Pennsylvania 1763, la battaglia di Bushy Run

A cura di Renato Ruggeri

Infuria la battaglia a Bushy Run
Bushy Run Station, Pennsylvania, 5 agosto 1763.
I guerrieri Indiani sedevano, impassibili, nel denso sottobosco della fitta foresta.
Il coraggio, la dignità, la pazienza e il self control erano le qualità più apprezzate da tutti i “Woodland Indians“.
Erano uomini audaci, forti e spietati vestiti solo con mocassini, gambali di daino e perizoma.
I loro corpi erano tatuati con disegni geometrici, figure di uccelli, serpenti e altri animali, le loro facce erano dipinte in vari colori ma, soprattutto, in rosso e nero, i colori della guerra e della morte.
I guerrieri sbirciavano attraverso il fogliame stringendo i moschetti calibro 69 comprati dai mercanti o di provenienza francese. Alcuni, ma non molti, erano armati con arco e frecce.
I loro occhi scuri erano quasi immersi negli zigomi sporgenti. Le teste erano completamente rasate ad eccezione di un ciuffo sulla sommità del cranio decorato con piume, treccine e strisce di perline colorate. Alcuni guerrieri portavano i capelli lunghi sull’occipite.
I pendenti al naso, gli orecchini, gli amuleti e i ciondoli di argento e ottone completavano il loro ornamento.
Molti portavano i coltelli da scalpo al petto, in un fodero appeso al collo. I corni della polvere e le borse da caccia dipinte erano legate a strisce di pelle che cingevano le spalle, i tomahawks erano infilati nelle cinture.
Sedevano lungo il pendio di una collina su entrambi i lati di un sentiero. La pista proveniva da est. Scendeva da una collina, si immergeva in una piccola valle e poi saliva verso la loro posizione.
La strada non era altro che uno stretto sentiero che era stato tagliato a colpi d’ascia attraverso la foresta cinque anni prima.
Gli alberi, querce e castagni, troneggiavano sulla pista e formavano, con i rami e le foglie, una specie di baldacchino che ombreggiava il sentiero, rendendo più sopportabile la calura e l’umidità di quel giorno d’agosto.
Una leggera brezza faceva ondeggiare le creste rosse di pelo di cervo dei Mingo, i ciuffi di capelli degli Shawnees. le piume multicolori dei Wyandots, le code di lupo degli Ottawas mentre i superstiziosi Delawares stringevano in mano il loro amuleti formati da denti d’orso, sonagli di serpente, becchi di civetta e artigli di falco.
Gli Indiani potevano già sentire il rumore dei passi e lo scalpiccio degli zoccoli prima che gli uomini bianchi fossero in vista.
L’avanguardia era preceduta da alcuni rangers che indossavano la casacca da caccia in lino. Questi esperti frontiersmen avanzavano in silenzio coi mocassini ai piedi, stringendo i fucili, mentre gli occhi scrutavano attentamente il sentiero che si dipanava davanti a loro.
Dietro i rangers camminavano una ventina di soldati di quella piccola avanguardia, comandata dal Lt James Dow.
Erano Highlanders, con le giubbe rosse e il kilt blu, verde e nero dei Black Watch. Si muovevano in formazione sparsa.
Sopra le facce arrossate dal sole e sudate, portavano il famoso “blue bonnet“, il berretto blu, sormontato da una striscia di pelle d’orso. Indossavano il kilt corto, il “little kilt”, e non il plaid completo, che avvolgeva tutto il corpo, fatto in lana scozzese con il tartan, e molti di loro calzavano gambali e mocassini al posto delle tradizionali scarpe nere in cuoio. Erano soldati stanchi, accaldati e assetati che avevano già marciato per 17 miglia quella mattina. Bushy Run Station e la sua sorgente si trovavano solo un miglio più avanti.
Il luogo non era fortificato, ma nel 1759 un colono di nome Andrew Byerly aveva costruito un trading post che serviva come punto di ristoro per coloro che viaggiavano da e verso Fort Pitt.
Con l’inizio della rivolta indiana, il trading post era stato abbandonato.
La meta era, ormai, vicina, ma i soldati erano vigili e stringevano i fucili pronti a farne uso.


