Rifugiati e migranti (1680-1750)

A cura di Gianni Albertoli

Dopo la grande rivolta dei Pueblo (1680), come riportava il Lance R. Blyth, molti rifugiati si spinsero nelle aree del Presidio di Janos (1686); nello stesso periodo gli Apaches continuavano a spostarsi dalle grandi Pianure meridionali verso le terre del Río Grande ed anche in direzione di Janos all’inizio del VII secolo. Il risultato era scontato e nuovi scontri si sarebbero protratti contro le comunità spagnole. Gli Apaches si dedicavano alla cattura di adulti di etnia spagnola, specialmente donne ma, indiscutibilmente, preferivano catturare giovani ragazzi-ragazze per incrementare la loro popolazione. Il risultato era chiaro, le due comunità si “imbastardivano” fra loro, ma tale fatto non avrebbe portato alla pace, infatti, sotto il sole di fine estate un triste corteo sfiduciato si faceva strada nel “paraje” (campeggio) di La Salineta, tre leghe a nord di El Paso.
Più di duemila uomini, donne e bambini riempirono il sito in quel giorno di settembre del 1680, tutti rifugiati da una rivolta degli indiani Pueblo settentrionali del Nuovo Messico. Lo stesso governatore Antonio de Otermín avrebbe poi condotto la ritirata verso sud attraverso scene di devastazione e profanazione, per raggiungere i coloni del Río Abajo che erano sopravvissuti alla ribellione. Come discendenti degli ultimi “conquistadores”, il 90% di questi nuovi venuti erano nati nella Provincia e questi rifugiati erano stati la classe dominante del Nuovo Messico. Il virtuosismo della conquista avrebbe portato questi nuovi coloni ad uno “status aristocratico”, sicuramente un grande onore locale che permetteva loro di sfruttare il lavoro sottopagato dei nativi, senza dimenticare la garanzia di queste terre offerte loro dalla Corona e conosciute come “mercedes”. Questi coloni avrebbero mantenuto i loro privilegi per almeno quattro generazioni, ma avrebbero dovuto confrontarsi con i “nemici dei deserti”, specialmente gli Apaches, venuti a devastare la provincia. Ora erano diventati profughi, senza lo status di cui avevano goduto nel Nuovo Messico e quindi, probabilmente, sarebbero rimasti senza terra e avrebbero lavorato sicuramente meno; così molti di questi rifugiati ispanici sfruttarono i legami di parentela e continuarono oltre La Salineta, per entrare nella Nueva Vizcaya. Nel territorio, la situazione non era certamente diversa da quella del Nuovo Messico infatti, nei primi mesi del 1684, agli indiani Janos della missione “Nuestra Señora de Soledad” si unirono gruppi di Sumas, così il 6 maggio scesero sul sentiero di guerra. I ribelli massacrarono padre Manuel Beltrán, il capitano Antonio de Alviso e un “servo”, catturando anche sei donne e due-tre ragazzi; nella notte del 13 maggio il grosso dei Sumas lasciava la missione di Casas Grandes dopo aver distrutto e dato alle fiamme le loro abitazioni, per poi dedicarsi a razzia contro gli insediamenti coloniali. Ai primi di giugno i ribelli nativi venivano localizzati, in circa duecento, sulla Sierra del Diablo, a circa 30 leghe da Casas Grandes. Fu allora che il Ramírez, con 12 coloni di Casas Grandes come guide, circa un centinaio di uomini a cavallo ben armati e alcuni ausiliari nativi, si mosse sulle tracce nemiche. Gli indiani vennero assaliti, ma gli spagnoli persero un combattente e parecchi ausiliari Pueblo vennero feriti poi, dopo un assedio poco fortunato, il comandante decise di rientrare alla base onde evitare ulteriori attacchi. La situazione per Casas Grandes era veramente critica e fu allora che il Ramírez ricevette l’assistenza del Juan Fernández e dei suoi 30 uomini della Sonora.

