Il più grande conflitto americano

A cura di Domenico Rizzi

Il 17 marzo 1861 nasceva il Regno d’Italia, di cui si celebra quest’anno il 150° anniversario. Meno di un mese dopo, il 12 aprile, dall’altra parte dell’Atlantico iniziava la guerra fra gli Stati Uniti d’America e i “ribelli” della Confederazione degli Stati del Sud, dopo che l’unione federale si era spaccata irrimediabilmente in febbraio. La secessione era incominciata quando Alabama, Florida, Georgia, Louisiana, Mississippi, South Carolina e Texas avevano costituito una nuova repubblica sotto la presidenza del piantatore kentuckyano Jefferson Davis.
A maggio vi avevano aderito Virginia, Tennessee, North Carolina e Arkansas, portando a 11 gli Stati membri della Confederazione, che si sarebbe chiamata C.S.A. (Confederate States of America). La nuova bandiera, formata da una croce di sant’Andrea blu contenente 13 stelle bianche su fondo rosso – si contrappose a quella tradizionale degli U.S.A. (United States of America). Il motivo per cui le stelle che vi figuravano erano 13 anziché 11 era che il Missouri e il Kentucky avrebbero dovuto far parte della Confederazione, mentre nei fatti rimasero schierati con l’Unione.
Le galvanizzanti note dell’inno sudista, “I wish I was in Dixie”, più noto come “Dixie Land” o semplicemente “Dixie”, fecero accorrere migliaia di giovani e meno giovani dalle contrade meridionali del Paese, per difendere, contro l’arroganza degli Stati del Nord, una causa che risiedeva principalmente nel mantenimento della schiavitù. La vittoria elettorale del repubblicano Abraham Lincoln nel 1860 era stata sostanzialmente determinata dalla frattura esistente in seno al partito democratico, nel quale gli abolizionisti del Nord si trovavano in aperto contrasto con gli schiavisti del Sud. Si è a lungo argomentato che le ragioni dello scontro fossero diverse, ma una di queste, senz’altro quella prevalente, era la consistente presenza degli schiavi in quasi tutti gli Stati meridionali. Il numero di questi, tutti di importazione africana, era aumentato spaventosamente dai 757.208 del 1790 ai 4.441.830 del 1860.


Schiavi di colore in una fattoria

Alla fine del XVIII secolo gli schiavi resi liberi erano 59.000, settant’anni dopo 448.000. Ciò significava che 3.994.000 afro-americani venivano ancora impiegati nelle piantagioni quand’era trascorsa da un decennio la metà dell’Ottocento. E’ pur vero che il provvedimento di Lincoln mirava soprattutto a contenere il fenomeno, piuttosto che all’abolizione immediata della schiavitù – che sarebbe diventata effettiva soltanto il 18 dicembre 1865 – ma l’esistenza di un simile stato di cose costituiva ormai un anacronismo che avrebbe impedito agli Stati Uniti d’America di qualificarsi ancora a lungo come nazione democratica e garante dei principi di libertà e uguaglianza. Il Sud non la pensava così, sia perché era rimasta legato ad un certo elitarismo, considerandosi la culla della cultura e della politica nordamericana – aveva dato agli Stati Uniti ben 9 presidenti su 15, fra i quali George Washington, Thomas Jefferson e Andrew Jackson – sia per ragioni fortemente legate all’economia. Dal 1850 al 1860 la produzione di cotone era più che raddoppiata, mentre la forza-lavoro rappresentata dagli schiavi era cresciuta nel decennio da 3.200.000 a 3.990.000, cioè soltanto del 25 per cento e la meccanizzazione non giocava ancora, per le tipologie delle colture meridionali, un ruolo significativo. Su tali basi, qualche piantatore sosteneva addirittura la necessità di riaprire la tratta, vietata nel 1808, con l’importazione massiccia di nuovi lavoratori dal continente africano. Tutto ciò, se da un punto di vista strettamente economico poteva apparire fondato, a meno di adottare una forte contrazione della produzione, urtava contro le coscienze di molti esponenti dell’America moderna. La prospettiva di assistere nuovamente all’attracco delle famigerate navi negriere nei porti statunitensi faceva rabbrividire molte persone, soprattutto dopo che Harriet Beecher Stowe aveva provocatoriamente pubblicato nel 1852 “La capanna dello zio Tom” in risposta al famigerato “Fugitive Slave Act” – promulgato nel 1850 – che imponeva ai cittadini il dovere di denuncia degli schiavi fuggiti dalle piantagioni e la loro riconsegna ai proprietari. L’aspetto più osceno della questione era che gli Stati del Sud cercassero una legittimazione “divina” allo squallido commercio, citando testi religiosi per giustificare il mantenimento della schiavitù. Vi era anche chi sosteneva, fra gli imprenditori e i politici del Nord, che la stessa Guerra Messicana del 1846-47 scoppiata sotto la presidenza di James Knox Polk, avvocato della North Carolina, fosse stata decisamente voluta dai Sudisti, le cui mire espansionistiche comprendevano l’estensione dell’area schiavizzata sud del Rio Grande.


