Il cinema western e non di “Bloody” Sam Peckinpah

A cura di Domenico Rizzi
Sam Peckinpah, un cognome difficile e un personaggio altrettanto problematico, un regista sommariamente liquidato dalla critica come “apostolo della violenza”, un tema che caratterizza la maggior parte dei suoi film, facendolo accostare, talvolta in maniera azzardata, ai colleghi che diedero vita al western italiano, oppure agli americani come il Kubrik di “Arancia meccanica”. Violenza sì, indubbiamente, ma le considerazioni non possono certo fermarsi qui, altrimenti si peccherebbe di superficialità. In quest’ottica, di un’analisi critica più profonda e di una valutazione globale meno prevenuta, si colloca il libro “Il cinema western e non di ‘Bloody’ Sam Peckinpah” di Stefano Jacurti, scrittore, saggista, regista cinematografico e attore noto alla maggior parte dei cultori del western. Fra le sue opere, il romanzo “Bastardi per stirpe”, “l’antologia di racconti “Western Sex Rock and Horror” e il più recente “Appunti sulla Guerra Civile Americana”. Insieme a Emiliano Ferrera, Jacurti ha diretto e interpretato i western “Inferno Bianco” e “Se il mondo intorno crepa”, dedicandosi con passione anche al teatro.
“Il cinema western e non di ‘Bloody’ Sam Peckinpah” è un saggio completo e originale dedicato alla biografia e alle opere del più criticato cineasta di Hollywood. Il libro è ben corredato di materiale fotografico, ricchissimo di citazioni e brani di interviste originali. Jacurti sviluppa una sintesi efficace del pensiero e del carattere del personaggio, rivelando i retroscena, sconosciuti al pubblico, che hanno accompagnato e spesso interrotto la lavorazione dei suoi film.
Fin dalle prime pagine l’autore rifugge dai giudizi aprioristici dettati da frettolose considerazioni, scoprendo l’evoluzione di Peckinpah dall’infanzia all’adolescenza, dai primi passi nel teatro all’attività cinematografica degli esordi, esaminando a fondo e con competenza – Jacurti conosce bene anche la storia del West, sulla quale non tutti i critici possiedono una preparazione adeguata – sia la filmografia western che quella di altro genere, spesso idealmente riconducibile al cruento contesto della Frontiera.
Dopo il primo, mediocre risultato di “La morte cavalca a Rio Bravo” (“The Deadly Companions”, 1961) realizzato da un canovaccio piuttosto misero con l’interpretazione di Brian Keith e Maureen O’Hara, “Bloody Sam” (Sam il Sanguinario) pone le basi delle sue future creazioni; come sottolinea appropriatamente Jacurti, il film contiene già “tutti gli indizi del “dirty western” nei tre personaggi maschili…basterà aspettare per raccogliere i frutti: teste scalpate e la vergogna di mostrarle, tentativo di stupro, una donna importante che…ha tutto meno il carattere della donzella in pericolo, il vincente di una guerra che vagabonda fra i perdenti, l’impiccagione che apre il film.”
“Sfida nell’alta Sierra” (“Ride the High Country”, 1962) girato con economia di risorse nello spazio di qualche miglio quadrato, rivela molto di più sulla natura del regista, pur riproponendo la tesi degli sconfitti già contenuta nel precedente esperimento. In questo film crepuscolare, nel quale “l’invecchiato e solitario Steve (Joel Mc Crea) si barcamena con dei lavori occasionali”, l’attempato Gil Westrum (Randolph Scott) tira a campare “truccato come un Buffalo Bill di bassa lega…nel luna park di una città dove si organizzano corse grottesche per la presenza dei cammelli oltre che dei cavalli” (Jacurti) due uomini, entrambi ex tutori della legge, sono costretti a sopravvivere alla fine di un’epopea gloriosa, senza un soldo in tasca né prospettive per il futuro. Il pessimismo di Peckinpah si potrebbe dedurre dalla disonestà con cui Gil tenta di sottrarre il carico d’oro al collega Steve, ma il disonesto si ravvede in tempo e il modo con cui i due amici mandano all’aria il matrimonio della giovane Elsa (Mariette Hartley) con un farabutto, che intende concedere la sposa ai suoi debosciati fratelli, rivela un sostrato di onestà che non è mai svanito del tutto.