I due avrebbero organizzato parecchie campagne spingendosi a nord e a nordest, ma gli indiani ribelli, specialmente Sumas e Janos, sfuggirono alla presa e, verso la metà di settembre, devastarono le terre intorno a Casas Grandes. I rifugiati del Nuovo Messico erano chiaramente in seria difficoltà, gli indiani ribelli uccidevano alcuni coloni a colpi di mazza da guerra, per poi dare alle fiamme i magazzini “jacales” e le stesse abitazioni dei coloni; senza dimenticare le razzie di muli e cavalli, on parecchie pecore e capre portate nei loro rifugi montani. I due ufficiali dovettero rientrare velocemente a Casas Grandes per unirsi al capitano Roque de Madrid di El Paso; le forze riunite si mossero nuovamente in campagna per essere poi rinforzati da altre truppe provenienti dal Presidio di Sinaloa. Il 30 settembre gli spagnoli intercettarono i nemici, con gli ausiliari Pueblos che inseguirono i Janos e i Sumas in fuga sulle aree rocciose della sierra. Comunque, stando alle fonti, l’attacco non fu certamente una grande vittoria, le truppe e gli ausiliari ebbero parecchi feriti, tra i quali lo stesso Roque de Madrid, per poi ritirarsi abbastanza velocemente. Due settimane dopo i ribelli evacuarono la sierra ma, nuovamente intercettati, subirono parecchie perdite umane con alcune donne e bambini catturati, senza dimenticare la cattura di bestiame e cavalli. Il primo dicembre un gran numero di indiani stava raccogliendo piante del deserto nelle aree di Ojo Caliente, il Ramírez si mosse velocemente con otto cavalieri armati di lancia e un centinaio di ausiliari nativi, i ribelli vennero sorpresi e, stando al comandante, i “duecento indiani” vennero costretti a deporre le armi e a rientrare nei loro vecchi villaggi presso le missioni, erano “furiosi e rabbiosi”.

Il Ramírez temeva i Sumas da poco erano rientrati a Casas Grandes “presumibilmente in pace”. In settembre un indiano Sumas avrebbe “minacciato di sgozzare un prete”, mentre altri andavano in giro minacciando di “uccidere tutti gli spagnoli per vendicare la morte dei loro parenti” che i bianchi avevano ucciso. Le fonti riportavano che i Sumas erano intenzionati a riprendere la guerra per “impressionare gli altri indiani con il loro valore e il loro coraggio”; era per questo che, in ottobre i profughi di Casas Grandes temevano che tutti gli indiani della zona si ribellassero alla “prossima luna piena”. Così, per i due mesi successivi gli spagnoli furono impegnati ad imprigionare i Sumas ritenuti cospiratori e, stando alle fonti, sarebbero giunti ad uccidere ben 77 nativi mentre, a Casas Grandes ne massacrarono 22 a colpi di mazza, concludendo l’opera con la cattura di bambini e donne da vendere come schiavi. Nonostante la costruzione di nuovi “presidios”, la situazione non sarebbe migliorata vista la presenza del “vecchio temibile nemico”, gli Apaches. Dopo la campagna dell’agosto-settembre 1684, il Ramírez aveva ampiamente osservato i numerosi segni dei nemici Apaches, ed ormai i ribelli Janos e Sumas stavano unendosi a loro, ovvero agli Apaches, una popolazione che si presentava “non come rifugiata, ma come migrante”. La riconquista spagnola del Nuovo Messico non avrebbe bloccato la migrazione degli Apaches, questi avrebbero continuato a muoversi nelle Pianure meridionali, e oltre le Sangre de Cristo Mountains, per stabilirsi nelle terre adiacenti ai “pueblos” settentrionali del Río Grande. Dopo almeno una decade di incontri con lo Zaldívar, gli Apaches si erano stabiliti nelle aree presso gli insediamenti di Pecos, Taos e Picuris. Nelle pianure meridionali gli Apaches stavano incorporando i “contadini stanziali nei loro modelli di sussistenza” attraverso il “doppio mezzo di razzie e commerci”; tale situazione avrebbe reso gli indiani Pueblos particolarmente diffidenti e, in qualche modo ostili agli Apaches nei loro incontri, come d’altronde mostrano i ricordi degli Apaches. Il continuo arrivo di merci commerciali spagnole nella valle del Río Grande, avrebbe probabilmente spinto la migrazione di alcuni gruppi apache vaganti nelle vicinanze di quei Pueblos con cui avevano rapporti da lungo tempo. Data la relativa povertà della provincia, e la mancanza di giacimenti minerari sfruttabili, gli spagnoli videro comunque nel commercio Pueblo-Apache una potenziale fonte di profitto e tentarono così di portarlo sotto il loro controllo, sconvolgendo la delicata bilancia commerciale e creando problemi tra i Pueblos e gli Apaches. Per questo motivo gli Apaches avrebbero cominciato a vedere gli spagnoli come dei veri e propri “furfanti”, “persone preoccupate soltanto dei propri interessi”, così, per vendicarsi di questi “mostri” che non li lasciavano vivere, colpirono il bestiame, il bene spagnolo “più vulnerabile e anche più prezioso”. Inizialmente gli Apaches portavano ai Pueblos parecchi prigionieri di etnia Caddoan, ma quando intervennero gli spagnoli, allora gli Apaches non furono più in grado di portare grandi quantità di schiavi e la situazione sarebbe mutata radicalmente, anzi, anche loro iniziarono a subire attacchi di tipo schiavistico. Sembra accertato che presso i coloni ispanici del Nuovo Messico vi fossero numerosi schiavi di etnia apachean. Uno dei primi casi noti di un’incursione a scopo schiavistico ebbe luogo quasi vent’anni dopo la conquista, quando un governatore spagnolo inviò un forte gruppo di indiani Pueblos ad attaccare un accampamento degli Apaches.