La mappa degli eventi a Bushy Run

Essendo fanteria leggera, avevano preferito i tomahawks alle loro pesanti spade. Alcuni portavano, infilati nella cintura, la pistola e il pugnale delle Highlands chiamato dirk.
I rangers all’avanguardia annusarono il pericolo. I boschi erano troppo quieti, non si sentiva il cinguettio degli uccelli, ma non poterono individuare nessun segno dell’imboscata fino a quando il pacifico silenzio della boscaglia fu infranto da un colpo di moschetto sparato a meno di 30 passi.
Poi un muro di fiamme si levò dalla foresta quando gli Indiani aprirono il fuoco.
I rangers e alcuni soldati caddero a terra, gli altri corsero a ripararsi dietro gli alberi su entrambi i lati del sentiero. Iniziarono a rispondere al fuoco mentre una nuvola di polvere nera si addensava nell’aria calda dell’estate.
I guerrieri era pieni di entusiasmo e sparavano, ricaricavano e sparavano ancora, aggiungendo le terribili grida di guerra al caos della battaglia.
I loro esploratori avevano informato i capi sulla forza dell’esercito nemico, circa 500 uomini. Sebbene gli Indiani fossero meno numerosi, molti storici li stimano in 400 o meno, erano tutti esperti “forest fighters” convinti che i bianchi potessero essere facilmente sconfitti nei boschi.
Non molti anni prima l’esercito del Generale Edward Braddock era andato incontro al disastro a poche miglia da quel luogo. Ora gruppi di guerrieri stavano manovrando lungo i fianchi dell’armata nemica. Presto avrebbero intrappolato i soldati nella loro formazione di battaglia a mezza luna.
Non viene spesso sottolineato che i Woodland Indians, pur non essendo allenati in manovre tattiche in stile europeo, erano, però, guerrieri disciplinati e i loro capi ufficiali capaci.
I leaders indiani non sacrificavano inutilmente i loro guerrieri, ogni uomo era ritenuto indispensabile, a causa del numero insufficiente.
Erano abili, soprattutto, nell’uso di un sofisticato movimento ai fianchi del nemico da una posizione di partenza simile alla formazione a mezza luna usata dagli Zulu in Sudafrica. Avvolgevano il nemico in un arco mortale a forma di ferro di cavallo.
Il sistema di combattimento era chiamato “running fight”. Era un movimento di rotazione durante il quale un guerriero sparava, nascosto dietro a un albero, si spostava e ricaricava, mentre un altro guerriero prendeva il suo posto, sparando a sua volta, In questo modo si manteneva l’intensità di fuoco e i guerrieri sembravano più numerosi di quello che, in realtà, erano.
Questa tattica era chiamata, anche “skulking way of war” per l’abilità dei guerrieri di nascondersi durante la battaglia.
Se caricati, gli Indiani si ritiravano, senza disonore, per poi ricompattarsi e tornare all’attacco.
Il Colonnello Henry Bouquet lo descrisse come “una specie di orizzonte di fuoco che si muoveva con te, ma non veniva mai troppo vicino, e ti seguiva dappertutto”.
Faceva parte della stessa tattica non circondare in modo completo l’avversario ma lasciare uno spazio libero, un corridoio aperto che invitava alla fuga. Il nemico, in preda al panico, veniva, poi, inseguito coi tomahawks, i coltelli da scalpo e le mazze da guerra.
Era un sistema di caccia alla selvaggina applicato alla guerra.
Si trattava di un modo di combattere molto diverso da quello degli Europei, che ammassavano gli eserciti in campo aperto, per poi decimarsi con scariche di fucileria. Nelle foreste questa tattica non funzionava, era perdente.
I nativi erano, anche, maestri nella guerra psicologica. Usavano il terrore per spaventare il nemico. La possibilità che un gruppo di guerrieri potesse apparire improvvisamente, attaccare e sparire era una costante minaccia alla frontiera.
Anche le pitture di guerra e i war whoops che gelavano il sangue servivano allo scopo. Le storie di torture e prigionia nelle mani dei selvaggi aumentavano l’effetto.
Ma in quel giorno d’agosto gli Indiani affrontarono un comandante nemico molto diverso da Braddock. Un uomo che non era trincerato dietro le strette e, a volte, ottuse traduzioni militari britanniche.
Un uomo che aveva la rara capacità, per quell’epoca, di avere una mentalità flessibile.
Quel giorno gli Higlanders erano guidati dal Colonnello Henry Bouquet.
Bouquet era uno Svizzero nato a Rolle, nel Canton Vaud nel 1719, da una famiglia benestante. Sin dall’adolescenza aveva intrapreso la carriera militare e si era arruolato, come cadetto, all’età di 19 anni, in uno dei reggimenti di soldati di professione che venivano ingaggiati dalle varie nazioni europee.
Era entrato, dapprima, al servizio degli Stati Generali d’Olanda. Due anni dopo aveva ricevuto una commissione come luogotenente. Aveva servito nell’armata di Sardegna durante la Guerra di Successione Austriaca e poi era stato promosso al grado di Lt Colonnello nel Reggimento di Guardie Svizzere del Principe di Orange.