Sam Peckinpah

“Sfida nell’alta Sierra”, scrive ancora Jacurti “ha molte cose in comune con ‘Il pistolero’ di Don Siegel”, magistralmente interpretato da giganti quali John Wayne e James Stewart, entrambi al tramonto non solo nella finzione cinematografica. Tuttavia il film non fu gradito alla produzione, che lo classificò addiritttura come “il peggiore mai visto”. Secondo il parere dell’autore, pienamente condivisibile, è invece un autentico capolavoro, sebbene realizzato con quattro soldi, ma purtroppo incompreso da una Hollywood ostile e poco incline ad accettare le novità. Per fortuna, tardivamente riconsacrato trent’anni dopo.
Neppure “Sierra Charriba” (“Major Dundee”, 1965) che ottenne grande successo di pubblico, ebbe vita facile, ma questa volta Peckinpah ne uscì vittorioso, perché la gente espresse un alto gradimento. E’ un’altra storia che esalta la dignità, il coraggio e l’amicizia virile, questa volta fra due nemici sul campo (il maggiore nordista Amos Dundee, un Charlton Heston in piena forma e il capitano sudista Tyreen, interpretato da Richard Harris) mentre gli Apache razziatori del capo Sierra Charriba fungono da mero pretesto all’azione, così come marginali appaiono i lancieri francesi che difendono il Messico di Massimiliano d’Asburgo. Il personaggio centrale è quello di Dundee, un uomo tormentato e introverso, che coltiva sogni revanscistici più verso se stesso che contro gli altri, ma la mano dei produttori non consente di approfondire l’analisi psicologica ritenuta indispensabile da Peckinpah come dallo stesso Heston.
Con “Cincinnati Kid” il rapporto di Sam con la produzione si interrompe quasi subito con un licenziamento. Ormai Peckinpah è famoso nel mondo del cinema per le sue spigolosità di carattere, le intemperanze – beve fin dai tempi del liceo e fuma accanitamente – e la tendenza a volersi imporre ad ogni costo nelle sceneggiature, debordando sovente da ciò che gli viene richiesto.
David Samuel Peckinpah discende dai pionieri che si stabilirono nella San Joachin Valley della California a metà dell’Ottocento, ma lui si inventa una nonna pellerossa mai esistita, facendo prendere la notizia per buona da critici e biografi. La sua famiglia – il nonno materno, il padre, il fratello – erano tutti amministratori della giustizia, dei quali Sam non ha mai voluto seguire le tracce, perché attratto da altri interessi. “Da piccolo” raccontava in un’intervista “avevo un’adorazione per il personaggio di Calamity Jane e un giorno la nonna mi disse di averla conosciuta.” ((Valerio Caprara, “Sam Peckinpah”, Il Castoro Cinema, 1978, p. 27). Di qui l’amore sviscerato per il western e la malinconica constatazione dell’inevitabile declino della Frontiera, soffocata da un progresso sempre più invasivo e trasformata in leggenda da letteratura e cinema. “Quando Sam passò dall’infanzia all’adolescenza” annota Jacurti “capì che il West era stato sì avventuroso, ma anche brutale”, un’influenza che condizionerà quasi tutti i suoi film futuri. Va comunque ricordato che durante il secondo conflitto mondiale l’uomo aveva servito nei marine di stanza in Cina ancora parzialmente occupata dai Giapponesi, assistendo a uccisioni, stupri e torture di ogni genere. Per questo affermava polemicamente “Tutti mi vogliono inchiodare alla violenza. Pensano che l’abbia inventata io.” (Caprara, op. cit., p. 16)
Agli esordi il giovane Sam si era occupato per un po’ di teatro, indotto a tale passione dalla fidanzata, divenuta poi la prima moglie, Marie Selland, che lo renderà padre quattro volte. Passato, non senza enormi difficoltà, al cinema, dopo il fiasco di “La morte cavalca a Rio Bravo” e “Sida nell’alta Sierra”, si accinse a quello che sarebbe stato il suo più grande esperimento, quando due produttori della Warner Bros gli fecero una proposta interessante, basata su una sceneggiatura di Walon Green. “’Il mucchio selvaggio’ (“The Wild Bunch”, 1969) il film che stava per nascere, non era una storia sulla nascita del West e nemmeno sulla Frontiera del 1870, era la descrizione della sua fine…” (Jacurti) così come lo è nel quasi contemporaneo “C’era una volta il West” di Leone.
Lo scenario, che prende il via da una rapina compiuta nel Texas, si sposta ben presto nel Messico assolato e turbolento, dove le rivoluzioni si susseguono a ritmi incalzanti per lasciare le situazioni come le hanno trovate, sostituendo semplicemente un dittattore ad un altro. L’epoca è il 1913, quando gli Stati Uniti sono già un paese molto avanzato e le terre a sud del Rio Grande mostrano segni di un’atavica arretratezza che nessuna riforma e nessun conflitto riusciranno a modificare. “Le rivoluzioni” dichiara il regista “partendo da nobili ideali finiscono spesso in catastrofi immani.” (Caprara, op. cit., p. 14).