Nonostante il desiderio dichiarato di questi indiani di diventare cristiani, gli schiavisti uccisero il capo e ne presero molti altri per venderli nelle miniere d’argento della Nueva Vizcaya. Lo shock di tali attacchi riverberava nella memoria degli Apaches. Gli indiani non avrebbero dimenticato ma, tuttavia, gli spostamenti di una comunità apache, inclusa quella che sarebbe stata conosciuta come “Chiricahua”, li avrebbe portati nelle aree a sud dei Pueblo settentrionali e sul lato ovest del Río Grande. Sotto la guida di un capo chiamato “Sanaba”, i Chiricahuas si stabilirono in aree poste a ovest e a nord del pueblo di Senecú, nelle vicinanze di Socorro (Nuovo Messico), dove vennero conosciuti e identificati dagli spagnoli come “Gila Apaches”. Il Sanaba non sembrava particolarmente pericoloso e attendeva anche l’arrivo di missionari bianchi, ma non voleva alcuna interferenza spagnola nelle attività commerciali della sua gente. Inoltre, un nuovo importante fattore sarebbe entrato nelle relazioni tra gli spagnoli e gli indiani Pueblos, era il cavallo. Inizialmente gli Apaches razziavano questi animali soprattutto per mangiarli; ai tempi del Sanaba, entrarono in contatto con alcuni missionari di Senecú e videro parecchi cavalli, ben presto si resero conto che questi animali venivano razziati e poi commerciati dai loro parenti delle Pianure, furono proprio i cugini ad insegnar loro l’uso del cavallo. L’acquisizione di questo animale divenne allora un grande motivo per iniziare nuovi attacchi a scopo di razzia, a cavallo potevano sfuggire velocemente alle truppe e potevano razziare anche in terre molto lontane. Nel frattempo, i rapporti commerciali di schiavi tra i Pueblos e gli spagnoli continuavano alla grande, mentre gli Apaches si dedicavano a continue scorrerie schiavistiche. I “Gila Apaches”, noti come “Gileños”, occupavano le aree vicine alle rotte spagnole del Nuovo Messico, ma ora avevano un nuovo leader chiamato “El Chilmo”, erano in piena fibrillazione, avevano abbandonato le loro “sedentarie rancherías” e aumentavano i loro raid montati su cavalli. In una occasione, la banda di El Chilmo sorprendeva un convoglio di carriaggi spagnoli diretto a Santa Fe, quattro bianchi perdettero la vita e parecchi muli vennero razziati; qualche tempo dopo la stessa banda si metteva in luce a Senecú, riuscendo a razziare l’intera mandria di bestiame dell’insediamento, poi respinsero duramente in un agguato gli inseguitori spagnoli e Piros.

Fu in questo periodo che i Gileños si sarebbero divisi in varie bande, delle quali molte non identificate, fino a rappresentare un vero e proprio “enigma”. Comunque, questi Apaches si mossero verso sud e presto si trovarono nel raggio d’azione dei rifugiati del Nuovo Messico e, utilizzando guide, volenterose ed anche no, tra gli indiani locali Sumas e Jumanos. L’inverno successivo, visto che gli spagnoli si erano ritirati a sud di Senecú, gli Apaches colpirono El Paso, prendendo duecento capi di bestiame, avevano “fatto quello che hanno sempre fatto”. Così, pochi mesi dopo attaccarono un ranch vicino di Casas Grandes, era “una cosa mai segnalata prima”; ormai i Chiricahuas erano arrivati e ora si univano ai Janos nei primi passi di una danza mortale che alla fine avrebbe portato ad “un violento abbraccio”. Per i successivi dieci anni le comunità sarebbero state impegnate in continue azioni di guerra, sia offensive che difensive. Le aree di Janos furono particolarmente colpite, gli effetti della migrazione Chiricahua stavano facendosi sentire e a ciò bisogna aggiungere le continue rivolte degli indiani Sumas, Janos e Jocomes. Nel marzo 1688 il capitano Fernández lanciava una campagna contro i ribelli muovendosi con 40 soldati, una trentina di coloni e circa 200 alleati indiani provenienti da Casas Grandes. La campagna fu sicuramente lunga, ma abbiamo ben poche notizie, sappiamo soltanto che, quattro mesi dopo, i Janos e i Jocomes assalivano le aree di Casas Grandes uccidendo un soldato e ferendo lo stesso capitano. Il Fernández fu allora costretto a lanciare, in agosto, una nuova offensiva; sarebbe riuscito a sorprendere una grossa banda di indiani Janos, Jocomes e Sumas che, stando alle fonti, giunsero a perdere circa 200 anime e alla cattura di parecchie donne e bambini. I gruppi restanti di indiani Janos e Jocomes fuggirono a nord per cercare un sicuro rifugio nelle aree lungo il fiume Gila dove, a quanto sembra, si fusero gradualmente con gli Apaches del territorio. Chiaramente, i “migranti Chiricahua” ebbero notevoli vantaggi da questi nativi vista la loro grande conoscenza del territorio; in effetti, nella primavera del 1691, una banda mista del Gila assaliva e razziava una cinquantina di muli e cavalli nelle vicinanze del Presidio di Janos. Tuttavia, sarebbe errato pensare semplicemente alle incursioni degli Apaches lungo il Gila come pura sussistenza.