Un indiano in osservazione

Aveva, così, allacciato buone relazioni con gli Inglesi e quando scoppiò, nel 1757, la guerra Franco Indiana gli fu proposto il grado di Lt Colonnello in un reggimento di nuova formazione costituito, espressamente, per il continente americano, il 60th Royal American Regiment.
Bouquet accettò l’incarico e fu inviato in America per reclutare i soldati tra i coloni di origine tedesca e svizzera che vivevano in Pennsylvania. Prese il comando del primo battaglione e scelse, come quartier generale, Filadelfia.
A differenza della maggior parte dei soldati Inglesi, a Bouquet piacquero gli Americani che, a loro volta, lo appezzarono.
Venne descritto come una persona paziente, gentile e intelligente, anche se un po’ austera. Sosteneva, infatti, che preferiva essere più rispettato che amato dai suoi soldati e ufficiali.
Bouquet era un uomo istruito, che scriveva in inglese meglio della maggior parte degli ufficiali Britannici di quel tempo.
Era, anche, un eccellente soldato, infaticabile e pieno di risorse, privo di quei pregiudizi arroganti che spesso limitavano l’efficienza di molti ufficiali Inglesi.
Aveva studiato in teoria e sul campo le tattiche di guerriglia usate dai nativi nelle foreste e sviluppato tattiche per adattare la disciplina europea a quella che chiamava “ la wilderness war”.
Aveva, così, allenato i suoi Royal Americans come una fanteria leggera capace di combattere in formazione sparsa servendosi della copertura dei boschi
Spesso, quando era necessario, attraversava passaggi stretti e pericolosi avanzando davanti ai suoi uomini, armato di fucile, insieme agli esploratori.
I combattimenti nella guerra Franco Indiana erano terminati, in gran parte, nel 1760 e la sconfitta della Francia aveva ancora di più acuito l’odio dei nativi verso i bianchi che invadevano le loro terre.
Il catalizzatore che unì le tribù contro gli Inglesi fu uno sconosciuto, fino a allora, capo Ottawa di nome Pontiac. Propose un attacco concertato contro tutti i forti britannici a ovest in una grande rivolta che avrebbe scacciato per sempre i bianchi oltre i monti Appalachi. Lo stesso Pontiac guidò gli Ottawas, i Wyandots, i Chippewas e i Potawatomi contro Fort Detroit. Il piano di conquistare il forte con l’inganno fallì e i suoi guerrieri furono costretti a un lungo assedio.
Altri forti non furono così fortunati. Infatti le uniche postazioni militari che non furono distrutte nei seguenti mesi furono Detroit, Fort Pitt, Fort Ligonier, Fort Bedford e Fort Niagara. Otto forti furono conquistati e molte fattorie, capanne e insediamenti furono bruciate.
Il numero di bianchi uccisi o fatti prigionieri a quel tempo fu stimato in 2000 o più.
Costruito tra il 1759 e il 1762 sulle “Forks of the Ohio”, il luogo dove sorgeva il vecchio Fort Duquesne, nel punto in cui i fiumi Monongahela e Allegheny, si univano per formare l’Ohio River, Fort Pitt era la più formidabile e elaborata fortificazione inglese in Nordamerica.
L’esborso totale della Corona, una volta terminata, fu di 100000 £, circa 20 milioni di euro.
I suoi bastioni erano costruiti in terra battuta e erba, “dirt and sod”, e sembravano emergere dal terreno stesso. Si preferì costruirlo in terra battuta invece che con tronchi di legno perché i forti edificati con questo materiale si erano dimostrati resistenti alla maggior parte delle cannonate e, se ben mantenuti, potevano conservarsi per un considerevole periodo di tempo.
Il perimetro totale del forte era di 17 acri. Aveva una forma pentagonale che gli conferiva un aspetto a stella. Gli Inglesi non temevano un bombardamento navale dai tre fiumi e, quindi, le mura adiacenti all’acqua erano, semplicemente, in terra battuta. Il lato a est, che dava direttamente sulla terraferma, chiamato Bastione dei Granatieri, era stato, invece, rinforzato con mattoni e pietre.
I bastioni erano alti circa 7 metri e avevano un’ampiezza, alla base, di 20 metri.
Fort Pitt era circondato da un fossato che si gettava direttamente nel fiume Allegheny. quando i fiumi esondavano, e succedeva di frequente, il fossato faceva defluire l’acqua, anche se si riempiva di fango.


Il maestoso Fort Pitt

Dopo la costruzione del forte, si era sviluppata, lungo il fiume Allegheny, una piccola comunità detta “ Lower Town”, circa 140 case, abitate da mercanti e artigiani con taverne e una scuola.
Secondo un ufficiale dell’epoca la vita nel villaggio non era regolata da leggi e l’alcool scorreva a fiumi.
In seguito gli abitanti più facoltosi avevano costruito un secondo insediamento, più distante dal fiume e leggermente in collina, una zona residenziale chiamata “ Upper Town “,
Il forte e i due villaggi formavano Pittsburgh.
Conquistare Fort Pitt con un assalto diretto era molto difficile. L’unica possibilità, per i nativi, era prenderlo con l’inganno o isolarlo, tagliando le comunicazioni con l’est.
Il forte era comandato da un mercenario Svizzero, il Capitano Simeon Ecuyer. La guarnigione era composta da 250 soldati che dovevano proteggere i 200 civili che abitavano il villaggio di Pittsburgh.
Nel mese di marzo un’inondazione aveva, parzialmente, distrutto i bastioni.
Quando la minaccia di un attacco indiano si fece imminente, Ecuyer ordinò di demolire la Lower Town e di bruciare l’Upper Town per non offrire nascondigli al nemico.
Fece, inoltre, “rattoppare” le mura sbrecciate con barili di whiskey pieni di terra, balle di pelli di daino, carri e con pezzi delle case demolite, panche, armadi, scaffali, colonne dei letti e tronchi delle pareti.
Ordinò di costruire piattaforme per i cannoni, fece mettere barili d’acqua sulle mura e vicino agli edifici del forte e istituì un corpo di pompieri formato dalle donne e dai bambini. I coloni, a loro volta, si organizzarono in una milizia il cui comando fu affidato a William Trent, un virginiano che si era, da tempo, stabilito alla frontiera.
Poi Ecuyer inviò un dispaccio al suo ufficiale superiore, Bouquet, che si trovava a Filadelfia, informandolo del pericolo e della scarsità delle provviste. Bouquet passò. a sua volta, l’informazione al Generale Jeffrey Amherst, il comandante delle forze britanniche in Nordamerica, che aveva il suo quartier generale a New York.
Nel frattempo, il 29 maggio, era iniziato l’assedio di Fort Pitt.


