The Homesman

A cura di Domenico Rizzi

Il western moderno, ideale continuazione del filone revisionista, ha introdotto una serie di situazioni che spesso ricalcano trame del passato e attingono, in misura evidente, agli esperimenti italiani degli Anni Sessanta e Settanta, assimilandone talvolta gli aspetti peggiori.
Premesso che frequentemente si tratta di vendette o di sfide, con immagini insistite quanto superflue di torture e violenze, molte delle trame portate sullo schermo si sono sempre più allontanate dal clichè classico dei vecchi western movie, che, al termine di tormentose vicende e sofferenze dei protagonisti, si chiudevano generalmente con un lieto fine.
Sappiamo tutti che la realtà era ben diversa e che non sempre i “buoni” riuscivano a prevalere sui “cattivi”. Comunque, dopo “Il cavaliere della valle solitaria”, “Sentieri selvaggi”, “L’ultima carovana”, “L’occhio caldo del cielo” e “Gli spietati”, la manichea separazione è stata definitivamente archiviata dal cinema e perfino le regole comportamentali dettate dal Codice Hays, che fino al 1967 non ammetteva situazioni e linguaggi contrari alla morale corrente, sono finite nel dimenticatoio.
Una questione più attuale è quanto vi sia, nella filmografia recente, dell’autentico West dei pionieri, degli Indiani, degli sceriffi e dei banditi. Già a proposito del cinema sviluppatosi in Italia negli Anni Sessanta, il grande regista Sam Peckinpah aveva espresso la sua critica: “Non trovo assolutamente nei suoi personaggi qualcosa che appartenga sul serio al West…Non ci trovo la reale memoria del West.”


La Bella locandina del film

“The Homesman”, co-prodotto, diretto e interpretato da Tommy Lee Jones nel 2014, risponde invece ai canoni essenziali del genere, basandosi su una storia semplice e drammatica che ha come protagoniste persone comuni, diseredati o gente afflitta da problemi esistenziali di difficile superamento. La vicenda prende l’avvio nel 1854 nel territorio del Nebraska ed ha una trama inconsueta: una donna trentunenne e nubile, Mary Bee Cuddy (Hilary Swank) timorata di Dio e disponibile ad aiutare il prossimo, accetta l’invito di un reverendo di condurre le mogli di tre coloni, tutte affette da turbe mentali, in una lontana casa di accoglienza dell’Iowa, regione di cui sono originarie. Lungo il cammino la coraggiosa volontaria si imbatte in un ex soldato non più giovane e ridotto a vagabondare dopo aver perduto la casa, George Briggs (Tommy Lee Jones) salvato dall’impiccagione proprio dall’intervento di Mary, che gli chiede in cambio di aiutarla nella sua impegnativa missione.
Le tre donne psichicamente alterate – una addirittura legata perché aggressiva – vengono trasportate su un furgone chiuso e provvisto di sbarre metalliche alle finestre, usato in precedenza per la traduzione dei condannati verso le prigioni o la forca. Il viaggio esporrà la singolare coppia e il loro carico di infelici creature ad una serie di vicissitudini – gli Indiani, la mancanza di cibo, il freddo, un albergatore arrogante che rifiuta di ospitarle e di dare loro del cibo, un potenziale violentatore – che riveleranno i conflitti esistenziali di ciascuno, al di là delle naturali difficoltà che l’impresa comporta.
Le donne trasportate sul carro provengono da famiglie coloniche e soffrono di quello che molti chiamavano il “male della prateria”, causato da solitudine, incapacità di adattarsi ad una vita di fatiche, minacce rappresentate da Pellirosse ostili, siccità, bufere di vento e sabbia, con estati torride seguite da inverni gelidi e la prospettiva di raccolti deludenti. Nei casi di Mary e George i problemi sono diversi. Per la donna, amante della musica e ligia ai dettami della Bibbia, la mancanza di un marito costituisce la ragione principale della sua insoddisfazione: infatti ella si offre dapprima ad un giovane perché la prenda in moglie e poi all’anziano ex militare, ottenendo entrambe le volte un rifiuto.