Le incursioni erano profondamente radicate in una grande opera di scambio che si estendeva ben oltre gli insediamenti spagnoli fino alle grandi Pianure, come evidenziato dalla testimonianza di un indiano Jumano ridotto in schiavitù dagli Apaches delle pianure, poi scambiato con gli Apaches del Gila per alcuni cavalli, ed infine liberato da una spedizione spagnola. Gli spagnoli, partendo da Janos, superarono il Continental Divide ed entrarono nel bacino del Gila dove poterono avvistare varie “rancherías” su entrambe le sponde del fiume, così diverse “rancherías” si svegliarono in un’alba del tardo autunno per scoprire gli spagnoli che “lottavano attraverso un territorio oltre il loro accampamento nel tentativo di circondarli”. Così l’attacco a sorpresa spagnolo si trasformò in un inseguimento con gli Apaches che fuggivano. Che fosse dovuto alla perdita della sorpresa, o agli “Spiriti”, i Presidiali di Janos riuscirono a catturare soltanto “23 donne e bambini e due guerrieri”, ma gli Apaches prigionieri insorsero in forze contro gli spagnoli, e nello scontro sedici indiani perdettero la vita. Sarebbe poi stata una tempesta di inizio stagione, con “neve bagnata e vorticosa” che pose fine alla campagna e costrinse le truppe a rientrare velocemente a Janos. La sortita avrebbe comunque confermato i timori del Fernández e della comunità di Janos, poiché “gli Apaches fecero un’unione formidabile di tutto il popolo della loro nazione e di quello dei Janos, Jocomes e Sumas”. Le truppe stavano all’erta e varie pattuglie individuarono un solo accampamento posto nelle vicinanze di Palotada e, il 26 luglio, un piccolo gruppo di soldati “si fece avanti” per attaccare. Questi si imbatterono in una forza di diverse centinaia di indiani, alcuni dei quali a cavallo, riuscirono a farsi strada con grande fatica, ma dovettero ben presto ritirarsi, purtroppo a costo di diversi feriti. Successivamente fu la controffensiva del Fernández che portò alla scoperta di un grande villaggio posto a tre leghe oltre un “aguaje”. I soldati vennero individuati e gli indiani inviarono le donne e i bambini “ad arrampicarsi sulle rupi di una collina vicina”, poi si schierarono in un certo numero di gruppi per attendere l’attacco. La prima parte dello scontro portò al ferimento di un soldato, e alla morte di diversi cavalli, però parecchi indiani caddero al suolo e così, di fronte a tali perdite, espressero il desiderio di trattare. L’accampamento contava circa “trecento maschi adulti”, una combinazione di indiani “Janos, Jocomes, Mansos e Sumas, con alcuni Apaches e Pimas”; due indiani di ogni “nazione” accompagnarono i soldati a Janos, dove ricevettero tabacco, vestiti e altri doni.

Tutti avrebbero accettato di ritornare nelle proprie terre poiché, come notava il Fernández, il campo con le sue donne e bambini contava “quasi un migliaio di persone ed era troppo grande per mantenersi senza ricorrere alle razzie”. L’11 agosto venne riaffermata la pace e gli indiani Janos accettarono di stabilirsi nelle aree del Presidio che, riaffermiamolo, rappresentavano le loro terre originarie. Qualche tempo dopo, però fuggirono sulle “sierras” e ricominciarono le incursioni. Ancora un anno dopo la situazione era inalterata e così il capitano dovette riaprire le campagne contro gli Apaches “e altre nazioni ribelli”. I Chiricahuas, avendo “chiamato le montagne, dato il nome alle sorgenti, ai fiumi, alle piante, agli alberi e alle bacche” dal fiume Gila fino ai margini delle Chiricahua Mountains, erano a casa e non più migranti. Erano venuti a sud per mantenere la loro capacità di razziare e commerciare con gli spagnoli e con essa la loro capacità di sopravvivere; insidiati dalla violenza nelle loro nuove case, gli abitanti di Janos e i Chiricahuas iniziarono a creare comunità multietniche di confine, spesso con la violenza. Nella stagione delle “molte foglie”, un leader apache noto come “El Salinero”, ebbe modo di ascoltare un racconto di sventura “sotto i pini nel paese de Gila”. Il narratore era un anziano indiano Jocomes, chiamato “El Tabovo”, un leader importante a capo di un insediamento misto di indiani “Janos, Mansos, Sumas, Chinarras e i suoi Jocomes”, vaganti nella parte centrale delle Chiricahua Mountains, erano in aperta ribellione contro gli spagnoli da “oltre dieci raccolti”. Nel periodo del solstizio d’estate queste nazioni si erano riunite per sicurezza, mentre la maggior parte degli uomini, e alcune donne, quasi un centinaio in tutto, erano partiti alla volta degli insediamenti posti sulle pendici occidentali della Sierra Madre. Il loro tempismo “non fu certamente fortunato”, un contingente spagnolo riuscì a scoprire le tracce dei razziatori, vennero inseguiti e intercettati in una durissima battaglia durata tutta la mattinata, le fonti riportavano l’uccisione di quasi la metà dei razziatori. Gli spagnoli setacciarono le Chiricahua Mountains, costringendo la banda di El Tabovo a fuggire e a trovare rifugio tra gli “arroyos e le mesas” poi, qualche tempo dopo, lo stesso leader guidava i capi dei vari gruppi a negoziare, ma gli spagnoli se ne andarono bruscamente.


