiego per i civili (soprattutto Pionieri e cow-boys) divenne abituale dal 1849 al 1873-75 semplificando in maniera significativa l’avancarica dei revolver dell’epoca: il tempo necessario per «preparare» una sei-colpi si ridusse di più della metà (un minuto e anche meno).
Il successo, però, fu dovuto all’esclusiva del suo brevetto che riuscì a rinnovare negli anni (nel 1848 ottenne una proroga e nel 1849 ne ottenne un’altra durata fino al 1957). I revolver Remington o i Whitney, i Savage, gli Starr, oppure gli inglesi Adams erano di gran lunga più affidabili, e i primi due nominati erano assolutamente anche più precisi, addirittura anche il vecchio Wesson & Leawitt del 1850, a castello aperto, era considerato migliore dei Colt.
Aggiungerò solo che, sebbene le cartucce di carta si trovassero facilmente in commercio, molti (cow-boys, sceriffi e pistoleri) preferivano « farsele da se » adoperando la dose di polvere ritenuta più opportuna. Le paper-cartridges potevano essere tenute in tasca nella scatola da 12 oppure a pacchetti da 6, avvolti in una banda di tela. Quando si doveva ricaricare il revolver, si scioglieva la banda, si infilavano le cartucce dal davanti e si calcavano; poi si piazzavano le capsule (prendendole dall’altra tasca) e solo allora si era pronti a far fuoco. In caso di cattivo tempo si sigillava ogni camera con un pò di grasso, ma bisognava comunque prestare attenzione affiché le capsule non si inumidissero: per questo motivo le buffetterie militari avevano la fondina chiusa. Non solo, ma quando l’arma rimaneva inutilizzata per almeno una giornata, pioggia o sole che fosse, era consigliabile cambiare le capsule per essere sicuri che l’intero sistema funzionasse.
Quindi tutto avveniva ben diversamente da quanto mostrato nei film commerciali, in cui i personaggi sparano sempre con pistole SAA a retrocarica, disponendo di bossoli metallici anche in episodi ambientati molto tempo prima che fossero inventati sia le une che gli altri.


Una Colt Navy ’51 in calibro .36 corredata dal pacchetto di cartucce di carta.

