John Colter
A cura di Domenico Rizzi
Era nato nei pressi di Staunton, in Virginia, intorno al 1775, figlio di Joseph Colter (o Coulter) ed Elllen Shields, che dopo pochi anni si trasferirono vicino a Mayville, nel Kentucky.
John, questo era il suo nome di battesimo, sognava soltanto la vita libera nella Wilderness, l’immensa regione selvaggia che dai Monti Appalachiani si estendeva fino alle Montagne Rocciose. Non si sa con precisione come avesse trascorso la sua adolescenza e la giovinezza, ma è presumibile che si fosse occupato della caccia agli animali da pelliccia come tantissimi trapper dell’epoca. Di sicuro, John aveva imparato a fare a pugni, a sparare con un fucile Hawken o Kentucky e a maneggiare asce e coltelli come tutti gli uomini della Vecchia Frontiera.
La grande occasione di emergere dall’anonimato gli si presentò nell’autunno del 1803, quando il capitano Meriwether Lewis e il tenente William Clark accettarono l’incarico del presidente Thomas Jefferson di esplorare la Grande Louisiana fino all’Oceano Pacifico. Il governo americano aveva appena acquistato l’estesa regione di 828.000 miglia quadrate, pagandola 15 milioni di dollari alla Francia di Napoleone e molta gente insinuava che il tanto sbandierato affare non avesse un valore tanto elevato.
La Louisiana era abitata da qualche migliaio di cacciatori e commercianti di origine francese e da parecchie tribù nomadi e il progetto di colonizzarla sembrava ancora da venire. Jefferson voleva invece convincere i suoi connazionali che il futuro dell’America stava proprio al di là del fiume Mississippi, ma per essere più persuasivo aveva bisogno di dettagliati resoconti sulle caratteristiche dello sconfinato territorio. Perciò il Congresso aveva approvato un modesto stanziamento iniziale di 2.500 dollari, ma ne sarebbero occorsi quindici volte di più per portare l’operazione a compimento.
Il 14 maggio 1804, il ventottenne Colter si unì ai due ufficiali e ai loro 39 compagni in partenza dalla cittadina di Saint Louis, a bordo di un barcone di 16 metri e di due piroghe a remi e a vela. La memorabile traversata continentale sarebbe stata compiuta in gran parte sfruttando la via d’acqua, dapprima risalendo la corrente del fangoso Missouri e poi, superate le Rocky Mountains, navigando il Clearwater, lo Snake e il Columbia fino alle coste del Pacifico. Sotto la sapiente guida del franco-canadese Toussaint Charbonneau e della giovanissima moglie shoshone Sacajawea, Lewis e Clark attraversarono montagne e praterie, entrarono in contatto con tribù sconosciute e infine raggiunsero la sospirata mèta, nella Columbia britannica.
Durante il viaggio di ritorno, l’11 agosto 1806 il gruppo incontrò due cacciatori dell’Illinois, John Dickson e Forest Hancock, in prossimità di alcuni villaggi dei Mandan Sioux situati nell’attuale North Dakota. Clark acconsentì che John Colter li accompagnasse nella regione del Montana e il trapper si separò dal resto della spedizione.
Fino alla primavera del 1807, il trio si dedicò alla cacciagione lungo il corso superiore del Missouri e del Roche Jaune, l’affluente chiamato Yallerstone dai mountain men e divenuto più tardi il fiume Yellowstone (Pietra Gialla). Poi Colter raccolse le sue pellicce e prese la via di Saint Louis, distante 1700 chilometri, trasportando il bottino in canoa lungo il corso del Big Muddy (Grande Fangoso) come veniva comunemente chiamato il Missouri.
Verso la fine di giugno, mentre si avvicinava al punto di confluenza con il fiume Platte, il trapper incontrò un’altra banda di cacciatori, capeggiata da Manuel Lisa, della quale facevano parte George Drouillard e John Potts. Il capogruppo della nuova formazione – la “Missouri Fur Company” – era un imprenditore di origine spagnola nato a New Orleans, che coltivava grandi progetti per la sua compagnia. Perciò propose a Colter di unirsi a lui per andare a caccia nel territorio degli Arikara, un popolo di lingua caddo che i Lakota-Sioux indicavano come Ree o “Indiani del Mais” per le loro abitudini agricole. Dopo aver fumato la pipa della pace con questi Pellirosse, Lisa mirava ad assicurarsi un’alleanza ben più importante con gli Absaroka, di ceppo linguistico siouan e meglio noti come Crow o Corvi. Lo scopo dell’operazione era di ottenere il loro appoggio contro i temibili Piedi Neri, considerati i peggiori nemici degli Stati Uniti.
