Ishi, l’ultimo Yahi

A cura di Laura Sampietro

Ishi mentre accende un fuoco
Ishi faceva parte della tribù degli Yahi, un piccolo raggruppamento del popolo Yana, quasi sterminata nella strage di Mill Creek nel 1866. Quasi, ovviamente, altrimenti Ishi non sarebbe esistito.
Viveva nella California centrale, nell’attuale parco nazionale di Lassen.
Della sua storia esistono varie versioni, alcune delle quali sono certamente legate al periodo di forti strumentalizzazioni ideologica ed economica in cui sono nate.
Alcuni punti sono comuni alle diverse interpretazioni e noi, attingendo alle varie fonti e confrontandole tra loro, vi proponiamo questa nostra versione.
Tutto iniziò il 10 novembre del 1908 quando alcuni “sorveglianti” di una fattoria videro per la prima volta quello che descrissero come un “uomo selvaggio” che si muoveva furtivamente nei dintorni della loro proprietà, pur non riuscendo a bloccarlo, né a sapere qualcosa in più sul suo conto. Era pur sempre il west, quindi è meglio che sia andata così piuttosto che col consueto epilogo di fucilate!
Passarono quasi tre anni finchè la mattina del 29 Agosto 1911, a Orville (nella Contea di Butte, California) di fianco ad un mattatoio fu trovato Ishi. Era un uomo piuttosto mal messo, affamato… non si reggeva nemmeno in piedi; aveva i capelli bruciacchiati (e vedremo poi il motivo di questa condizione) e non spiccicava una sola parola.
A differenza di quel che ci si potrebbe immaginare la cittadina accolse molto benevolmente Ishi.
Lo sceriffo gli offrì anche un posto in cui dormire. Beh! Era la prigione, ma sembra che davvero non ci fosse altro posto in cui l’uomo potesse riposare senza che la gente lo disturbasse con un via vai che sarebbe stato incessante, tanta era la curiosità. Gli regalò dei vestiti e impietosito dalla situazione cercò di rendersi utile in ogni modo.


Ecco Ishi magro e spaventato al suo arrivo a Orville

Ishi era logicamente spaventato. Era stato catturato all’improvviso da gente sconosciuta di cui non era certo di potersi fidare e, in ogni caso, era stato sottratto alla vita nascosta che aveva scelto.
In quella zona di nativi non se ne vedevano più da molto tempo per cui la sua lingua era assolutamente incomprensibile a qualsiasi bianco. Lo stupore e la curiosità crescevano giorno dopo giorno alimentati dall’incomunicabilità che caratterizzava i primi contatti con il “selvaggio”.
E lui sicuramente ricambiava lo stupore aggiungendovi la paura; un terrore collegato ai ricordi che poteva avere degli uomini bianchi, proprio quelli che avevano sterminato la sua tribù, gli Yahi.


Ishi al lavoro per preparare un arco

Gli Yana e gli Yahi non erano i grandi guerrieri che si potevano vedere nei film. Erano cacciatori e pescatori abituati a vivere con poco all’interno delle foreste. Come molti altri indiani non infastidivano nessuno, né ricevevano noie, almeno fino a quando i bianchi non arrivarono. A quel punto cominciarono le guerre che causarono la sconfitta degli Yana e degli Yahi. Gli Yana furono quasi tutti uccisi e quei pochi che sopravvissero furono cacciati via dalle loro foreste. Gli Yahi riuscirono a resistere per qualche decina d’anni combattendo meglio che potevano, ma verso il 1870 furono tutti sterminati.
La notizia cominciò comunque a diffondersi ben oltre i confini di Orville e a questo punto alcuni antropologi di Berkeley andarono a visitarlo.


Una rarissima fotografia di Ishi

Immaginatevi cosa poteva rappresentare questo incontro per loro: la realizzazione del sogno di una vita di studi.
Wattermann, uno degli antropologi più famosi a quel tempo, ottenne persino la possibilità di portare Ishi a Berkeley, all’università e poichè a Orville nessuno era in grado di fare di Ishi un cittadino, né c’erano tempo e voglia per farlo, il povero indiano finì per trovarsi all’interno di un centro di studi dove visse i restanti cinque anni della sua vita.
A Berkeley altre due figure importanti lo incontrarono, erano Alfred Kroeber e Saxton Pope.


Sam Batwai (interprete), Alfred L. Kroeber e Ishi (scalzo)


Saxton Pope era anche un appassionato arcere

Al principio fu molto difficile comprendere Ishi, nonostante la presenza volenterosa di un altro indiano in veste di interprete.
Per i nativi il proprio nome è sacro; si rivela unicamente alla propria tribù, alla propria famiglia e per questo molti nativi sono passati alla storia solo con nomi attribuitigli dai bianchi. In quei casi quelli non erano i loro veri nomi, ma solo nomi convenzionali tra i bianchi e i nativi stessi.
Ishi non volle mai rivelare il proprio nome. Perciò “Ishi” è semplicemente il nome che gli attribuì Kroeber, quando, stufo delle mille domande che i cronisti gli ponevano – domande a cui non sapeva ancora dare risposta – rispose ”Un uomo!” E guarda caso, “uomo” in una delle lingue native della zona si diceva “Ishi”.
Lo abbiamo definito “l’ultimo della sua tribù”, l’ultimo degli Yahi.