L’assedio di Fort Pitt

Il numero degli Indiani aumentò gradualmente fino a arrivare a una forza di circa 400 guerrieri, Delawares, Mingos, Shawnees e Wyandots.
Erano al comando di un capo di nome Guyasuta, mentre i suoi luogotenenti erano due Delawares, Turtle Heart e Shingas “ il terribile”.
I Seneca erano il gruppo Irochese che viveva più a occidente, nella Genesee River Valley, stato di New York.
Nel corso dei decenni alcune famiglie e clan si erano stabiliti nell’Ohio Country e, generazione dopo generazione, questi clan che si erano trasferiti in terra straniera furono conosciuti come Mingo e svilupparono una propria identità culturale e politica, entrando a far parte di una confederazione di popoli che gli storici chiamano gli “Ohioans”, formata da Delawares, Shawnees e Wyandots.
Guyasuta nacque in una famiglia Mingo. Cresciuto in mezzo a popoli differenti, divenne una figura centrale nella causa degli Indiani dell’Ohio.
Guyasuta non era un sachem, un capo per nascita, ma si guadagnò il rispetto e la stima dei suoi seguaci.
All’inizio del 1761 fu uno degli animatori dello spirito di ribellione contro l’oppressore inglese. Viaggiò fino ai Grandi Laghi e durante una grande assemblea tenuta vicino a Fort Detroit incontrò un capo Ottawa di nome Pontiac e strinse, con lui, un patto d’alleanza tra gli Ohioans e gli Indiani dei Great Lakes.
Pontiac
Il Generale Amherst, dapprincipio, sottovalutò le notizie che provenivano dalla frontiera. Il 6 giugno scrisse a Bouquet “Sono persuaso che l’allarme finirà in nulla. Fort Pitt e i forti comandati dai nostri ufficiali non possono essere messi in pericolo da un nemico così spregevole”.
A Staten Island, New York, erano accampati due reggimenti di Highlanders, il 42nd e il 77th, che erano tornati dalla campagna di Cuba contro gli Spagnoli
Amherst ordinò a due compagnie, una del 42nd e l’altra del 77th, comandate dal capitano James Robertson, di raggiungere Bouquet a Filadelfia.
Ma poi le notizie si fecero sempre più preoccupanti. Fort Detroit era sotto attacco. Amherst ammise che “il problema degli Indiani appare più serio di quanto mi aspettassi”.
Era anche preoccupato dello stato di salute degli Scozzesi. Erano ridotti di numero a causa della malaria che li aveva colpiti durante l’assedio dell’Havana. Scrisse il 12 giugno a Bouquet che le nove compagnie del 77th erano ridotte a non più di 80 uomini validi. E aggiunse “se pensi sia necessario, procedi verso Fort Pitt per ristabilire le comunicazioni e ridurre gli Indiani alla ragione”.
Col sopraggiungere di nuove, preoccupanti, informazioni Amherst ordinò a tutte le truppe accampate a Staten Island di raggiungere Bouquet. “Ho ordinato che tutte le truppe rimaste, 214 uomini del 42nd, compresi gli ufficiali, e 113 soldati, ufficiali compresi, del 77th, si mettano, domani, in marcia. Sono sotto il comando del Maggiore Allan Campbell”.
Erano le ultime truppe che Amherst poteva offrire, dal momento che doveva dividere le sue forze tra Fort Pitt e Detroit. “Ti ho inviato tutte le truppe che ho potuto raccogliere. Se anche l’intera razza indiana si rivoltasse, non potrei fare di più”. Terminò la missiva a Bouquet con la postilla “non voglio sentir parlare di prigionieri”.
Nel frattempo Bouquet aveva iniziato i preparativi per la spedizione.
A causa della mancanza di rifornimenti e polvere da sparo a Filadelfia, decise di acquistare provviste, farina, carri e munizioni dai mercanti lungo la via.
A Carlisle comprò 340 cavalli da soma e muli con selle, cavezze e finimenti da Robert Callender. Inoltre 32 carri con i conducenti furono ottenuti da Slough e Simon a Lancaster.
Il 18 giugno arrivarono a Filadelfia le due compagnie del 42nd e 77th comandate dal Capitano Robertson. Bouquet le inviò, subito, a Carlisle.
Il 24 giugno Bouquet partì con un contingente di Royal Americans e i due gruppi arrivarono a Carlisle lo stesso giorno, il 28.
La preoccupazione principale di Bouquet era Fort Ligonier comandato dal Lt Archibald Blane. Fort Ligonier si trovava 50 miglia a est di Fort Pitt. Era la postazione militare più vicina, il trampolino di lancio per il balzo finale, ma era un avamposto piccolo, difeso da una guarnigione di soli 8 Royal Americans e sepolto in un mare di foreste.