In proposito, il generale Philip Saint George Cook avrebbe scritto più tardi: “Questa tribù è composta da circa 8.000 guerrieri… perennemente in guerra con tutte le altre (Assiniboin, Mandan, Minitaree, Crow, Sioux)” aggiungendo che i Piedi Neri, “sobillati dai trafficanti inglesi, sono sempre stati gli Indiani più pericolosi per gli Americani”.
Lisa diede a Colter un compito assai arduo, chiedendogli di raggiungere la regione compresa fra il Wyoming e il Montana per stipulare con gli Indiani accordi finalizzati al reciproco scambio delle merci. Il cacciatore si mise in cammino con “un pacco di 30 libbre, il suo fucile e delle munizioni, percorse 500 miglia fino alla nazione dei Corvi; fornì loro informazioni e continuò da quel luogo per visitare altre innumerevoli tribù”. (W.J. Ghent, ”A Sketch of John Colter, in “Wyoming Annals”, Vol. X, n° 3, 1938)
Mentre si aggirava per luoghi ancora inesplorati, Colter capitò nel Wyoming nord-occidentale, dove (nel 1872) sarebbe nato il Parco Nazionale di Yellowstone. Secondo il suo racconto, girovagando lungo il fiume Stinking Water (oggi Shoshone River) venne a trovarsi nel bel mezzo di una specie di girone infernale, dove il terreno ribolliva in continuazione, sprigionando a tratti altissimi getti di acqua bollente che salivano verso il cielo. In tutta l’area, narrò Colter, vi erano sorgenti d’acqua calda e pozze sulfuree dalle quali scaturivano colonne di fumo e lingue di fuoco.
Washington Irving (1783-1859) descrisse l’avvenimento, nel libro “The Adventures of Captain Bonneville” (New York, 1843) come la scoperta “su uno dei tributari del Bighorn River” di “un tratto vulcanico…visitato per la prima volta da Colter, un cacciatore membro del gruppo esplorativo di Lewis e Clark…”. Lo scrittore aggiunse che il trapper “fece un simile racconto dei suoi oscuri terrori, i suoi fuochi nascosti, gli abissi fumanti, le correnti nocive, il tutto esalante odore di zolfo, tanto che gli venne dato e conserva da allora fra i cacciatori, il nome di ‘Inferno di Colter’” (op. cit., p. 252).
Ma poiché nessun Bianco aveva mai visto le meraviglie descritte da Colter, sia gli uomini di Lisa che gli altri cacciatori della regione si fecero beffe del loro compagno, giudicandolo un visionario.
Il viaggio di Lewis e Clark a cui partecipò anche Colter
Eppure John non sembrava affatto uno squilibrato, né una persona facilmente impressionabile. Secondo una testimonianza attendibile, si presentava come “un uomo robusto, di taglia atletica e di statura superiore alla media. Era svelto, vigile, tollerante, ottimo tiratore, l’ideale personaggio della Frontiera. La sua principale caratteristica era una straordinaria coordinazione fra il pensiero e l’azione.” (Stallo Vinton, “John Colter, Discoverer of Yellowstone Park”, New York, 1926, p. 27).
La presunta disavventura accadutagli poco tempo dopo con i Pellirosse, rappresenta un altro degli episodi discussi della sua biografia e contribuì, insieme alla suggestiva descrizione dei geyser, a creargli una fama di bugiardo.
La fuga di John Colter
Nel 1807, mentre esplorava il fiume Shoshone, accompagnato da un paio di Crow, John aveva già avuto a che fare con i Piedi Neri. Nonostante fosse stato piantato in asso dalle guide indiane, John se l’era cavata egregiamente, sfuggendo agli spietati avversari grazie alla propria abilità e scaltrezza.
