Mummie del vecchio West

A cura di Gian Mario Mollar

Elmer Mc Curdy
Quando si parla di mummie, la mente di solito corre alle piramidi e ai sarcofagi dell’antico Egitto, ad antichi tesori nascosti nelle sabbie del deserto. Un fatto meno noto è che anche la storia della frontiera americana è costellata di macabri resti mummificati: certo, si tratta di reperti meno antichi, eppure, come vedremo, le loro storie sono quasi altrettanto piene di mistero, tant’è che su alcune di esse sono stati addirittura scritti degli interi libri!
Una caratteristica comune delle storie che stiamo per raccontarvi è che, nella gran parte dei casi, furono esposte al pubblico come attrazioni, in luna park itineranti e spettacoli di intrattenimento. Per quanto possa sembrare un’usanza barbara e disdicevole, si tratta di un costume che ha radici antiche, che affondano addirittura nel cristianesimo medievale, in cui teschi e scheletri venivano usati per lanciare il macabro monito di memento mori, “ricordati che morirai”, oppure eris quod sum, “sarai ciò che io sono”, un invito a non lasciarsi distrarre dalle passeggere gioie terrene e a tenere sempre bene a mente quale sarà lo scontato finale delle nostre esistenze.
Da sempre, la morte e le sue manifestazioni inquietano, ma al contempo attraggono e incuriosiscono. Le mummie di cui parleremo, pur essendo, di fatto, semplici attrazioni da baraccone, miseri resti di uomini e donne le cui gioie e dolori su questa terra ci sono solo parzialmente noti, incarnano questo aspetto della nera mietitrice, che affascina e repelle al tempo stesso.
Ma mettiamo da parte le riflessioni filosofiche, che lasciano sempre il tempo che trovano, e lanciamoci alla scoperta delle Mummie del Far West!

Sylvester, la mummia del pistolero

“Si dice che Sylvester fosse un uomo pericoloso, un poco di buono veloce di mano, tanto con la pistola che con le carte. Ma in una notte sfortunata il desperado incontrò il proprio destino a Gila Bend, una cittadina dell’Arizona ai margini del Deserto della Sonora.
In una baracca, appestata dal puzzo dei sigari e del whisky, gioca una partita a carte con l’uomo sbagliato, che a un certo punto scatta in piedi urlando “Hai barato!”. Il copione, a questo punto, prevedeva un solo gran finale: entrambi i giocatori mettono mano alle sei colpi, ma Sylvester è più lento. Una pallottola gli buca lo stomaco, disegnando un fiore rosso sul suo panciotto.


Sylvester

Quando il fumo si dirada, l’avversario, ancora infuriato, lo cerca per finirlo, ma nella stanza trova soltanto sedie e tavoli rovesciati. Sylvester ha approfittato del trambusto e del fumo della sparatoria per uscire e allontanarsi, arrancando tra i cespugli di mesquite rischiarati dalla luna. Il fuoco che gli divora l’addome accorcia sempre di più i suoi passi, fino a quando l’uomo giace morto, riverso sulla sabbia che via via lo ricopre, proteggendo il suo sonno eterno in una culla di vento e di sole.
Gli anni passano anche nell’immobilità del deserto. Nel 1895 dei viandanti a cavallo notano una sagoma brunastra che emerge dal terreno: incuriositi, si avvicinano e vedono che non si tratta di un tronco, ma di un cadavere eccezionalmente preservato dalle particolari condizioni climatiche del deserto.”
Questa, con diverse varianti, è la leggenda che si racconta sulla mummia “Sylvester”. Esiste per davvero. Se vi trovate a passare da Seattle, potete andare a vederla: si trova in una teca di vetro all’interno di un negozio che si chiama “Ye Olde Curiosity Shop”, una vera mecca per gli appassionati dell’insolito e del curioso, una sorta di dime museum – ovvero un museo delle curiosità, una declinazione americana e pop della Wunderkammer settecentesca – affollato di galline a quattro zampe, tzanzas amazzoniche, vitelli a due teste, totem e pupazzi ghignanti.
La star del posto, però, è proprio lui, Sylvester. In effetti, la mummia si presenta in uno stato di conservazione eccezionale: la pelle, divenuta brunastra, si è tesa sul teschio e sulle ossa senza modificare la fisionomia del volto, che conserva ancora un paio di baffi rossicci e sembra gettare uno sguardo distaccato e malinconico al di là del vetro della teca. Un tappeto colorato gli protegge le pudenda e al suo fianco, forse per non farlo sentire solo, c’è Sylvia, un’altra mummia, questa volta di sesso femminile, ma decisamente meno ben conservata e più inquietante, con la bocca spalancata in un grido muto e le orbite cave.