Ishi mostra come usava l’arco

Gli Yahi erano abbastanza diversi dai parenti più nordici, gli Yana. Infatti i primi non furono mai aggressivi verso i bianchi se non quando vennero attaccati. Il carattere mite, dunque, era stata una nota caratteristica del popolo di Ishi.
Quando gli antropologi lo portarono all’università Ishi divenne presto una sorta “living exhibit” e nel week end si mostrava ai visitatori del museo mentre qualche professore spiegava quali erano state le sue capacità di sopravvivenza nella foresta. Nel resto della settimana si guadagnava da vivere lavorando come portiere presso la stessa università.
Kroeber fu una figura molto importante: è grazie a lui che conosciamo nei dettagli la storia di Ishi, anche se il primo libro dedicato all’ultimo degli Yahi uscì postumo per espresso desiderio della mogli. Quel libro si intitolava “Ishi in due mondi“, titolo che poi divenne “L’ultimo della sua tribù”.


Il libro dedicato alla storia di Ishi

Nel sentir parlare di Ishi come “fenomeno da baraccone” non bisogna cadere nell’errore di pensare a qualcosa di assolutamente negativo. La gente di allora non aveva a disposizione i mezzi attuali per migliorare le conoscenze e lo stesso Ishi si divertiva a vedere questi bianchi così curiosi e stupiti di ogni cosa ed era sempre ben disposto a soddisfare le loro richieste.


Esibizione di tiro con l’arco

La gente si stupiva del suo garbo, della sua igiene, della capacità che aveva di relazionarsi con tutti e di dare maggiore importanza, nelle numerose occasioni mondane, alla gente comune piuttosto che alle personalità che sgomitavano per vederlo. Lo stupore era genuino ed era legato alla cultura del tempo che li portava a pensare che quelle caratteristiche fossero pertinenza quasi eclusiva dei bianchi, in contrasto con la loro idea di “selvaggio”.
Ishi in abiti da bianco
Ishi si adattò alla vita dei bianchi e se ne dimostrò a suo modo entusiasta. Amava la loro cucina, i loro vestiti. C’erano poche eccezioni: odiava i sughi, non beveva e non fumava.
Alcune parole restavano per lui incomprensibili; “Arrivederci!”, per esempio, non aveva alcun senso, perché l’indiano riteneva di non poter ipotecare il “poi”, limitandosi a testimoniare un continuo presente. Così, quando qualcuno si congedava da lui, gli diceva semplicemente: ”Te ne vai.”
Si affezionò moltissimo a Waterman, Kroeber e Pope. A quest’ultimo insegnò i segreti del tiro con l’arco.
Una volta sola si arrabbiò molto con i suoi amici perchè sembrava che, nonostante la sua ampia collaborazione nell’opera di traduzione della sua lingua e di comprensione delle tecniche primitive, a loro non bastasse mai.
Gli studiosi volevano vedere dove aveva vissuto e cercarono in ogni modo di spingerlo ad accompagnarli nelle varie tappe della sua lunghissima peregrinazione. Ishi subì la loro decisione, ma in realtà era profondamente contrario a quell’esperienza. Fece anche di tutto per far capire che la sua preoccupazione era anche per i suoi amici. Una volta sul posto si calmò.
Non raccontò mai della sua famiglia, limitandosi a qualche breve cenno alla sorella annegata, ma non disse nulla dei genitori. In questa occasione si seppe che i capelli bruciati che erano stati notati il giorno del suo ritrovamento se li bruciò lui stesso in segno di lutto secondo le proprie tradizioni.
Lo sguardo intenso di Ishi
Durante questa spedizione il figlio di Pope lo vide allontanarsi dal campo e rientrare dopo qualche ora. “Ora è tutto a posto”, disse al ragazzo e questo fece pensare che in quella occasione Ishi si fosse allontanato per un rito collegato alla morte dei suoi parenti.
Il legame fra i 4 era sincero: la sete di scienza degli antropologi si trasformò in vera amicizia.
Il 25 marzo 1916 Ishi morì di tubercolosi. Pur essendo di fisico robusto non riuscì a contrastare una malattia dei bianchi contro la quale nulla poterono le sue difese.
Alla sua morte Kroeber si trovava in Europa e scrisse una lettera affinché Ishi fosse seppellito secondo i riti della sua tribù e non diventasse un “pezzo da museo”. Fu così che il suo corpo venne seppellito secondo il rito Yahi, ovvero cremato e sepolto con 5 frecce, punte di ossidiana, farina e ghiande.
Purtroppo i bianchi non rinunciarono ad una tragica usanza di quel tempo e asportarono il cervello di Ishi per inviarlo in “dono” alla Smitshonian Institution del Maryland. Per protesta contro questo inutile gesto Kroeber non scrisse più nulla di “scientifico” su di lui.
Solo il 10 Agosto 2000 il cervello di Ishi fu riportato nella sua terra, in un luogo segreto vicino a Oroville, involto in una pelle di cervo.
In quei 5 anni di vita tra i bianchi Ishi scrisse diverse canzoni, rilasciò interviste e consentì alcune riprese di tipo documentaristico, ma di tutto quel patrimonio non se ne ha più notizia.

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