Nell’autunno del 1808, Colter e il compagno John Potts lasciarono Fort Raymond (o Remon) alla confluenza del Bighorn con lo Yellowstone e si addentrarono nel territorio dei Piedi Neri, nell’area delle Three Forks (i fiumi Jefferson, Madison e Gallatin) del fiume Missouri.
Benchè le valutazioni del generale St. George Cook riguardo a questa nazione di stirpe algonchina fossero esagerate, secondo Alexander Henry (1809) essa comprendeva comunque 5.200 individui, suddivisi fra Siksika, Piegan e Kainah (Blood) e la sua forza di guerra superava i 1.400 combattenti (John C. Ewers, “I Piedi Neri”, Milano, 1997, p. 41). Per due uomini soli, che andavano a piazzare trappole fra i boschi, il rischio di essere uccisi o catturati era dunque elevatissimo.
Mentre discendevano in canoa uno dei tre bracci del Missouri, i Piedi Neri comparvero su entrambe le rive, precludendo ai trapper la possibilità di accostare. John Potts, credendo forse di intimorirli con le armi da fuoco, imbracciò il fucile e sparò contro di essi, abbattendone uno, ma venne subito crivellato di frecce. Poi una dozzina di guerrieri entrarono nell’acqua e tirarono a riva la canoa di Colter. Uno di essi, evidentemente un capo di guerra, riconobbe il cacciatore per averlo visto combattere in passato a fianco dei Crow. “Quest’uomo è un prode guerriero” disse l’Indiano “Vedremo dunque se saprà morire coraggiosamente” (Merrill D. Beal, “The Story of Man in Yellowstone”, Caldwell, Ida., 1949, p. 54).
Colter era circondato da 600 Piedi Neri, uomini, donne e bambini, che lanciavano grida e insulti e le loro intenzioni apparivano assai poco rassicuranti. Il leader gli chiese se sapesse correre velocemente, ma il trapper rispose di no, sostenendo di essere lento come una lumaca. Colter aveva mentito temendo che gli Indiani potessero cambiare idea, scegliendo qualche altro tipo di tortura: infatti risero della sua risposta e gli spiegarono che avrebbe dovuto trasformarsi in una lepre, perché i migliori corridori della tribù si sarebbero posti alle sue calcagna, armati di lance, tomahawks e mazze da guerra.
John era consapevole che l’obiettivo degli Indiani fosse quello di divertirsi con lui il più a lungo possibile per poi catturarlo, torturarlo e ucciderlo. Gli avrebbero concesso un certo margine di vantaggio per poi inseguirlo fino a farlo scoppiare.
Per rendergli più difficile il compito, il capo ordinò che gli venissero tolti calzari e vestiti: alla fine Colter si ritrovò completamente nudo, esposto alla vista delle squaw che lo dileggiavano, incuriosite dalle fattezze di quel barbuto uomo bianco.
Il pianoro su cui avrebbe dovuto affidare la salvezza all’agilità delle proprie gambe, era accidentato, cosparso di rovi e cespugli spinosi e dopo circa 6 miglia digradava verso il fiume Madison. L’obiettivo del cacciatore, benchè proibitivo, doveva essere il raggiungimento del corso d’acqua a qualsiasi costo, per tentare di nascondersi fra le sue rive. Sebbene una fuga senza mocassini ai piedi su quel terreno aspro e pieno di aghi equivalesse ad un supplizio tremendo, la prospettiva di finire infilzato in una lancia poteva costituire uno stimolo sufficiente a fargli tentare l’impresa pazzesca da cui dipendevano i suoi giorni futuri.
Al segnale del capo, il mountain man partì di slancio, come se fosse stato scagliato da una catapulta. I guerrieri attesero pazientemente che si fosse distanziato un po’, quindi si misero sulle sue tracce, lanciando urla raggelanti.
John Colter aveva iniziato la sua maratona per la vita.