Pike Bishop (William Holden) e la sua banda di fuorilegge rifugiati, cercano scampo in una regione dove ancora si combatte e si muore, nella quale nessuno sa mettere la parola fine ai soprusi, alle uccisioni, allo sfruttamento commessi a danno dei peones. I banditi aggiungeranno morti alla carneficina, ma la strage finale è determinata da un’impennata di orgoglio dei gringos, che decidono di immolarsi per una giusta causa: liberare e salvare il loro amico Angel, imprigionato e orrendamente torturato dai Messicani. Quattro uomini, tutti yankee – Pike, i fratelli Gorch (Ben Johnson e Warren Oates) Dutch (Ernest Borgnine) – eseguiranno la mattanza, sterminando l’intera armata di Mapache e lasciando le proprie vite sul terreno impregnato di sangue.
Anche il successivo western di Peckinpah è incentrato sull’inesorabile declino della Frontiera, benchè l’azione sia assai meno cruenta. In ”La ballata di Cable Hogue” (“Cable Hogue”, 1970) il personaggio intepretato da Jason Robards non è altro che un relitto umano, al quale il destino offre un ultimo, illusorio sogno di riscatto: la possibilità di aprire una stazione di sosta per le diligenze e le persone in transito in un luogo desertico in cui ha scoperto una preziosa sorgente d’acqua. Una sorte beffarda farà sì che l’uomo perisca sotto le ruote di un’automobile, l’invenzione che spazza via i residui di un mondo in rapida trasformazione: “un fortissimo simbolismo” commenta Jacurti “per un uomo che era sopravvissuto ad un inferno.”
Nel film non vi sono sparatorie né sequenze eccessivamente sanguinose, anzi è il tenero sentimento di Hogue per un’ex prostituta, la bella Hildy (Stella Stevens) a dominare la vicenda. Peckinpah sembra essersi acquietato dopo le immagini di morte di cui era saturo il suo precedente lavoro, ma il risultato ai botteghini è piuttosto deludente e finisce per farlo inbufalire: “Mi hanno sempre criticato per il fatto che i miei film sono molto violenti, ma quando ne giro uno senza una sola scena di violenza, nessuno si prende la briga di andarlo a vedere.”
In “Cane di paglia” (“Straw Dogs”, 1972) la violenza è latente in un professore mansueto dai saldi principi democratici come pure in una donna frustrata e masochisticamente disposta ad essere abusata sia da un ex fidanzato che dal suo amico. Come prevedibile, il film scatenò un’ondata di polemiche sulla stampa: molti giornali lo definirono ”depravato, misogino e fascista”, qualcuno lo salvò ma le femministe lo attaccarono duramente per il comportamento accondiscendente di Amy (Susan George) che sembrava assecondare una certa concezione maschilistica del sesso.
Prima ancora che si spegnessero le critiche, Peckinpah stava già pensando ad altro, cimentandosi questa volta con le proprie origini remote nella realizzazione di un contemporary western – “L’ultimo Buscadero” (“Junior Bonner”, 1972) – che ha l’amaro sapore dei ricordi cancellati da un progresso irriverente quanto inarrestabile.
Il cowboy vagabondo Junior Bonner (Steve Mc Queen) torna nella natia Prescott, Arizona, per partecipare ad un rodeo, dove ha un conto aperto con il toro Sunshine che lo ha reso zoppo. Nel frattempo suo fratello Curly (Joe Don Baker) ha venduto le proprietà di famiglia per consentirne la lottizzazione e la costruzione di un villaggio turistico, affare che gli ha già fruttato un milione di dollari. Dalla parte di Junior vi è il padre Ace (Robert Preston) che sogna di emigrare in Australia per fare il cercatore d’oro come ai tempi del vecchio West. Dopo la vittoria nella gara, il protagonista pagherà infatti al genitore il viaggio verso la terra dei canguri per regalargli l’estrema illusione di un mondo che sta svanendo, lasciando poi la cittadina per andare a cimentarsi con tori e cavalli in altri luoghi. “La madre (Ida Lupino) finge di dormire quando Junior riparte…Gli occhi di Elvira sono pieni di saggezza, tenenezza e dignità e si bagnano pensando ad Ace da cui è separata senza fare scenate.” (Jacurti) E’ il simbolico epilogo di un West rimasto i vivo soltanto nei ricordi di un tempo trascorso. Per inciso, Peckinpah è tornato a girare un film “pacifico”, a parte la classica scazzottata nel saloon, dove anche i due fratelli Bonner se le suonano. E’ certamente vero quanto riportato nel libro, che “il pubblico apprezzò il film dopo anni ed oggi si può ben dire che se ‘L’ultimo Buscadero’ cercava il fascino della malinconia e del crepuscolo attraverso un cowboy anacronistico e senza speranza, alla fine lo ha sicuramente trovato.” (Jacurti)
Dopo l’intermezzo di “Getaway”, girato lo stesso anno sempre con Mc Queen e la bellissima Ali Mc Graw – una storia che rammenta le spericolate scorribande di Bonnie Parker e Clyde Barrow – Peckinpah si accolla un impegno tutt’altro che facile, quello di parlare di Pat Garrett e Billy the Kid, argomento già affrontato più volte dal cinema.
