Il trombettiere di Custer e la verità su Little Big Horn

A cura di Raffaele Di Stasio

Giovanni Martini e il Tenente W. Cooke
La neve cadeva nell’oscurità e le strade di Brooklyn, bianche e irrequiete, si affollarono di ricordi. Dietro i vetri della finestra Giovanni aspettava i suoi con gli occhi stretti, pronto a domarne i sussulti che ancora scuotevano il suo animo esausto.
“Arrivano,” pensò Giovanni, “mo arrivano…”.
Non gliene erano rimasti molti di ricordi, ma sapeva che quei pochi sarebbero spuntati da un momento all’altro, magari camuffati da persone comuni, come quei tre che giusto in quel momento attraversavano la strada ridendo, stringendosi nelle braccia per il freddo. E se così fosse stato, se quei tre giù in strada fossero stati davvero i suoi ricordi, allora Giovanni si disse che quella sera sarebbe arrivata pure la resa dei conti con la memoria, una catarsi incagliata che non cessava di assillarlo e da più di quarant’anni gli portava gente in casa, ceffi ottusi e arroganti che facevano sempre la stessa domanda…
«Signor Martini, ci dica com’è andata, ci racconti la verità. Coraggio, signor Martini, un’ultima volta, poi non la disturberemo più».
Giovanni aveva sessantanove anni, era stanco di raccontare la verità, avrebbe preferito cucirsi la bocca con un fil di ferro. Inoltre, la verità che gli veniva chiesto di raccontare non era mica la stessa che lui si portava dentro da tutto quel tempo, come un torso nero dimenticato nello stomaco. Ma quei brutti ceffi, che poi erano giornalisti, insistevano, e alla fine lui doveva per forza rispondere.
«La verità la conoscete meglio di me. Avete studiato i fatti, avete letto i documenti, avete parlato con gente importante. Io che posso dirvi di più?».
«Lo sa bene cosa può dirci, signor Martini. Sia gentile, ci faccia un regalo: visto che domani è Natale, ci dica la verità».
«Ricevuto l’ordine, sono tornato indietro: ecco la verità».
«Sì, signor Martini, questo noi lo sappiamo. Ma prima di tornare indietro lei non vide il comandante dirigere il suo squadrone verso il guado? Questo ce lo deve dire, signor Martini, questo lei lo sa! E poi, qual era esattamente il messaggio?».
«Me lo scrisse il tenente Cooke su un pezzo di carta, l’avete letto mille volte, l’ha letto tutto il mondo quel messaggio!».
Un ritratto di Martini
«Certo, signor Martini, tutti abbiamo letto quel pezzo di carta. Ma vorremmo sapere le parole esatte del comandante».
Giovanni sapeva bene dove volevano andare a parare, quelli, iniziavano a tremargli le mani quando facevano così, avrebbe voluto prenderli quanti ne erano e sbatterli fuori a calci nel culo. Ma succedeva sempre, a quel punto, che gli scoppiava in testa la voce secca del comandante: “Trombettiere!”.
«Le parole esatte, signor Martini…».
“Sì, signore!”.
“Tornate indietro, dite al capitano Benteen di correre qua. Ditegli che abbiamo trovato un grosso villaggio e che porti altre munizioni, avete capito bene?”.
“Sì, signore!”.
Ma Giovanni non era mai sicuro di capire bene. Era poco tempo che lui stava in America, la lingua non la dominava ancora, s’imbrogliava. Però una cosa l’aveva capita: davanti al comandante non bisognava esitare. Prese il messaggio, che il tenente Cooke, conoscendolo, gli aveva trascritto su un foglio, e partì al galoppo.
«In quel momento, signor Martini, mentre si allontanava, non vide il comandante dirigere verso il guado?».
Il generale Custer
«Forse, è possibile, non mi ricordo».
«Dunque, secondo lei, il comandante diede l’ordine di scendere verso il guado, è così?».
«Lo sa il Padreterno se diede quell’ordine! Io mi diressi più veloce che potevo verso il capitano Benteen. Poi, sulla strada, quando arrivai al punto dove gli squadroni si erano separati, vidi la valle piena di quei selvaggi che urlavano come cani. Anche se i nostri, quelli rimasti col maggiore Reno, gliele stavano suonando».
«Riguardo a questo, signor Martini, al processo non dichiarò di aver avuto l’impressione che la linea del maggiore Reno stesse arretrando?».
«Là non si capiva niente. Io spronavo il cavallo e quello andava ventre a terra. Però vidi la valle, e i nostri che tenevano duro, doveva essere un’accisaglia terribile. E poi, mentre andavo, sono sbucati quattro o cinque di quei selvaggi: le pallottole mi hanno fischiato nelle orecchie e il cavallo ha preso a correre peggio di prima, non lo potevo tenere. Ma perché non ve ne andate? Lasciatemi in pace!».
«Un’ultima cosa, signor Martini, poi ce ne andremo: quando raggiunse il capitano Ben-teen, che cosa gli disse?».
«Consegnai il messaggio».
Il Tenente William W. Cooke
«E quando il capitano Benteen gli chiese dove si trovava il comandante, lei cosa rispose?».
Sempre là andavano a parare, quelli. Lo costringevano a umiliarsi, a confessare di aver usato parole sbagliate, a dire che lui la lingua non la capiva bene.
«Che c’erano degli indiani, questo risposi».
«Ma come disse esattamente, signor Martini, che gli indiani si erano nascosti, o che si erano imboscati?».
Giovanni diventava rosso di rabbia: «Ma che ve ne fotte a voi!» urlava con tutta la faccia. «Erano cani selvaggi: nascosti, imboscati, che differenza deve fare?! Lasciatemi in pace, uscite da casa mia, uscite!».
I giornalisti se ne andavano ridendo, così com’erano arrivati, e Giovanni sbatteva la por-ta; poi tornava accanto alla finestra, e restava lì a rimuginare.