Uno sperone roccioso nelle Chiricahua Mountains

Fu un durissimo colpo, lo scontro aveva dato la morte a numerosi giovani guerrieri, “erano rimasti soltanto diciannove uomini tra i Jocomes”, ed El Tabovo, malato da tempo, condusse la sua gente nella regione del Gila per unirsi agli Apaches di El Salinero, che chiaramente li accolse a braccia aperta, promettendo che i suoi uomini li avrebbero “sostenuti e protetti dagli spagnoli”, una popolazione che “non erano uomini”. Nel giro di poche settimane, dopo che il fratello di El Tabovo lasciò la banda, El Salinero divenne il leader riconosciuto, il “gobernador” nella traduzione spagnola, di questa banda unificata di Jocomes e Apaches. Le azioni di El Salinero non furono comunque le uniche. In tutte le terre di confine sud- occidentali gli Apaches crearono le loro comunità “sostituendo, incorporando o acculturando” molti dei precedenti abitanti nativi della regione, era questo un tipico processo di “Apacheization”. In quel periodo gli Apache si offrirono di aiutare gli spagnoli a combattere i Mansos, apparentemente per rendere disponibili agli stessi Apaches le ex-terre di questi indiani. Gli Apaches incorporavano le persone con la forza e, dopo tutto, era stato un indiano Jumano delle pianure, reso schiavo dagli Apaches, scambiato per cavalli e salvato dagli spagnoli, che aveva spiegato perché gli Apaches stavano razziando per ottenere cavalli. Le prove genetiche dimostrano ampiamente che la migrazione “estesa femminile” avrebbe accompagnato il contatto apache con altri gruppi nativi nel Sud-ovest. La maggior parte della migrazione consisteva in donne che si spostavano dai gruppi circostanti agli Apaches, piuttosto che donne Apaches che si trasferivano in altri gruppi. Una stima suggerisce che “circa il 2% delle madri, in ogni generazione di Apaches negli ultimi cinquecento anni, abbia avuto origine in gruppi circostanti”. Nei primi decenni di contatto il numero era probabilmente molto più alto, con molte mogli e madri provenienti dai circostanti Janos, Sumas, Mansos, Chinarras e Jocomes di lingua Uto-Azteca. Ciò potrebbe suggerisce che i Chiricahuas “richiedessero mogli abbastanza urgentemente da acquisire attraverso il commercio, o la guerra, o indirettamente come nel caso degli uomini di El Salinero”. La banda di El Salinero potrebbe aver avuto bisogno di donne al di fuori della comunità apache come mogli, poiché più uomini che donne erano emigrati nelle terre di confine. Questi uomini avrebbero avuto bisogno delle donne per creare una comunità vitale, soprattutto considerando tutto il lavoro attraverso il matrimonio; ma il matrimonio con una moglie Chiricahua significava unirsi alla sua famiglia con tutti i principali problemi che ciò comportava. Per i Chiricahuas il genero era “colui che porta pesi per me”, e ogni parente della moglie aveva il diritto di rivolgersi a lui come tale; a ciò si aggiungeva l’obbligo per il marito di evitare totalmente “la madre di sua moglie, suo padre, la madre di sua madre e la madre di suo padre”.