Fort Ligonier

Decise di rinforzare la guarnigione e scelse trenta dei suoi migliori Highlanders per la delicata missione. Li fornì di guide e ordinò loro di marciare rapidamente, evitando la pista principale, viaggiando solo di notte e riposando di giorno.
Il tentativo riuscì. Gli Scozzesi trovarono il forte sotto assedio, ma ancora in piedi. Ricevettero una scarica di fucileria quando si avvicinarono al cancello d’ingresso, ma entrarono incolumi, sollevando il morale di Blane e dei suoi soldati.
Il 10 luglio arrivarono a Carlisle anche i due reggimenti comandati dal Maggiore Campbell. La spedizione era pronta a partire alla volta di Fort Pitt.
Fuori dalla cittadina, nei boschi e nei campi, si era raccolta una moltitudine di rifugiati, coloni che avevano abbandonato le loro case per sfuggire al tomahawk e al coltello da scalpo.
Avevano costruito misere capanne con rami e corteccia e vivevano della carità dei cittadini e di quel poco che potevano raccogliere nei boschi.
Alcuni erano apatici, altri piangevano e si lamentavano, molti erano infuriati e animati dal desiderio di vendetta e dall’odio verso l’intera razza indiana.
Tutti raccontavano di fattorie in fiamme, donne e bambini scalpati e mutilati, granai, stalle e campi bruciati, bestiame massacrato.
I diavoli rossi erano dappertutto e sembravano inarrestabili.
Il 18 luglio Bouquet diede, finalmente, l’ordine di partenza.
Gli abitanti di Carlisle, assiepati lungo le vie, osservarono in silenzio gli Highlanders che sfilavano impettiti e li seguirono con lo sguardo fino a quando il rullo dei tamburi e il suono delle cornamuse non svanì tra gli alberi.
L’avventura che li attendeva non era, certo, una passeggiata nei boschi.
Nell’immensità della wilderness che si stendeva davanti a loro giacevano, insepolte, le ossa degli uomini di Braddock. Il numero degli uccisi superava l’intera forza di Bouquet.
Inoltre le 200 miglia della Forbes Road che collegavano Carlisle a Fort Pitt erano state gravemente danneggiate dalle nevicate invernali e dalle piogge primaverili. Un ostacolo in più.
L’armata di Bouquet era composta da due compagnie di fanteria leggera, una o due di granatieri e sei di regolari, tutti Highlanders del 42nd e del 77th, più una trentina di soldati del 60th, i Royal Americans.
In tutto erano, circa, 460 uomini.


L’armata di Bouquet

Bouquet aveva cercato di arruolare, a Carlisle, alcuni “ woodsmen “, uomini che conoscevano le foreste. Ma il tentativo era fallito. Avevano preferito rimanere con le famiglie.
Era, così, costretto a usare gli Highlanders come fiancheggiatori per prevenire sorprese ma, stranamente, questi montanari, nei boschi, non si orientavano. Scrisse a Amherst “ Non posso mandare un Highlander fuori di vista senza correre il rischio di perderlo “.
Il piccolo esercito di Bouquet iniziò la sua lenta marcia lungo la Cunberland Valley. Ogni tanto incontravano fattorie e capanne abbandonate o bruciate. Il pericolo di un’imboscata era sempre presente. Poi i soldati raggiunsero Shippensburg, a 20 miglia dal punto di partenza. Qui, come a Carlisle, si era raccolta una moltitudine di rifugiati affamati e terrorizzati. Sembrava che dietro a ogni albero si nascondesse un selvaggio.
Oltre solo terra abbandonata da tutti i coloni. Quindi gli Highlanders arrivarono a Fort Loudoun, situato alle pendici di Cove Mountain e salirono lungo il pendio boscoso fino a raggiungere la vetta, dove poterono ammirare il profilo delle Tuscarora Mountains a sinistra e, davanti a loro, montagne e montagne a perdita d’occhio. Attraverso passi montuosi e profonde valli raggiunsero Fort Lyttleton, un avamposto sprovvisto di guarnigione e il vicino trading post di Juanita, abbandonato.
Il 25 luglio gli Highlanders raggiunsero, finalmente, Fort Bedford, incastonato tra i monti.
Fort Bedford era l’avamposto militare più grande lungo la Pittsburgh-Carlisle road, ma aveva una guarnigione di soli 12 Royal Americans.
Il comandante del forte, il Capitano Lewis Ourry, informò Bouquet che da settimane non aveva più notizie da Fort Pitt. Le comunicazioni erano state completamente tagliate. Secondo le ultime informazioni, era sotto assedio.
A Bedford Bouquet ebbe la fortuna di ingaggiare 30 woodsmen e fu, anche, raggiunto da 14 Rangers arrivati da Fort Cumberland, guidati dal Capitano Lemuel Barrett.
Bouquet fece riposare per tre giorni uomini e animali, sfiniti dal la lungo viaggio, e lasciò un ufficiale e 30 soldati in precarie condizioni di salute a rinforzare la guarnigione. Poi la marcia riprese.
Il tratto della Forbes Road tra Fort Bedford e Fort Ligonier era il più difficile. Bisognava valicare gli Allegheny, Laurel Mountain e attraversare la Edmonton Swamp.
In questo tratto il sentiero era particolarmente danneggiato, ostruito da rocce franate, tronchi caduti e spesse radici. Il territorio si prestava bene a un’imboscata.
Con grande fatica i carri cominciarono a valicare gli Allegheny, salendo a zig zag lungo i pendii nella calura di luglio, mentre l’odore resinoso dei pini scottati dal sole si diffondeva nell’aria. Giunti sulla sommità gli Scozzesi poterono ammirare il panorama, montagne e montagne coperte di foreste, più selvagge delle colline natie.
Scendendo dagli Allegheny, gli Highlanders entrarono in una regione meno aspra e formidabile, ma pericolosa e infida allo stesso modo. Il 2 agosto raggiunsero Fort Ligonier, 50 miglia a est di Fort Pitt.
A Ligonier Bouquet apprese che non vi erano più stati dispacci da Fort Pitt dal 30 maggio. Sessantaquattro giorni senza comunicazioni potevano anche voler dire che il forte era caduto.
A Fort Pitt, intanto, la situazione si faceva sempre più drammatica a causa della mancanza di provviste.
Il 28 luglio, dopo due mesi di assedio, ci fu il primo, vero, attacco contro il forte.
William Trent, il comandante della milizia, scrisse nel suo diario “in tarda mattinata gli Indiani hanno attraversato il fiume da Shannopin’s Town a cavallo, in canoa o a nuoto. Dopo circa mezz’ora, alle due, hanno iniziato a sparare contro alcuni uomini che si trovavano fuori dal forte, nel giardino”.