Il volto di Sylvester

Nel corso degli anni, si sono accumulate molte dicerie, oltre a quella che abbiamo riportato in apertura: c’è chi sostiene che Sylvester sia un falso, un manichino impagliato venduto al proprietario del locale dal celebre baro e fuorilegge Soapy Smith (1860 – 1898), c’è chi afferma che si tratti del corpo dello stesso Soapy Smith: come in molte altre leggende della frontiera, le versioni si intrecciano, si rafforzano, si contraddicono… e sono in gran parte delle ardite invenzioni.
Cerchiamo, dunque, di fare un po’ di chiarezza, a partire dal nome stesso, Sylvester, che chiaramente è uno pseudonimo affibbiato a casaccio, come spesso accade con i resti umani antichi (pensiamo, ad esempio, alla celebre Lucy, lo scheletro di australopiteco rinvenuto nel 1974, oppure a Otzi, la mummia del Similaun ritrovata in un ghiacciaio).
Oltre al nome, molte delle cose che abbiamo riportato sin qui sono false, tranne una: si tratta effettivamente di una mummia e non di un manichino. Lo ha rivelato con certezza uno studio condotto dall’Università di Washington, nei primi anni duemila. Dall’analisi ai raggi X, infatti, è emerso che all’interno del corpo sono in effetti presenti tutti gli organi, anch’essi eccezionalmente conservati.
Su che cosa abbia reso possibile una conservazione così perfetta, gli studiosi non hanno dubbi: non si è trattato del sole del deserto, altrimenti il cadavere si sarebbe rinsecchito – un po’ come quello della sua vicina di teca. Piuttosto, le analisi indicano chiaramente che la mummia è stata sottoposta ad un trattamento a base di arsenico, probabilmente ad opera di un imbalsamatore e immediatamente dopo la morte. Tale processo ha bloccato la decomposizione in modo altrimenti impossibile in natura: la lingua, addirittura, conserva ancora tracce di saliva, e al di sotto delle palpebre semichiuse si possono scorgere gli occhi.
Non sappiamo se Sylvester fu in effetti un pistolero, ma di certo ebbe una vita avventurosa, come attestano tre pallottole conficcate nella guancia, nel collo, e in uno dei polmoni. Non furono queste, tuttavia, a togliergli la vita, perché i pezzi di piombo risultano inglobati nei tessuti, in un processo che richiede anni di cicatrizzazione.
Aveva un fegato in ottime condizioni, quindi, al contrario di quanto vorrebbero i luoghi comuni del vecchio west, non era un grande consumatore di alcol.
C’è poi un buco, all’altezza dello sterno, circondato da una macchia rossastra, che sembrerebbe giustificare la tesi della morte violenta, ma analisi autoptiche hanno dimostrato che si tratta di un foro praticato con un trapano quando il corpo era già mummificato. Con ogni probabilità, si trattò un’operazione di “marketing” per giustificare la leggenda del pistolero e invogliare la gente a pagare un quarto di dollaro per vedere la mummia di un desperado.
In realtà, invece, Sylvester morì intorno ai 45 anni e lo stato malconcio dei suoi polmoni lascia sospettare che la sua scomparsa fu dovuta alla tubercolosi.
Per molti anni, la mummia di Sylvester vagò per gli Stati Uniti, come attrazione per i “side show”, spettacoli itineranti che accompagnavano circhi e luna park, prima di approdare nell’eccentrico negozio di Seattle. La leggenda del pistolero ritrovato nel deserto fu con ogni probabilità una trovata commerciale, ma Sylvester e il suo sguardo glaciale rimangono ancora oggi un mistero che non conosceremo mai fino in fondo.