Il corso del Gila River in Arizona

Questi quattro, di cui tre potrebbero essere stati a casa della sua nuova sposa, erano conosciuti come “quelli da cui non vado”; eppure questi parenti affini determinavano le azioni di un marito, usando sua moglie come messaggera, nella misura in cui un marito era “l’uomo governato da loro (i parenti)”. Un genero doveva mantenere i parenti di sua moglie, anche se poteva prendere tutto ciò che avevano a sua volta; mentre l’obbligo per il marito di mantenere i parenti della moglie, pur evitandoli, poteva continuare anche dopo la morte della moglie. I Chiricahuas consideravano una “strega” chiunque commettesse incesto, insieme a chiunque si soffermasse sull’argomento o chiunque fosse sospettato di non obbedire ai tabù dello “evitamento”. L’esposizione pubblica e le percosse erano “le punizioni più miti inflitte a coloro che venivano scoperti nell’incesto”; quindi le mogli al di fuori della comunità, che spesso venivano senza le loro famiglie, potrebbero essersi dimostrate attraenti per gli uomini Chiricahua. Le donne Janeros fecero probabilmente appello a quegli uomini con El Salinero quel giorno d’estate sulle montagne del Gila. Per quanto attraenti potessero essere, lo stesso El Salinero non visse a lungo per approfittare del loro arrivo. La sua morte fu dovuta alle azioni del capitano Fernández del Presidio di Janos. Intorno alla metà di giugno il capitano si muoveva con 36 uomini ben armati, affiancati da 40 soldati sotto la guida del don Domingo Terán de los Ríos, e con al fianco 30 indiani Conchos sotto il Juan Corma. Loro compito era quello di porre fine agli attacchi portati dai gruppi Janos, Jocomes, Mansos, Sumas, Chinarras e Apaches. A nord, e a nordest di Janos, avrebbero localizzato, attaccato e devastato la “ranchería” di El Tabovo; e dopo alcune negoziazioni sulle Chiricahua Mountains, le truppe dovettero spostarsi a ovest per fronteggiare la rivolta dei Pima. Quando, due mesi dopo, rientrarono nelle Chiricahua Mountains, scoprirono che i ribelli si erano nuovamente uniti agli Apaches e che i gruppi Jocomes, Janos, Sumas e Chinarras si erano spostati nelle terre del fiume Gila. Dopo parecchie ricerche scoprirono il fratello di El Tabovo e da lui seppero che il capo era “furioso”, ma i suoi Jocomes, Sumas e Janos erano ormai disposti ad accettare le condizioni di pace. Il giorno dopo catturarono un indiano Jocomes e una donna, questi riportavano che la loro gente si era unita alla banda apache di El Salinero; inoltre la donna informava il capitano che gli Apaches erano assolutamente contrari alla pace e chiedevano “vendetta per quelli uccisi e catturati” dagli spagnoli. Intorno al 20 settembre le informazioni riportavano che la situazione dei nativi era ormai preoccupante, “molti uomini erano malati, avevano brividi freddi e febbre”, probabilmente a causa di una infezione virale dovuta al consumo di acqua contaminata durante il caldo, l’umidità e le violente piogge della stagione dei monsoni estivi.


Sullo sfondo l’Apache Pass

Dall’altra parte, anche il Terán era seriamente malato, non era in grado di andare a cavallo e, inoltre, quasi un centinaio di alleati Pimas avevano abbandonato la campagna. Fu allora che il Fernández decise di inviare un’altra pattuglia per localizzare le posizioni dei Jocomes e per vedere se volevano veramente la pace. Il tenente Antonio de Solis, con 64 uomini e un centinaio di “indiani Opatas, Conchos e Pimas”, tutti con “quattro giorni di razioni” a disposizione, si mosse velocemente, con il Fernández che attese “ansiosamente” per ben tre giorni, fin quando il don Pablo Quique – capo degli ausiliari Opatas -, e il Juan Corma – leader dei Conchos – rientrarono al campo per annunciare una grande vittoria. Il contingente del Solis aveva individuato e assalito l’insediamento dei Jocomes verso la metà della mattinata. Era un grande colpo, le truppe si avvicinarono rapidamente, attaccarono duramente e inseguirono gli indiani fuggiaschi che abbandonavano il loro accampamento.

Le fonti riportavano l’uccisione di dodici indiani ribelli, tra i quali i due capi, sia El Tabovo che El Salinero, e la cattura di 44 donne e bambini con due anziani. Qualche giorno dopo il Fernández ordinava di fucilare tre prigionieri Jocomes e due donne anziane per non ostacolare la sua marcia; mentre il Terán doveva essere trasportato su una lettiga e molti degli uomini erano ancora malati di “febbre e con forti brividi di freddo”, quindi le truppe non erano in grado di continuare la campagna. Alla fine avrebbe inviato altre pattuglie in direzione nord che rientrarono alla base il 28 settembre, non portavano nessuna novità, gli indiani erano letteralmente scomparsi, i ribelli avevano raggiunto le aree del Gila, la patria degli Apaches. Qualche tempo dopo, un Concilio di Guerra metteva in risalto anche la triste situazione delle truppe presidiali, troppi soldati erano seriamente malati e diversi ausiliari nativi erano rientrati nei loro villaggi, così alcuni propendevano di abbandonare la campagna, soprattutto nelle pericolose terre del fiume Gila. Il Terán moriva dopo la mezzanotte del giorno successivo e il capitano dovette far rientrare a Janos il corpo dell’ufficiale. Comunque, il Fernández non mollava la presa e preparava la campagna per la successiva primavera, poi avrebbe consegnato a varie compagnie i Jocomes catturati, in particolare donne e bambini. Dal canto suo il comandante rientrava a Janos il 3 ottobre, dopo tre mesi e mezzo di durissima campagna di guerra. Forse desiderando ricongiungersi con i loro parenti catturati, e forse desiderando fuggire dagli Apaches che “prendono le loro donne come mogli”, tre anni dopo, nell’ottobre 1698, i rimanenti Janos e Jocomes, insieme ad alcuni Sumas, circa 120 famiglie in tutto, entravano in Janos per negoziare una pace.