Stanca di dover assistere alla propria vita che scorre via senza potersi creare una famiglia, si concede a George, che viola la sua verginità senza farle alcuna promessa di matrimonio. Ormai in preda allo sconforto, Mary si impiccherà ad un albero, lasciando l’uomo sgomento e inizialmente pentito del proprio comportamento. Egli condurrà le tre donne malate a destinazione, in un accogliente edificio gestito dalla signora Altha (Meryl Streep, che compare soltanto alla fine del film) per poi ritornare sui suoi passi, dopo averle donato anche i cavalli che aveva con sé.
La conclusione vedrà George ubriaco, mentre traghetta un fiume a bordo di una zattera, mettendosi a cantare e a sparare verso la riva da cui si era imbarcato. Forse intende uccidere il proprio passato, gettando in acqua anche la lapide di legno che aveva fatto scolpire in ricordo di Mary. E’ un uomo del West, un solitario senza mèta e la sua figura ricorda una celebre frase del cowboy Jack Burns (Kirk Douglas) in “Solo sotto le stelle”, diretto da David Miller nel 1962: “L’unica persona con cui riesce a vivere un solitario è se stesso”.
“The Homesman” (termine di difficile traduzione letterale, equivalente a “reimpatriatore”) è un ottimo film, che inserisce sapientemente la vicenda di un gruppo di emarginati nel contesto di un West privo dei suoi capisaldi leggendari. In esso si incontrano soltanto uomini introversi e burberi quale si rivela George, oppure rozzi fino ai limiti della brutalità – l’uomo che cattura una della fuggitive dal carrozzone per tenersela come concubina, nonostante sia a conoscenza delle sue condizioni alterate – donne che hanno smarrito il lume della ragione e “ragazze” come Mary Bee alle quali la fede non basta più per dare un senso alla propria vita.
Il nome dell’autore del romanzo da cui è ricavata la vicenda sceneggiata dallo stesso Jones insieme ad altri collaboratori, rappresenta già una solida garanzia. Glendon Swarthout (1918-1992) ha scritto opere quali “Cordura” (1958) e “Il pistolero” (1975): in entrambi ritrae il malinconico West del crepuscolo, dal quale sono scomparsi gli eroi celebrati dal mito. Gli Apache di “Cordura”, che operano a fianco dell’esercito americano nel Messico del 1916, strappano i denti d’oro ai soldati morti e il maggiore Thorn si rende conto che gli uomini a lui segnalati per una medaglia al valore sono in realtà dei vigliacchi; ne “Il pistolero”, l’attempato John B. Books è la larva dell’uomo di una volta e il suo unico scopo è cercare la morte in combattimento piuttosto che lasciarsi consumare da un cancro.
In “The Homesman”, benchè ambientato in un’epoca in cui la colonizzazione delle Grandi Pianure era ancora agli inizi, si avverte la medesima sensazione di scoramento e di speranze perdute. Non a caso, il viaggio si svolge a ritroso, dall’Ovest verso l’Est, un ritorno a casa dei disillusi della grande avventura che ha lasciato nei loro cuori soltanto dolore, frustrazione e pazzia. Ciò conferisce al film una patente di altissima credibilità, mostrando la fragilità estrema dei protagonisti di fronte alla vita in una terra ingrata, alla quale soltanto gli Indiani nomadi sapevano adattarsi. Anche le misere abitazioni da cui provengono le donne attestano l’infima condizione del colono che, dopo avere abbandonato gli Stati orientali un po’ troppo “affollati”, spera di ricostruirsi una nuova esistenza negli immensi spazi del Nebraska, all’epoca accorpato, con provvedimento del governo federale, al Kansas e a porzioni di North e South Dakota, Montana, Wyoming e Colorado.
Anche questo film, come “The Missing” interpretato dallo stesso Jones e diretto da Ron Howard nel 2003, riconduce, per la spietata crudezza di alcune sequenze, ai romanzi di Cormac Mc Carthy, particolarmente “Meridiano di sangue” del 1985, con persone simili ad ectoplasmi che vagano in una terra senza confini nella inconsapevole ricerca del proprio destino. Il Cielo sembra osservarle più indifferente che attonito, scoprendone di volta in volta il disperato bisogno di un approdo sicuro quanto improbabile.