La vendita degli schiavi

Al di là di simili considerazioni, esistevano fra il Nord e il Sud differenze notevoli, che non si sarebbero potute colmare in pochi anni. In primo luogo, mentre gli Stati settentrionali avevano avviato da decenni un forte processo di industrializzazione, quelli meridionali si fondavano su un’economia prevalentemente agricola. Per fare un esempio, il 72 per cento delle linee ferroviarie esistenti si trovava nel Nord: circa 35.000 km. contro i 13.700 del Sud. Anche l’enorme afflusso migratorio dall’Europa, quantificato mediamente in 300.000 persone l’anno intorno al 1845, riguardava soprattutto le grandi e medie città del Nord. Per effetto di tale fenomeno, nel 1860 New York raggiungeva già 1.175.000 abitanti, Philadelphia superava largamente il mezzo milione e Boston, la culla della libertà, ne aveva 178.000, mentre tre delle principali città del Sud, New Orlèans, Richmond e Atlanta, ne avevano rispettivamente 168.000, 38.000 e 9.500. Il Nord possedeva 110.000 industrie- Pittsburgh, in Pennsylvania, era già uno dei più importanti centri siderurgici del mondo – contro le 10.000 scarse del Sud. Inoltre la pretesa supremazia culturale sudista si riduceva sostanzialmente ad un discorso elitario: tanto era colta la classe dominante dei proprietari terrieri – dove soltanto 200.000 persone su quasi 9.000.000 possedevano più di 20 schiavi – così viveva nell’ignoranza la maggior parte della popolazione, sia nelle campagne quanto nelle città. I principali quotidiani e settimanali a diffusione nazionale erano nati fra il 1833 e il 1841 al Nord: il “New York Sun”, il “New York Herald”, il “New York Tribune”. Il Nord vantava università di prestigio, quali Princeton, Harvard e New Haven College, mentre il Sud non poteva mettersi allo stesso livello. Nella maggior parte degli Stati settentrionali la piaga dell’analfabetismo era stata praticamente sanata – meno del 10 per cento poco prima della Guerra Civile – mentre al Sud, soprattutto in Louisiana, Arkansas e Mississippi, permaneva in maniera preoccupante. Per darne un esempio, nel Michigan il numero di persone senza alcuna alfabetizzazione era nel 1850 inferiore ad 8.000 su una popolazione bianca di 397.000 abitanti (2%); nello stesso periodo, in Arkansas gli analfabeti erano quasi 17.000 su 210.000 (8%).


L’attacco delle forze confederate

Ma, oltre a queste differenze, al momento della secessione pesarono notevolmente anche le enormi differenze demografiche fra l’Unione di Lincoln e la Confederazione di Jefferson Davis, che avrebbe fissato la propria capitale a Richmond. Prima della divisione, gli Stati Uniti d’America avevano raggiunto 31.443.321 abitanti. Dopo la secessione, il Nord si ritrovò con 22 Stati che complessivamente contavano 22.500.000 abitanti, con una forza potenziale di guerra – considerati gli uomini in età fra 18 e 45 anni – di 3.500.000 unità. Gli Stati del Sud non raggiungevano nell’insieme i 9.000.000 di abitanti e la loro mobilitazione poteva arrivare al massimo a 1.000.000 di soldati, anche se poi superarono di poco tale cifra, arruolandone 1.064.000 per contrastare i 2.773.000 mobilitati dall’Unione. La diseguaglianza era palese anche per quanto riguardava i cavalli dei due schieramenti: il Nord ne allevava 4.400.000, la Confederazione 1.700.000.
Il vantaggio, almeno iniziale, della Confederazione poteva consistere nella sua stessa concezione del conflitto che andava a provocare con il cannoneggiamento di Fort Sumter, nella South Carolina cominciato prima dell’alba del 12 aprile 1861. Il Sud non aveva infatti alcun bisogno di occupare gli Stati del Nord per ottenere la vittoria: gli sarebbe bastato impedire l’invasione del proprio territorio da parte delle armate di Lincoln, sperando di logorare l’avversario con una guerra di posizione, confidando nell’eventuale intervento a suo favore di qualche potenza europea. A questa strategia, che si rivelò suicida, il Sud rimase in effetti fedele dopo la prima battaglia di Bull Run, il 21 luglio 1861, che diede la vittoria all’esercito di Pierre Beauregard, Joseph Johnstone e Jubal Early. Di fronte all’esercito nordista del generale Irwin Mc Dowell in rotta, i Confederati rinunciarono a conquistare la capitale avversaria, distante poche decine di miglia e praticamente difesa solo da reparti di miliziani.