Il famoso biglietto consegnato a Martini

Gliel’avrebbe voluto dire, al capitano Benteen, che giù nella valle il maggiore Reno sembra-va in difficoltà, e che gli indiani verso cui stava dirigendo il comandante forse stavano tutti nell’accampamento, un oceano di tende che toccava l’orizzonte. Ma non riuscì a spiccicare una parola perché il capitano Benteen gli fece vedere la fortuna con gli occhi, mostrandogli il sangue sul mantello del cavallo: due buchi teneva l’animale, sotto il collo, ancora un miglio e stramazzava. Giovanni non ci poteva credere che il destino si era dato da fare in quel modo per salvare la vita solo a lui. Sì, perché, non fosse stato lui, quel giorno, il trombettiere d’ordinanza, non avrebbe ricevuto l’ordine di tornare indietro col messaggio, e sarebbe rimasto a crepare assieme al comandante e a tutti gli altri, perché quel giorno creparono tutti, fu una cosa mondiale. E se il cavallo non avesse retto, se quei selvaggi avessero avuto la mira precisa, manco ci arrivava dal capitano Benteen, e il messaggio andava a farsi benedire, diventava carta morta come lui, l’unico cristo che si era salvato perché il comandante gli aveva detto di tornare indietro, se questa è una vita che si deve vivere…
I pensieri smisero all’improvviso. Da dietro i vetri Giovanni sentì che il silenzio aveva irrigidito le strade. Il cielo era diventato una lastra di metallo, ma la Stella del Mattino avrebbe presto scacciato i ricordi e l’oscurità.
“Arriva,” pensò Giovanni, “mo arriva”.


La fase finale della battaglia di Little Big Horn

Il racconto prende spunto dalla battaglia di Little Bighorn, 25 giugno 1876, dove morì il “generale” Custer con tutti i suoi uomini, tranne uno, il trombettiere Giovanni Martini, alias John Martin, un emigrante italiano che dai documenti militari statunitensi risulta nato a Sala Consilina, Salerno, nel 1853; arruolatosi nell’esercito degli Stati Uniti nel 1874, Giovanni Martini si congedò nel 1904, dopo trent’anni di servizio, e morì a Brooklyn la vigilia di Natale del 1922. La documentazione è tratta da G. Stefanon, Uomini bianchi contro uomini rossi 1830-1890, Mursia, Milano 1985-1987, pp. 224-292, 430; Id., Il Figlio della Stella del Mattino. Vita del generale George Armstrong Custer, Mursia, Milano 1992, pp. 222-258.

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