Guerrieri indiani a Bushy Run Station (reenactors)

Poi i guerrieri Mingo, Delaware, Shawnee e Wyandots cominciarono a lanciare frecce incendiarie e palle di fuoco, che incendiarono il tetto della Governor’s House e di alcuni edifici. Una di queste frecce ferì Ecuyer a una gamba.
Il 29 luglio gli Ohioans continuarono a sparare contro il forte, prendendo di mira, soprattutto, il bastione occidentale, il più danneggiato e esposto.
Trent scrisse che quel giorno circa 1500 piccole armi risposero al fuoco nemico dal forte.
Poi ci fu un assalto diretto. I guerrieri, usando le canoe come scale, corsero verso il forte ma furono falciati dal fuoco dei cannoni.
Uno di loro fu tagliato in due da una palla. Il combattimento durò per circa 100 ore con la perdita, tra i difensori, di due uomini uccisi e sette feriti.
La mattina del 3 agosto gli Indiani, improvvisamente, se ne andarono.
Il 4 agosto l’armata di Bouquet lasciò Fort Ligonier, l’ultima tappa prima di Fort Pitt.
Bouquet decise di lasciare al forte i carri che rallentavano la marcia, e fece caricare sui cavalli da soma e sui muli le provviste, i sacchi di farina e le munizioni.
Quella notte gli Highlanders bivaccarono sul versante occidentale di Chestnut Ridge.
Il 5 agosto, il giorno della battaglia, i soldati si svegliarono prima dell’alba. Il piano della giornata era raggiungere Bushy Run Station e la sua sorgente in tarda mattinata.
Bushy Run non si trovava sulla Forbes Road ma su un sentiero secondario chiamato Indian Trail, che raggiungeva Fort Pitt da un’altra direzione. Era una pista più rapida, ma passava attraverso la gola di Turtle Creek, lunga alcune miglia, un luogo adatto alle imboscate. Bouquet pensava di far riposare gli uomini nel pomeriggio e di attraversare la gola di notte, col favore del buio.
L’avanguardia degli Highlanders era giunta a un miglio da Bushy Run, all’una del pomeriggio, quando gli Ohioans la assalirono.
Bouquet, che si trovava al centro della colonna che si era allungata per circa mezzo miglia, sentendo gli spari, ordinò a due compagnie di Black Watch di contrattaccare.
Gli Highlanders arrivarono a 50 passi dal nemico, si fermarono, spararono una raffica e poi caricarono con le baionette in canna.
Usando la loro perfetta conoscenza del terreno, gli Indiani avevano iniziato il loro attacco da una collina, il punto più elevato della zona.
Riconoscendone l’importanza strategica, Bouquet ordinò di conquistare la posizione.
La carica degli Scozzesi fece ripiegare i guerrieri, che iniziarono a ritirarsi in buon ordine, proteggendosi l’un l’altro. Poi si raggrupparono in cima al colle in una posizione più solida
Bouquet ordinò l’avanzata generale e la sommità fu conquistata, ma subito si rese conto di non aver ottenuto un vantaggio decisivo. Il nemico li aveva, semplicemente, condotti più all’interno del suo schieramento a ferro di cavallo.
Come durante la disfatta di Braddock, gli Ohioans iniziarono a circondare l’avversario, apparendo su entrambi i fianchi e minacciando la retroguardia del convoglio.
Bouquet scrisse nel suo rapporto “ appena venivano scacciati da un punto, apparivano in un altro”.
Bouquet, quando sentì gli spari che provenivano dalla retroguardia, ordinò alle sue truppe di indietreggiare per proteggere il convoglio delle provviste. Gli Highlanders lo fecero in maniera disciplinata, scendendo dal pendio, sotto il fuoco degli Indiani che erano ritornati sulla collina. Non fu una rotta, come era successo a Braddock, ma una ritirata organizzata.
Nel frattempo il convoglio si era attestato su una collina a sinistra rispetto al luogo dell’imboscata, conosciuta, in seguito, come Edge Hill a causa del suo ripido pendio. Bouquet la descrisse “ come un comodo pezzo di terra, abbastanza spazioso per il nostro scopo”.
Durante tutto il lungo assolato pomeriggio senza acqua. le grida di guerra indiane si alzarono da posti diversi lungo il perimetro difensivo. Furono lanciati brevi assalti, seguiti da rapide ritirate di fronte alle baionette degli Scozzesi.
I cavalli terrorizzati, nitrivano e scalciavano e si imbizzarrivano, cercando di liberarsi, mentre i civili si nascondevano dietro agli alberi e tra i cespugli.
Al calar della sera l’attacco fu interrotto. I soldati avevano combattuto per sette ore dopo la lunga marcia mattutina sotto il sole cocente e su un terreno difficile.
Bouquet ordinò ai suoi uomini di costruire una barricata circolare usando i sacchi di farina portati dai cavalli. All’interno fece portare i feriti.
Le perdite erano state pesanti, 60 uomini tra uccisi e feriti, molti erano ufficiali.
Non fu permesso accendere fuochi e la mancanza di acqua causò un’agonia addizionale.
I soldati passarono una notte insonne, circondati dalle tenebre, squarciate, a intermittenza, da colpi di fucile e da grida di guerra, col pensiero di quello che sarebbe successo la mattina seguente.
All’alba del 6 agosto 1763 i war whoops annunciarono l’inizio di un altro giorno di battaglia. Ancora una volta gli Indiani fecero brevi assalti in vari punti delle linea britannica.
Bouquet capì che la situazione era disperata. La perdita di molti cavali e la responsabilità di proteggere i feriti rendeva il tentativo di avanzare o ritirarsi un probabile disastro. Il morale dei suoi uomini iniziava, a poco a poco, a venire meno e erano stanchi e disidratati per la mancanza di acqua.