L’inseguimento si protrasse per un quarto d’ora, prima che la maggior parte degli Indiani cominciasse rimanesse indietro rispetto ai corridori più celeri. Voltandosi ogni tanto, John notò che solo due o tre guerrieri si stavano realmente avvicinando a lui, ma in particolare un inseguitore, il campione della tribù, guadagnava terreno in modo preoccupante, mentre gli altri erano sempre più distanti. Allora concepì immediatamente un piano rischioso quanto necessario. Cominciò a rallentare intenzionalmente l’andatura, fino a lasciarsi raggiungere dall’inseguitore più vicino e quando questi fu a pochi passi da lui, si girò di sorpresa, balzandogli addosso e gettandolo a terra. Prima che il Pellerossa, potesse riaversi dallo stupore, Colter fu lesto a strappargli la lancia di mano e con la sua punta gli trapassò il petto. Poi, facendo appello a tutte le sue energie residue, ripartì. Aveva i piedi feriti e sanguinanti, il cuore che pareva sul punto di scoppiare e il sangue che gli colava dal naso per lo sforzo sostenuto, ma continuò a spingere avanti le proprie gambe come un automa, finchè raggiunse lo scoscendimento che formava la sponda del fiume Madison.
Senza esitare un istante, spiccò un salto e si gettò nelle acque gelide, riemergendo e portandosi a nuoto verso le tane di alcuni castori. Non trovando altro riparo, fece una nuova immersione e si nascose sotto lo sbarramento di rami che formava la colonia dei roditori, rimanendo in quella posizione per un tempo imprecisato.
I Piedi Neri sostarono per diversi minuti lungo la riva, cercando di indovinare dove fosse finito il cacciatore e dopo avere formulato varie congetture, conclusero che la loro preda doveva essere miseramente annegata, per cui se ne tornarono al villaggio con le pive nel sacco.
Ma l’avventura di Colter non era ancora terminata.
Fort Raymond distava più di 300 miglia e per un uomo nudo e disarmato, senza provviste, sarebbe stato davvero difficilissimo ritornare incolume all’avamposto. Tuttavia, spinto dall’istinto di sopravvivenza, John si pose in cammino, avanzando guardingo fra boschi e colline, sempre attento al più piccolo rumore. Per una settimana intera il suo cibo fu costituito quasi unicamente di radici di acetosella e bacche selvatiche che aveva visto usare presso i Crow nei periodi di carestia. Quando, attraversato il passo chiamato più tardi Bozeman, scorse la palizzata del forte, comprese di avere compiuto un’impresa davvero unica.
Naturalmente, anche questa volta, molte persone stentarono a credere al suo racconto, ma Colter non vi fece caso. Aveva sfidato la morte uscendone vincitore e questo era ciò che gli importava veramente.
La lapide che ricorda John Colter
I numerosi rischi corsi fino a quel momento non furono però sufficienti a debellare lo spirito indomito del ”mountain man”, che si ostinò a rimanere nella regione ancora un anno, forse perché, come scrisse Ghent, “I pericoli sembravano esercitare su di lui una sorta di fascino…” (op. cit., p. 113)
Soltanto dopo aver rischiato una terza volta di lasciare la sua cotenna nelle mani dei Piedi Neri nel 1809, Colter prese finalmente la decisione di ritornarsene all’Est, giurando che non avrebbe rimesso mai più piede in quel “maledetto West”.
Fu il destino a fargli mantenere quella promessa.
Ritiratosi a vivere a Saint Louis, John Colter si ammalò infatti di itterizia e morì nel 1813, a soli 38 anni di età.
Il ricordo del coraggioso trappolatore rimase vivo per molti anni nei racconti degli uomini della Frontiera e un affluente del fiume Clearwater, vicino a Lapwai, assunse la denominazione di Colter Creek in suo onore.
La storia fece torto al trapper virginiano, attribuendo talvolta ad altri esploratori la scoperta delle sorgenti sulfuree del Wyoming. Infatti Grenville M. Dodge scrisse che Jim Bridger “fu il primo cacciatore di pellicce che rese note (nel 1830) le meraviglie del Parco Yellowstone” (Grenville M. Dodge, “James Bridger, Mountain Man”, Dallas, 1883).
Se la letteratura western dedicò poco spazio a questo eccezionale personaggio, il cinema si dimenticò completamente dell’uomo che, insieme a Lewis e Clark, Jedediah Smith, Hugh Glass, e Kit Carson, aveva dato un grande contributo all’avanzata della civiltà verso occidente.