Una pallottola sparata da una paper-cartridge usciva dalla canna ad una velocità che al massimo toccava i 300 metri al secondo, quindi sensibilmente al di sotto del cosiddetto “muro del suono” (343 m/s) usualmente infranto dai moderni munizionamenti a polvere senza fumo. Questo faceva sì che la detonazione si combinasse con il sibilo della palla (non udibile con proiettili supersonici) e generasse per sovrapposizione un rumore di sparo molto simile a quello riprodotto dagli effetti speciali dei film western.
Spesso tali effetti sembrano esagerati, specie quando imitano fischi estremamente prolungati, ma non sono del tutto “campati in aria”: una volta tanto la finzione cinematografica è fedele a quanto vuol rappresentare.
Variando la quantità di carica nelle cartucce di carta si ottenevano velocità e suoni diversi, specie sparando in spazi aperti che ne esaltassero l’effetto (canaloni, pietraie ecc.).
Per questo motivo si diceva : “ogni pistola ha la sua voce”, come ricorda la battuta di un celeberrimo film italiano degli anni ’60.
L’avvento dei primi bossoli d’ottone, che contenevano polvere nera (e non polvere moderna) e che sparavano pallottole subsoniche, non alterò sostanzialmente le cose, e la “voce” di una pistola continuò a essere percepita come una sua caratteristica peculiare: tut-to dipendeva, oltre che dal calibro, anche dalla marca delle nuove cartucce metalliche che il proprietario dell’arma preferiva, si procurava e usava( ). Ma la versatilità offerta dalle pa-per-cartridge e dal loro dosaggio personalizzato rimase insuperata, al punto che furono in molti a preferirle fra gli “specialisti”: ancora nel 1880 il numero complessivo delle “vecchie” cartucce di carta sparate in tutto il West era solo di poco inferiore a quello delle “nuove” munizioni dal bossolo metallico. A tale proposito bisogna ricordare che prima del 1910 queste ultime erano fabbricate con metodi ben diversi da quelli che il moderno controllo di produzione lascia immaginare e non era infrequente che in una scatola da 50 cartucce ne capitassero 4 o 5 difettose, o per carica insufficiente, o per innesco non detonante. Siccome i bossoli d’ottone sigillati a macchina apparivano tutti uguali, l’infallibile pistolero se ne sarebbe accorto solo all’atto dello sparo, con una clamorosa quanto inopportuna “cilecca”.
Non tutti sanno che le Colt ad avancarica del tamburo ebbero un loro momento di glo-ria anche in Italia. Infatti Samuel Colt inviò in dono a Giuseppe Garibaldi 100 armi della sua produzione per aiutare l’Impresa dei Mille. Si trattava di carabine e di revolver in vari modelli: fra questi ultimi c’erano probabilmente pistole Dragoon, pistole Navy Modello 1851 e qualche esemplare della Army ’60, in calibro .44 che era appena uscita.
Una di queste pistole, assegnata al Colonnello Giuseppe Missori, salvò la vita all’Eroe dei Due Mondi durante la battaglia di Milazzo che fu combattuta nel luglio del 1860. In quell’occasione il Generale Garibaldi, rimasto appiedato, stava per essere “caricato” da un cavalleggero borbonico facente parte di un drappello comandato per una “sortita” improvvi-sa. Il Colonnello Missori si voltò giusto in tempo per veder balenare la sciabola del militare nemico, che al galoppo, aveva quasi raggiunto Garibaldi.
Ebbe la prontezza di sparare due colpi fulminando letteralmente cavallo e cavaliere un istante prima che il Generale, non accortosi del pericolo, venisse travolto o ucciso da un fendente. Fu proprio la potenza di quel revolver di grosso calibro che salvò la vita al più popolare personaggio del nostro Risorgimento.
Malgrado tali credenziali, però, quasi tutte le Colt che nel 1860 erano arrivate in Italia, furono vendute qualche tempo dopo a un mercante turco nel porto di Taranto. Si trattava di quelle non assegnate agli Ufficiali di Stato Maggiore e rimaste, per così dire, in giacenza nella dotazione dei “Mille”. Un vero peccato: Se Samuel Colt lo fosse venuto a sapere, ci sarebbe rimasto male di sicuro, ma pare che non lo seppe mai.
Samuel Colt
Io, invece, non sono riuscito a sapere con certezza quale fosse il revolver in questione, ma ho fatto qualche considerazione: Le testimonianze parlano di “una pistola americana molto grossa” in mano a Missori, il che farebbe pensare a una Dragoon (che era abbastanza massiccia e fu prodotta in grandi quantità dal 1849 fino al 1860 ) Ma è poco credibile che Colt, il quale teneva alla pubblicità dei suoi prodotti( ), avesse mandato in Italia un modello già “fuori produzione”. D’altronde, quando la “Spedizione dei Mille” salpò da Quarto, la Colt Army ‘60 in calibro .44 era appena “uscita” e forse non aveva ancora sostenuto tutte le prove necessarie a saggiarne l’idoneità su un campo di battaglia. Rimale l’ipotesi della Colt Navy del 1851, che a quell’epoca era ampiamente collaudata e praticamente ineccepibile, in grado di non sfigurare in qualsiasi clima e condizione.
Solo che il famoso revolver “da cintura in calibro navale” (come allora era chiamato) era appunto “in calibro navale”, cioè in 36 centesimi di pollice, poco potente rispetto al racconto che viene fatto della vicenda. Ma può darsi che le Colt spedite rientrassero in uno di quei “lotti” di Navy ’51 a quel tempo già realizzati in calibro .44. Sappiamo infatti che il suo stesso costruttore considerava il modello del 1851 come il più brillante dell’epoca: l’ideale per far bella figura in Europa.
Ignoro come si chiamasse “a catalogo” tale versione a quei tempi, certamente non “Navy” (che è una denominazione nata nel ‘900) e neanche modello “da cintura in calibro navale”, visto che non era da 36 centesimi di pollice. Comunque l’episodio di Garibaldi non manca di suscitarmi un certo fascino, e se qualcuno riuscisse ad avere informazioni più precise sulla Colt con la quale Missori sparò salvandolo, lo prego di farmelo sapere, visto che ho in mente di scrivere alcuni approfondimenti sulle armi da pugno americane in uso nell’800.
Ancora qualche curiosità sulla potenza di queste armi. La Colt Whitneyville Walker e la Colt Army ‘60 in calibro .44 ad avancarica del tamburo furono, fino al 1873, le pistole più potenti del mondo. Poi furono superate dal nuovo revolver a retrocarica Colt SAA ‘73 in calibro .45 a castello chiuso, il quale detenne il primato della potenza – per le armi da pugno – fino al 1896, anno in cui in Europa apparve la pistola semiautomatica tedesca “Mauser C96” in calibro 7,63 millimetri Mauser.
Questa fu un’innovazione assoluta, addirittura sconvolgente per l’epoca: capace di spa-rare in rapida ripetizione e a lunghissima gittata, i 10 colpi del suo insolito caricatore allog-giato davanti al ponticello (foto sotto).
L’arma non solo era potentissima, pur essendo relativamente leggera, ma era anche un capolavoro d’ingegneria meccanica. Eppure non raggiunse mai la considerazione e la notorietà della sua elegante connazionale “P08”, cioè della celeberrima creazione di Georg Luger prodotta dalla DWM (Deutsche Waffen und Munitionsfabriken) e adottata come pistola d’ordinanza dall’esercito tedesco dal 1908 al 1938.
Nella “Mauser C96” la canna, la carcassa e il meccanismo interno erano lavorati in un unico blocco d’acciaio e tenuti insieme senza ricorrere a una sola vite.
A parte quelle del calcio, presenti anche nella C96, pure la Luger P08 non utilizza altre viti.
Sebbene criticata per le forme poco aggraziate, la “C96” strabiliava non solo per l’automatismo della ripetizione (che sfruttava l’energia del rinculo su canna e otturatore) ma soprattutto per il tiro preciso dei suoi proiettili “blindati” che viaggiavano ad altissima velocità. Una volta incamerata e sparata la prima cartuccia, bastava una leggera pres-sione sul grilletto per far partire il colpo successivo.
Non divenne mai un’arma d’ordinanza regolamentare come la Luger (che fu scelta per il prezzo e le dimensioni contenute) ma ebbe uno straordinario successo sul mercato internazionale come potente pistola fuori ordinanza per militari ed esploratori. Alcuni esemplari arrivarono in America, dove fecero la loro parte, sia al Messico, sia durante gli ultimi bagliori del crepuscolo nell’epopea Western. La “Mauser C96” ebbe modo di farsi conoscere in Asia e in Africa: Il giovane ufficiale Winston Churchill le dovrà la vita in uno scontro con i Dervisci nel settembre del 1898, durante la guerra del Sudan.
La “Mauser C96” (o meglio la C98 e successive nodifiche) fu arma di ordinanza nell’esercito cinese, turco, italiano (marina militare), persiano, austriaco e tedesco (anche se spesso, a parte l’esercito austriaco, in quantità limitate).