Un cippo ricorda la battaglia di Bushy Run

Gli Ohioans continuavano con la loro snervante strategia.
Si spostavano da un albero all’altro con sorprendente agilità e cercavano di indurre i soldati a sprecare munizioni mostrando, nascosti nel sottobosco, i cappelli degli uccisi, le faretre delle frecce e gli archi.
I capi, avvertendo che la resistenza del nemico si stava, a poco a poco, affievolendo, incitarono i guerrieri a stringere sempre di più il cerchio.
Ci fu uno scambio di insulti in quello che Bouquet definì “broken English”. Si distinse, in particolare, un giovane capo Delaware di nome Kukyuskung che, nascosto dietro a un albero, promise a Bouquet che l’avrebbe scalpato prima del tramonto.
Bouquet intuì che la situazione gli stava sfuggendo di mano. Non vi era la possibilità di rinforzi e in questo tipo di battaglia mordi e fuggi gli Indiani erano in grande vantaggio. Doveva escogitare, subito, qualcosa.
Alle 10 del mattino Bouquet convocò un summit con i suoi ufficiali.
Fu il Capitano Barrett, il comandante dei rangers, che suggerì l’idea vincente.
Gli indicò un punto in cui gli Indiani erano particolarmente numerosi e gli disse “se li colpiamo lì possiamo vincere”.
Bouquet, con il suo intuito creativo, la trasformò in una manovra ben organizzata.
Ordinò a due compagnie del 42nd, al comando del Maggiore Campbell, di abbandonare la posizione lungo il lato meridionale del perimetro difensivo e di fingere la ritirata.
Gli Highlanders scesero dalla collina e ripercorsero, verso est, la pista che avevano seguito il giorno prima. Quando giunsero in un avvallamento del terreno che li nascondeva dalla vista del nemico, Campbell ordinò un rapido dietrofront e gli Scozzesi, lasciando il sentiero, si addentrarono, silenziosamente, nella foresta e si disposero in una lunga fila lungo il periodo meridionale della collina, pronti al contrattacco.
Il varco nel perimetro fu riempito dai soldati che si trovavano a destra e a sinistra. Lo fecero come se avessero l’intenzione di coprire la ritirata dei loro compagni.
Bouquet ordinò, inoltre, a altre due compagnie, una di fanteria leggera e un’altra di granatieri che si trovavano sui lati occidentale e settentrionale di tenersi pronte a supportare l‘azione.
Gli Indiani caddero nel tranello. Videro la manovra e pensarono che fosse l’inizio di una ritirata generale. I capi radunarono i guerrieri e li incitarono a assalire il fianco indebolito. Gli Highlanders poterono osservare, per la prima volta, una massa di nemici pronta a attaccare. Poi i corpi quasi nudi uscirono dagli alberi di corsa, lanciando grida selvagge, “come l’acqua che sgorga impetuosa e senza freni da una diga rotta”.
Arrivati a 50 passi i guerrieri spararono. Poi molti di loro lasciarono cadere a terra i fucili e impugnarono i tomahawks, i coltelli da scalpo e le mazze da guerra a punta tonda o acuminata. Pregustavano la vittoria.
Improvvisamente, lungo il fianco destro degli Indiani che caricavano, apparve la linea scarlatta degli Highlanders.
Erano le due compagnie di fanteria leggera del Maggiore Campbell che contrattaccavano.
A una distanza di 20 passi gli Scozzesi si arrestarono e spararono una raffica micidiale contro i guerrieri ammassati. Poi i raggi del sole che filtravano tra gli alberi fecero luccicare le punte delle baionette quando gli Highlanders caricarono con furia, ricordando il massacro dei loro commilitoni a Grant’s Hill.
Un pugno di guerrieri, i più valorosi, cercarono di resistere, ma la maggior parte, colta di sorpresa, dopo un attimo di esitazione, fuggì a gambe levate. Gli Ohioans avevano validi piani per l’attacco, ma non un metodo disciplinato per la ritirata. Corsero a ovest verso la Forbes Road, lasciando morti e feriti sul terreno, coinvolgendo nella loro fuga disordinata tutti i guerrieri che incontravano.
Ma i loro guai non erano finiti.