Gli scenari, splendidamente valorizzati dalla fotografia del messicano Rodrigo Prieto (“Alexander”, “I segreti di Brokeback Mountain”) sono incantevoli e maestosi, ma permeati dall’ “’infinita tristezza delle Grandi Pianure” sottolineata da Annie Proulx nel suo celeberrimo romanzo “Brokeback Mountain”. La colonna sonora è curata dall’italo-americano Marco Beltrami, che vanta un curriculum di tutto rispetto, comprendente anche le musiche di “Le tre sepolture”, diretto nel 2005 da Tommy Lee Jones. La presenza di Hilary Swank, nativa proprio di Lincoln, Nebraska, nel 1974, è abbastanza inconsueta per un film western, ma l’attrice è già stata consacrata da successi internazionali quali “Million Dollar Baby”, diretto da Clint Eastwood nel 2004. La sua figura, dietro un’apparenza di integrità e scontato rigore, è invece inquieta e sofferente, fino al punto di accantonare le proprie convinzioni etiche e religiose per concedersi al suo primo rapporto sessuale con un uomo dalla dubbia moralità.
George Briggs (il quasi settantenne Tommy Lee Jones) è un personaggio introverso, istintivo e quasi animalesco, capace di uccidere quando lo ritiene necessario, ma fondamentalmente umano e disposto ad aiutare il prossimo. Non ha una compagna, né aspira – almeno a parole – a possederne una. Quando, toccato dal suicidio di Mary sembra provare di nuovo dei sentimenti, si lascia trascinare dalla propria indole anarcoide e un po’ selvaggia. Il guado del fiume Missouri a bordo dello zatterone nel finale, dopo la breve parentesi fra la civiltà, è il ritorno al West, da cui non se ne andrà mai più dopo avere gettato via i ricordi.
Costato 16 milioni di dollari, il film non riscontra gli incassi sperati, assai inferiori al budget impegnato. Al Festival di Cannes del 2014 è destinatario di una nomination alla Palma d’Oro per Tommy Lee Jones, ma deve cercarsi altrove i pochi riconoscimenti ottenuti, attribuiti dalla International Film Music Critics Association a Beltrami per la miglior colonna sonora originale e dallo Spur Award (Sperone d’Oro) a Jones, Kieran Fitzgerald e Wesley A. Oliver per la miglior sceneggiatura western.

Nonostante ciò, “The Homesman” rappresenta un punto di riferimento indispensabile per chi ama conoscere la Frontiera – quella vera – nella complessità delle sue molteplici sfaccettature e non soltanto sotto alcuni aspetti. Insomma, nulla a che vedere con il cosiddetto western “urbano”, popolato di bounty killer, sceriffi e fuorilegge indemoniati, che ha polarizzato per anni l’interesse del pubblico. Qui si parla di contadini, di immigrati che si sono costruiti una misera soddy house nella prateria utilizzando il “Marmo del Nebraska”, cioè le zolle di argilla squadrate come mattoni e sormontate da un tetto di paglia. In sintesi, povertà, illusioni e disperazione che neppure la fede riesce a vincere.
In conclusione, si potrebbe osservare che Jones, sulla scia tracciata da Kelly Reichardt (“Meek’s Cutoff”, 2010, oltre al più recente “First Cow”, 2019) abbia ricondotto il West alle sue naturali dimensioni storiche, difficilmente riconoscibili dallo spettatore abituato da decenni ai pistoleri e alla esasperata ritualità dei duelli inventati dal cinema. Ma questo, che lo si apprezzi o meno, è stato l’autentico contesto in cui si è compiuta la conquista delle terre situate oltre la linea del Mississippi, da parte di gente che sapeva usare l’aratro meglio della pistola.
Così si è costruita, poco alla volta, al prezzo di rinunce ed enormi sacrifici, una società ordinata e civile in regioni che a quell’epoca, in molti salotti delle grandi città dell’Est, venivano paragonate all’inferno.

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