Una Mauser C96

L’alta potenza di quest’arma non era dovuta al calibro, ma all’elevata velocità iniziale della sua pallottola (che aveva un diametro di soli 7,63 millimetri). Sebbene così potente, la pistola rimaneva perfettamente controllata negli spari, grazie all’assorbimento progressivo del rinculo attuato da un meccanismo minuziosamente studiato. Una sua peculiarità era l’alzo regolabile per il tiro fino a 1000 metri, cosa possibile con l’aggiunta del “calcio da spalla” ingegnosamente ricavato dal fodero in dotazione.
Negli stabilimenti Mauser a Obendorf furono condotti esperimenti “segreti” fin dall’inizio del 1895. Anche la posizione del caricatore è frutto di uno studio specifico: infatti si trova davanti al ponticello per servire da contrappeso e limitare il rialzo dalla canna alla partenza del colpo. Fu la casa costruttrice Mauser – e forse proprio con il “Progetto C96” – a inaugurare l’approccio “scientifico” nella realizzazione delle pistole semiautomatiche ad alta potenza, e da allora gli studi di balistica dedicati a questo tipo di armi si sono costantemente evoluti.
Grazie alla sua ingegneria di funzionamento la Mauser C96 rimase la pistola più potente del mondo fino agli anni Cinquanta del Novecento, quando cominciò ad essere apprezzata una nuova rivisitazione del revolver: precisamente quella in calibro .357 magnum.
Le pistole .357 magnum vengono prodotte da diverse case costruttrici (fra le quali – manco a dirsi – la Colt’s Manufacturing Company) con forme assai robuste e impugnature adatte a contrastare il rinculo.
A loro volta sono state superate dai nuovi revolver in calibro .44 magnum, di aspetto simile, ma che richiedono una notevole esperienza da parte del tiratore, in quanto tendono a diventare incontrollabili se usati con una mano sola.
Per tornare a noi – e ai bei revolver ad avancarica del tamburo – che fecero la vera storia del West, concluderò ricordando che oggi le ditte specializzate in repliche di armi celebri riescono a riprodurre con fedeltà assoluta tutti i dettagli di questi capolavori dell’Ottocento: i loro prodotti finiti sono praticamente identici agli originali del passato, sia per dimensioni, forme e pesi, sia per i materiali, la meccanica e la balistica basata sulla polvere nera.
Vengono magistralmente replicate addirittura le incisioni d’epoca: semplicemente uno spettacolo.

Per i Commenti è possibile usare il nostro forum