La MGM mette a disposizione del regista un discreto budget, che gli consentirà, pur fra dissidi e scontri, di portare a termine il lavoro, interpretato dal cantante Kris Kristofferson (un Billy Kid un po’ troppo bello per essere del tutto credibile) e dal collaudatissimo James Coburn, nelle vesti dello sceriffo Garrett. L’accompagnamento musicale porta il nome di di Bob Dylan, che riveste un ruolo anche nel film. Una delle scene più belle è lo scontro in cui viene ucciso un uomo della legge. “Quando ascoltai ‘Knockin’ on Heaven’s Door’ durante la scena della morte dello sceriffo Pickens” raccontò Kristofferson “mi fece impazzire. Era perfetta. E’ una delle scene più belle della storia del cinema” (Jacurti). E’ proprio il supporto di una colonna sonora fuori dal comune il punto di forza di questa produzione e il motivo citato ne costituisce l’indimenticabile leit motiv destinato a fare il giro del mondo. La storia è quella che tutti gli appassionati del West conoscono: il Kid viene ucciso di notte sotto un porticato di Fort Sumner, New Mexico, da un colpo al cuore sparato a tradimento dalla pistola di Garrett, un finale assai diverso dal decantato “Furia selvaggia” diretto da Arthur Penn nel 1958. La differenza è che Peckinpah ha un’ottima preparazione storica sul West, cosa che fa difetto a tanti altri registi, compresi i quotatissimi Penn e John Ford. Citando le parole di Monte Hellman “ciò che lo rendeva unico come regista di western era la sua straordinaria conoscenza della vita di frontiera, come nessun altro.” (Jacurti)
“Pat Garrett e Billy Kid” costituisce l’apice della produzione western di Peckinpah, che con questo successo chiude l’argomento, lasciando aperta una parentesi su “Voglio la testa di Garcia” (1974) ambientato in epoca moderna oltre confine. Le motivazioni del regista somigliano a quelle che saranno riprese dal romanziere Cormac Mc Carthy in “Cavalli selvaggi”: miseria, gente diseredata, ma anche semplice e genuina nei suoi comportamenti. Ovviamente violenza e sadismo non mancano in questo come nei film diretti successivamente – “Killer Elite”, “La croce di ferro”, “Convoy” e “Osterman Weekend” – ma, come si è detto in precedenza, questo è soltanto uno degli aspetti del carattere di Peckinpah, che stentava, sostiene la figlia Lupita, a separare il contesto delle sue pellicole dalla vita reale e proprio per questo “ha messo il cuore e l’anima nei suoi film.” (Jacurti)
Il discusso regista ha lasciato questa terra anzitempo, nel 1984 all’età di 59 anni, quando aveva ancora diversi progetti nella testa. La sua vita sregolata – fumo, alcol, droghe – è senz’altro alla base della fine prematura che l’uomo non accettava, perché da oltre un anno si era disintossicato, ma nessuno può sfuggire alla propria sorte.
Fra le tante critiche a lui rivolte, le dissacrazioni talvolta forsennate, le accuse di esagerato ricorso alle scene truculente, vale la pena di ricordare uno dei sintetici giudizi espressi da Stefano Jacurti, che “Peckinpah non è stato solo bloody, ma anche solo Sam, con film lontani da massacri ma ugualmente validi”. E’ vero che “perse il match con le produzioni che gli tagliavano i film” ma “se si fosse piegato, o se fosse stato più morigerato, probabilmente non sarebbe stato lui.”

Titolo: Il cinema western e non di “Bloody” Sam Peckinpah
Autore: Stefano Jacurti
Editore: I Libri di Emil
Pagine: 240
Rilegatura: Brossura leggera
Prezzo: 20,9€ (Mondadori Store) e 22€ (Amazon)

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