Artiglieri nordisti in posa

Nel corso delle ostilità, l’esercito in uniforme grigia di Lee si trovò sempre più in difficoltà di fronte alla poderosa macchina bellica delle Giubbe Blu avversarie, pur ottenendo significative vittorie nella seconda battaglia di Bull Run, a Fredericksburg, a Chickasaw Bayou e a Chancellorsville. Man mano che la marina di Lincoln stringeva il blocco navale intorno alle coste, impedendo i rifornimenti, le armate di terra si trovavano sempre più a corto di armi, di munizioni, di provviste e alla fine della stessa stoffa per confezionare le uniformi.
Durante i primi due anni della guerra, le armi impiegate da entrambi gli eserciti provenivano da oltre oceano. Furono acquistati dagli Inglesi 428.000 moschetti tipo “Enfield” monocolpo modello 1853, 226.000 Lorenz comperati dall’Austria-Ungheria, 140.000 fucili di fabbricazione prussiana e svariate decine di migliaia di altre armi individuali da Francia e Belgio. All’entrata in guerra, le truppe di terra sudiste erano armate soprattutto di fucili “Pattern Enfield”, “Springfield” modello 1861 e vecchi moschetti a canna liscia di vetusta fabbricazione, fra i quali molti “Kentucky” e fucili già impiegati nelle campagne napoleoniche. L’artiglieria confederata comprendeva inoltre diversi cannoni a canna liscia ormai superati. Durante il conflitto, il Nord sfornò nuove formidabili armi, quali il fucile “Spencer” a 7 colpi, distribuito nel 1863 durante la campagna di Gettysburg, l’”Henry” a 15 colpi, che fu il primo ad utilizzare cartucce di tipo metallico e la mitragliera a canne rotanti “Gatling”, brevettata da Samuel J. Gatling nel 1862 e capace di sparare fino a 300-400 proiettili al minuto, che per fortuna del Sud ebbe un impiego limitato. Infatti, la maggior parte dei generali nordisti si dimostrò molto scettica circa la sua utilità e l’arma fu messa in campo soltanto in alcuni scontri verso la fine del conflitto.
Un soldato addetto alla Gatling
La marina del Nord potè schierare intorno alle coste, grazie alla notevole produzione dei cantieri nautici, 380 navi armate con oltre 3.000 bocche da fuoco. I Sudisti ebbero il merito di sperimentare il primo sommergibile della storia, quel “C.S.S. Hunley”, con l’equipaggio di 1 ufficiale e 7 marinai, che affondò il 17 febbraio 1864 dopo avere speronato la nave nemica “U.S.S. Housatonic”. Il relitto è stato recuperato, dopo 15 anni di ricerche, nel 2000. Un memorabile scontro navale fra scafi di concezione moderna si svolse ad Hampton Roads il 9 marzo 1862 fra la corazzata nordista “Monitor” e l’avversaria “Merrimac”, concludendosi sostanzialmente alla pari, con entrambe le navi danneggiate ma ancora galleggianti.
La guerra di secessione, o “ribellione” come la battezzarono i Nordisti, ebbe tuttavia uno svolgimento soprattutto terrestre. A Shiloh, Antietam, Gettysburg, Chattanooga, Atlanta, Savannah e Richmond le armate confederate furono battute senza appello. Con l’ingente mobilitazione di uomini effettuata dal Nord e l’abilità di molti suoi generali – Ulysses Grant, William T. Sherman, Philip Henry Sheridan – il Sud si trovò messo alle strette dopo il primo biennio di ostilità. Quando Robert Lee accettò di firmare la resa IL 9 aprile 1865 ad Appomatox, la sua nazione era prostrata, città come Atlanta e Richmond distrutte, le campagne devastate. La Confederazione aveva perduto 258.000 uomini, dei quali solo 94.000 caduti sul campo, gli altri periti a causa di ferite, malattie e incidenti. Il Nord, costretto a sostenere una strategia d’attacco, aveva pagato un prezzo molto più elevato, con 360.000 morti, dei quali oltre 110.000 uccisi in combattimento. Nella sola battaglia di Gettysburg, combattuta in Pennsylvania fra l’1 e il 3 luglio 1863, il Nord aveva perso, fra morti e feriti, 17.786 uomini, il Sud 17.401.
Complessivamente, la Guerra Civile era costata 618.222 morti, sebbene qualche storico ipotizzi anche cifre superiori a questa. In ogni caso, fu il conflitto più sanguinoso sostenuto dagli Americani in tutta la loro storia: al suo confronto, la Guerra di Indipendenza assumeva, con i suoi 25.000 caduti, le dimensioni di una scaramuccia.