L’avvicinamento di questi indiani avrebbe portato al loro costante assorbimento all’interno della comunità, subendo conseguentemente un processo parallelo di “ispanizzazione”, rendendo Janos una comunità multietnica tanto quanto quella dei Chiricahuas. Anche Janos avrebbe creato la sua comunità di confine incorporando gli originari nativi di lingua Uto-Azteca, e il battesimo dei bambini indiani, aggiungendo la loro anima all’elenco della comunità dei fedeli. Era questo un forte indicatore di questa nuova realtà. Nel 1699, l’anno dopo che i Janos e i Jocomes avevano richiesto la pace, le fonti battesimali riportavano sedici Janos, un Jocomes e nove Sumas battezzati. Quasi 20 anni dopo la pace del 1698 vivevano a Janos abbastanza indiani amichevoli che quando un centinaio di famiglie di Janos e Jocomes si trasferirono da El Paso, nel 1717, furono emanati ordini per ristabilire la città indiana di “Nuestra Señora de la Soledad”, distrutta nel 1684 durante un’insurrezione. Ormai i gruppi Janos, Sumas e Jocomes, senza dimenticare qualche Mansos, iniziavano ad essere conosciuti semplicemente come “indiani”, erano semplicemente gruppi misti praticamente irriconoscibili fra loro visti i loro continui rapporti e, soprattutto, i loro matrimoni misti. Inoltre, parecchi spagnoli iniziavano a sposare donne native di questi gruppi e le comunità registravano la nascita di nuove caste etniche che portarono al “sistema de castas”; gli “españoles”, discendenti di spagnoli o in genere europei, sedevano in cima a questa gerarchia etnica, con gli “indios” (indiani) in fondo e i “negros” (figli di africani), spesso anche se non sempre associati agli “esclavo”, ma che occupavano i gradini più bassi. Nel mezzo vi era una vasta e sconcertante serie di “castas” (etnie miste) che includevano “mestizo, coyote, lobo e mulato”, l’ultimo occasionalmente associato agli “esclavo”. Con il passare degli anni, man mano che il numero degli indiani diminuiva nella prima metà del secolo, aumentava il numero dei “meticci” e di altri “casta”. Il Nicolás de Lafora, facente parte degli Ingegneri Reali, riferiva che la comunità era composta esclusivamente da famiglie “meticce” e “mulatte”, “comprese quelle della compagnia.


Il “sistema de castas”


Una “Coyote”

Un ultimo gruppo, tuttavia, si aggiunse al mélange etnico di Janos, erano “Apaches, Janos e Chiricahuas” che, non soltanto incorporarono gli originari nativi della regione, ma giunsero anche ad aggiungere membri dell’altra categoria tramite la prigionia poiché entrambi avevano creato le loro comunità di confine. L’aggiunta forzata di Apaches adulti nella comunità di Janos non era sconosciuta, ma era comunque rara. I prigionieri maschi adulti erano pericolosi e spesso venivano uccisi sul campo, se fossero stati restituiti al Presidio, avrebbero trovato molto più facile fuggire e tornare fra la loro gente, a meno che non lo fossero costretti in qualche modo. La comunità di Janos preferiva incorporare i bambini catturati come prigionieri, ma battezzati e cresciuti nelle famiglie come servi, come evidenziato dai risultati di una campagna del 1723. I rapporti missionari – tra il tardo XVII e la metà del XVIII secolo -, annotavano la bellezza di 134 battesimi di indiani Apaches, senza però documentare i loro parenti, molto probabilmente anch’essi Apaches. La pratica dei Chiricahuas con i prigionieri ispanici non era molto diversa da quella di Janos. Gli uomini, quando venivano catturati, venivano solitamente interrogati e poi uccisi; se i maschi ispanici venivano fatti prigionieri e portati al campo, era perché le donne potessero vendicarsi dei loro parenti morti. Questo non era certamente un combattimento leale, con le mani legate il prigioniero doveva affrontare donne armate di coltelli e lance, oppure erano appiedati con le donne a cavallo.