La battaglia infuria a Bushy Run

Furono intercettati dalle due compagnie di fanteria leggera e granatieri che si erano mosse dal perimetro occidentale per supportare l’attacco principale. Ci fu una scarica ben diretta contro i fuggitivi, poi le quattro compagnie si unirono nell’inseguimento, immergendo la punta delle baionette nella schiena dei guerrieri in fuga. La caccia durò per più di un miglio. Gli Ohioans che si trovavano sul perimetro opposto e che non avevano subito l’assalto, vista la mal parata, si dileguarono nella foresta senza prestar soccorso ai loro compagni.
La battaglia di Bushy Run era finita.
Le perdite furono pesanti, 50 morti e 60 feriti tra gli Higlanders, mentre 20 cadaveri di Indiani furono trovati sul campo di battaglia, ma Bouquet stimò le perdite tra 50 e 60 guerrieri. Tra essi il Delaware Kukyuskung.
Quella sera, dopo aver fatto seppellire i morti, Bouquet fece accampare i soldati su una collina un po’ più a ovest rispetto al luogo della battaglia.
Fort Pitt era distante solo 25 miglia, ma ci vollero tre giorni per completare il tragitto, a causa della difficoltà di trasportare i feriti e per il pericolo di un nuovo attacco indiano.
Finalmente, il 10 agosto, gli Highlanders entrarono nella piazza d’armi del forte, tra le grida di giubilo degli assediati.
Per la prima volta truppe bianche avevano sconfitto gli Indiani in una battaglia furibonda nella foresta. Bouquet scrisse “le più bellicose tra le tribù selvagge hanno perso la loro presunta invincibilità nei boschi”.
La notizia arrivò a Filadelfia il 24 agosto. Le campane suonarono a festa e ci furono celebrazioni nelle strade.
L’assemblea della Pennsylvania promulgò una risoluzione che esprimeva l’eterna gratitudine della colonia a Bouquet, che ricevette, anche, l’encomio ufficiale del Re.
La vittoria di Bushy Run ebbe due importanti conseguenze.
La prima, più immediata, fu il ripristino delle comunicazioni tra Filadelfia e la frontiera. Da quel momento provviste, rinforzi e informazioni poterono nuovamente transitare lungo la Forbes Road in relativa sicurezza.
La seconda fu, forse, più difficile da valutare, ma più importante.
Il trionfo di Bouquet demoralizzò gli Indiani dell‘Ohio e, allo stesso tempo, fece venir meno, a altri potenziali ribelli, la voglia di unirsi a Pontiac nella sua crociata.

NOTE FINALI:

Ho tratto le principali notizie per questo articolo dai seguenti libri: “The British Miltary and the Pontiac Uprising of 1763 – 1764” di Thimoty Todish e Todd Harburn, “Guyasuta and the Fall of Indian America” e” Fort Pitt a Frontier History” entrambi di Brady Crytzer, “The Conspiracy of Pontiac Vol 2” di Francis Parkman, “Never Come to Peace Again” di David Dixon, “War under Heaven” di Gregory Evans Dowd e dai due splendidi volumi dedicati all’arte di Robert Griffing.
Ho ricavato ulteriori informazioni da un articolo di Ronald Emrick apparso sul numero di febbraio 1989 della rivista Wild West dal titolo “Bayonets, blood and bagpipes”.

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