Ospedale improvvisato con decine di feriti

Neppure sommando le perdite statunitensi della prima e seconda guerra mondiale, più quelle subite in Corea e nel Vietnam si raggiunge un eguale numero di vittime. Come ultima considerazione di tipo prettamente militare, va osservato che, al momento dello scoppio delle ostilità, né l’uno né l’altro contendente potevano disporre di un adeguato esercito professionale. Infatti, le truppe americane esistenti prima del conflitto – tutte a ferma volontaria – consistevano in soli 16.637 uomini, dei quali 1.108 erano gli ufficiali. L’arruolamento massiccio richiesto dal conflitto e addirittura imposto da entrambi i belligeranti con l’introduzione della leva obbligatoria nel 1863, andò certamente a discapito della formazione e della preparazione dei soldati, che fu spesso improvvisata e spesso superficiale. Gli stessi ufficiali vennero nominati e gettati nella mischia con gradi provvisori, che non trovarono riconoscimento, se non come puramente onorari, al termine della guerra. Ne sono un esempio personaggi come George Armstrong Custer e Nelson Appleton Miles, che a 23 anni – pur ricoprendo entrambi il grado effettivo di tenente – si trovarono investiti della nomina a generale di brigata e successivamente divennero comandanti di divisione.
La speranza di ribaltare le sorti del conflitto non abbandonò completamente i Sudisti fino all’ultimo; qualche generale proseguì le ostilità per alcuni mesi ancora, altri emigrarono nel Messico, affiancando le truppe dell’imperatore Massimiliano d’Asburgo minacciato dai rivoltosi di Benito Juarez. Il 12 e 13 maggio 1865 le residue truppe sudiste di John “Rip” Ford fronteggiarono a Palmito Ranch, circa 20 miglia da Brownsville (Texas) i reparti di Theodore H. Barrett, arrendendosi dopo avere avuto 6 feriti. Il 23 giugno 1865 depose le armi anche la Brigata Indiana del capo cherokee Stand Watie, che ricopriva il grado di generale di brigata. L’ultimo atto della sanguinosa contesa fu la resa della nave confederata “Shenandoah”, che si consegnò il 6 novembre successivo.


Il Sud cede le armi al Nord

Il grande sogno della Confederazione era stato infranto per sempre. Coloro che avevano spavaldamente cercato di resistere al tempo, mantenendo in vita un sistema inesorabilmente condannato dalla storia, contemplavano sconsolati le rovine del loro mondo. Ma questa gente orgogliosa e irriducibile, anche se sconfitta militarmente, avrebbe trovato rapidamente la propria rinascita, dedicandosi con rinnovato spirito pionieristico all’unica vera ricchezza conquistata durante gli anni della colonizzazione.
Come nella conclusione del film “Via col vento”, il giorno dopo tutti sarebbero tornati al consueto lavoro nei campi.
Terminata la lunga lotta fratricida, la loro terra, come quella dei contadini dell’Ohio o dell’Iowa, si chiamava di nuovo Stati Uniti d’America.

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