Si trattava chiaramente di una esecuzione atta a restituire un senso di equilibrio morale alla comunità, “gli uomini adulti”, ricordava un Chiricahua, “non venivano mai tenuti in vita per poi potersi sposare all’interno della tribù o ridotti in schiavitù”, perché “questo uomo maturo è pericoloso”, e quindi veniva “ucciso”. Anche le donne ispaniche venivano “raramente prese”, soprattutto se gli uomini erano in cerca di vendetta.


India Loba

In una tarda primavera, nelle vicinanze di Janos, un gruppo guerriero uccise due donne e un bambino, poi sepolti come “morti per mano del nemico”. Quando i guerrieri catturavano le donne, “non facevano nulla con loro”, per timore di infrangere il tabù contro il sesso durante il raid inoltre, dopo averle riportate al campo, i Chiricahuas insistevano, “le donne prigioniere non devono essere sessualmente maltrattate”. Sarebbero entrate “benvenute” nella comunità come mogli, ma soltanto “se riesci a farti amare da lei”.


India Mestiza

Dal momento che i Chiricahuas contrapponevano il loro comportamento a quello degli ispanici, che “lo facevano (stupravano) ogni volta che prendevano donne indiane”, è possibile che alcuni uomini apache abbiano rischiato di costringerle a diventare prigioniere. Mentre né gli uomini, né le donne, erano considerati prigionieri per i Chiricahuas, i bambini lo erano, specialmente i maschi. I guerrieri “cercavano sempre di catturare un ragazzo”, senza preoccuparsi di prendere “donne e persone anziane” o bambine; un Chiricahua ricordava che solo i ragazzi venivano portati a vivere nella comunità. I percorsi di vita di questi prigionieri ispanici tra i Chiricahuas erano inizialmente simili a quelli dei prigionieri apache a Janos: agivano come servitori di famiglia ma, col passare del tempo, questi “ispanici deculturati” diventavano membri della comunità quando la “sensazione di prigionia” svaniva completamente, anche se le loro radici non sarebbero mai state dimenticate. Allevato dall’uomo che lo aveva catturato, il prigioniero iniziava a chiamarlo “padre”, e la donna che lo adottava “madre”. Alla fine questi giovani si sarebbero sposati nella comunità e i loro figli accettati come Chiricahuas. Nel frattempo, gli scontri si intensificarono e le scorrerie furono all’ordine del giorno, subito seguite dalle controffensive militari spagnole. La presenza di tanti altri ispanici tra i popoli Uto-Aztechi nella regione di Casas Grandes avrebbe portato allo scoppio di un’altra ribellione indiana. Questa volta i profughi non avevano un posto dove andare e resistettero valorosamente, contrattaccando e infine formando una “comunità di guarnigione” quando la corona autorizzò la costruzione di un Presidio, inizialmente a Casas Grandes, e successivamente a Janos.

In questo ambiente migrarono gli Apaches Chiricahuas, cercando di ristabilire i legami nel commercio dei cavalli con i loro cugini Apaches delle Pianure. Con molti dei loro maschi adulti persi nei combattimenti, i popoli Janos, Sumas, Chinarras e Jocomes, senza dimenticare i Mansos, gravitarono verso gli Apaches per proteggersi e approvvigionarsi. I Chiricahuas li accolsero con grande entusiasmo, specialmente “prendendo le loro donne come mogli”, e forse per questo, “il tutto sommato alla stanchezza generale”, altri indiani ribelli cercarono la pace con gli spagnoli, molti dei quali si stabilirono a Janos. Questi indiani sarebbero entrati nella comunità in base agli elenchi battesimali e ai risultati di regolari matrimoni misti, mentre i Chiricahuas e i gruppi genericamente chiamati “Janos” si sono aggiunti alle loro comunità prendendo prigionieri, in particolare bambini, cosa che d’altronde succedeva anche dall’altra parte. Entrambi avrebbero favorito la loro mescolanza allevando questi prigionieri deculturati come membri delle proprie comunità, opposte alla comunità della loro nascita. In definitiva, Janeros e Chiricahuas “erano imparentati, almeno a livello genetico”. Ciò, tuttavia, avrebbe “soltanto aumentato la paura di entrambe le comunità di poter essere distrutte e incorporate nell’altra”, cosa a cui avrebbero giornalmente assistito a livello individuale. L’insicurezza e il sospetto endemico creati dalla paura sarebbero comunque rimasti.


Presidios Chihuahua

All’inizio del XVIII secolo i funzionari spagnoli riconobbero la necessità per Janos di essere una comunità violenta che doveva “punire” quei gruppi Apaches “che attaccavano continuamente i loro confini”. Poiché i tentativi di convincerli ad esser pacifici fallirono miseramente, “… sono necessarie incursioni delle truppe nel loro territorio per guadagnarsi il loro rispetto”. Tuttavia, i Chiricahuas avevano capito la situazione in modo totalmente diverso.

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