Il fascino indiscreto del tavolo verde
A cura di Luca Barbieri
Un tavolo da gioco
Carte da gioco e pistole hanno attraversato a braccetto buona parte dei polverosi sentieri del “Selvaggio West” contribuendo a formare nella mente degli appassionati il cliché per cui non può esistere una partita a poker senza che la stessa si concluda con una feroce sparatoria.
La cosa, comunque, accadeva abbastanza spesso, dato che molti dei più famosi pistoleri erano anche accaniti giocatori d’azzardo: le carte infatti erano un modo migliore di tanti altri per far soldi in modo rapido e senza troppa fatica, mentre la pistola veniva sempre bene per tenere a bada chi proprio non sapeva perdere.
Wild Bill Hickok è un esempio perfetto di questa bizzarra commistione tra giocatore d’azzardo e gunman.
Al riguardo va però detto che dopo la sua morte cominciò a circolare la voce che Hickok fosse un pessimo giocatore di poker; prima di allora probabilmente nessuno avrebbe osato dirlo ad voce alta o scriverlo pubblicamente.
Si gioca accanitamente in una cittadina del vecchio west
Fu un articolo dell’Ellis County Free Press a sollevare la questione. Pubblicato il 5 Gennaio 1887 (ben undici anni dopo la morte di Hickok), venne intitolato “Una buona mano a poker”, e racconta che “Wild Bill aveva una grande passione per il poker, ma ne sapeva poco o nulla.
Perciò attirava i giocatori come il miele le api, e tutti gli svuotavano le tasche.
Una notte si mise a giocare con un tipo, un certo Mc Donald, un vero esperto.
Mc Donald vinceva tutte le mani e l’esploratore vedeva la sua pila di gettoni diventar sempre più piccola via via che il gioco procedeva. Wil Bill cominciò a bere e, a mezzanotte, si trovava in uno stato di eccitazione repressa: una condizione che lo rendeva uno degli uomini più pericolosi del West.
Un tavolo da gioco con molti giocatori
A questo punto Mc Donald avrebbe dovuto smettere. Ma l’apparente freddezza di Hickok lo trasse in inganno. Alla fine parve che all’esploratore fossero capitate ottime carte, perché cominciò a puntare sempre più forte. Mc Donald raddoppiava ogni volta e il piano del tavolo era appena visibile sotto le fiches. Wild Bill disse: “Vedo!”, McDonald rispose: “Ho un tris di jack!”; “Io un full di sei!” replicò Wild Bill. “Per me basta!” disse McDonald voltando freddamente le carte dell’avversario “Ma qui vedo solo due assi e un sei.” “Ecco l’altro sei!” ruggì Bill estraendo la Colt Navy “E qui ce n’è un altro!” aggiunse estraendo un Bowie-knife. “La mano è tua” disse McDonald tranquillo “Prendi il piatto.”.
Luke Short, un accanito giocatore
Pistoleri a parte, i giocatori d’azzardo professionisti (i cosiddetti gamblers), che giocassero in modo pulito o meno, avevano comunque una pessima fama.
Il Philadelphia Mirror pubblicava già nell’Ottobre del 1836 un “avviso ai giocatori ed altri sportivi” nel quale suggeriva il prudente acquisto di bowie-knives e tomahawk (non si sa se per offendere o difendersi), anche se l’arma prediletta dei gamblers fu da subito la minuscola Deringer, calibro 41 o 45, che ben si poteva nascondere nelle maniche della giacca, nel panciotto oppure in una calza.
Era infatti consigliabile non frequentare il tavolo verde se non si era armati e se non si poteva difendere il proprio diritto alla vincita o sconsigliare qualche brutto scherzo se si veniva pescati a barare; e, anche quando le regole del civile convivere imposero che i giocatori mettessero le loro armi in bella vista sul tavolo, ci fu sempre chi se ne tenne qualcuna per sé, ben nascosta agli occhi dei rivali.
L’epopea dei giocatori professionisti non si avviò, comunque, nei fumosi saloons della prateria, bensì nei beccheggianti saloni dei battelli a vapore fluviali, un mezzo poco costoso e dunque frequentatissimo nella prima metà dell’Ottocento.
Wild Bill, anche lui gran giocatore
In queste malferme e pericolose sedi (un tronco affiorante o lo scoppio della caldaia, incidenti non rari, potevano improvvisamente concludere la partita) si costruì la fortuna dei primi giocatori d’azzardo a danno dei viaggiatori più danarosi, un mito che ebbe davvero ben poco di romantico, come giustamente evidenziato dal Chronicle di Abilene che il primo Giugno 1871 uscì con un editoriale intitolato semplicemente “Il gioco”, destinato ad abbattere il velo di fascino che ammantava quelli che, di fatto, non erano che volgari imbroglioni o, peggio, assassini.
Interessante è la parte che ne svela i trucchi, dai più banali, come le carte segnate o le roulette ad arresto prestabilito, ai più ingegnosi, come i piccoli specchi fissati all’altezza delle ginocchia per sbirciare il punteggio dell’avversario.
Merita infine di essere raccontato un trucco davvero molto complesso, che consisteva nel montare un telo divisorio che simulasse un muro, dietro al quale si appostava un complice del baro; attraverso un forellino nel telo, costui poteva guardare le carte dei giocatori per poi comunicare al complice i punteggi tramite un codice stabilito prima, il più delle volte battendo il piede sopra un’asse allentata.
Un momento topico del gioco: si arraffa la posta!
Chi veniva sorpreso poteva aspettarsi un proiettile in pancia, una corda al collo, oppure, se gli diceva bene, una semplice ripassata con pece e piume.
A barare si rischiava grosso…
Ma nonostante fosse risaputo che i gamblers erano spesso bari incalliti, una moltitudine di sprovveduti cadeva invariabilmente nella loro rete; perché?
Forse per via dell’irripetibile “brivido spinale di dieci secondi” che riusciva a trasmettere solamente l’azzardo di una partita a poker.