La mummia della donna lupo

La chiamavano “donna lupo”, la chiamavano “donna orso”, la chiamavano “la donna più brutta del mondo”. Nei circhi e negli spettacoli itineranti, nei quali veniva esibita come un fenomeno da baraccone, si raccontava che fosse l’ultima discendente di una tribù di indiani simili a scimmie, che vivevano in caverne. Altri dicevano che fosse il frutto di un accoppiamento tra una donna e un lupo.
In verità, Julia Pastrana era soltanto una donna messicana, nata nel 1834 in Messico, da qualche parte nel Distretto del Sinaloa. Le fonti la descrivono come gentile, curiosa, amante dei viaggi, della cucina e del cucito. Fin dalla nascita, presentava delle caratteristiche genetiche decisamente insolite: l’ipertricosi, ovvero un’eccessiva produzione di peli che ricoprivano tutto il corpo, e labbra e gengive protruse, che, abbinate a un naso molto camuso, le conferivano un aspetto scimmiesco.


Julia Pastrana, la donna lupo

Julia era un’abile cantante e danzatrice e poteva parlare fluentemente diverse lingue, ma per tutta la sua vita fu condannata a girare come fenomeno da baraccone nei freak show, spettacoli itineranti in cui venivano esibiti i cosiddetti “mostri”, esseri umani affetti da patologie che conferivano loro un aspetto fisico “curioso” e lontano dalla consuetudine. Per chi volesse capire meglio la realtà drammatica e disumana di queste esibizioni, in cui esseri umani venivano mercificati ed esposti al ludibrio del pubblico, consigliamo la visione di Freaks, capolavoro di Tod Browning del 1932, oppure dello straziante Elephant man del geniale David Lynch.
La vita di Julia Pastrana fu in effetti drammatica, perché fu sempre considerata più un’attrazione da circo che un essere umano vero e proprio. Fino ai vent’anni visse nella casa del governatore del Sinaloa, che l’aveva adottata, poi, in qualche modo, venne venduta e portata negli Stati Uniti, dove divenne la star di diversi spettacoli itineranti.
Julia era molto popolare non soltanto tra i curiosi che accorrevano a frotte per vederla, ma anche tra studiosi e scienziati dell’epoca che volevano studiarne la patologia. Julia Pastrana li accoglieva con gentilezza e cortesia, dimostrandosi sempre disponibile, anche quando le analisi alle quali veniva sottoposta erano violente e inumane.
Malgrado il suo aspetto insolito (o forse proprio grazie ad esso) la povera Julia dichiarò di aver ricevuto ben venti proposte di matrimonio, prima di sposarsi, nel 1854, con l’impresario Theodore Lent. Non ci sono chiari i sentimenti che Julia provava per quest’uomo: forse lo amava per davvero, forse vedeva in lui semplicemente un buon modo per sopravvivere. Quello che è certo, è che per il marito il matrimonio fu soprattutto un modo per assicurarsi a doppia mandata alla propria “gallina dalle uova d’oro” e per continuare a esibirla come attrazione.


Julia Pastrana

Quando sua moglie morì nel 1860, dando alla luce suo figlio (anch’egli con caratteristiche fisiche simili a quelle della madre), il cinico impresario non esitò a vendere entrambi i cadaveri a un professore di anatomia dell’Università di Mosca di nome Sokulov, che li mummificò entrambi. Prima di morire, Julia, probabilmente ignara di quello che sarebbe stato il suo imminente futuro, rilasciò una dichiarazione toccante: “Muoio felice. So di essere stata amata per quello che sono”.
A questo punto, inizia la “seconda vita” di Julia Pastrana, che, in fondo, non differisce poi molto dalla prima: il suo corpo, esposto in vetrina, continua ad attirare curiosi e studiosi, i cui sguardi si fermano ai peli, senza alcun interesse per la sorte dell’anima che aveva abitato quel corpo.
La donna impagliata viaggia per tutti gli Stati Uniti e addirittura varca l’oceano e arriva in Europa. Tra i molti studiosi che la ispezionano troviamo un nome d’eccezione: niente meno che Charles Darwin (1809-1882), universalmente noto come teorico dell’evoluzionismo. In modo un po’ sconcertante, lo scienziato la definisce come una “donna straordinariamente bella” (remarkably fine woman), che però “aveva una folta barba mascolina e la fronte pelosa; fu fotografata e la sua pelle impagliata fu esibita come spettacolo”. Darwin, però, si sofferma su un altro dettaglio della sua fisionomia: “quello che ci interessa è che aveva sia nell’arcata superiore che in quella inferiore una doppia fila irregolare di denti, l’una collocata all’interno dell’altra, delle quali il dottor Purland ha preso un calco. A causa della ridondanza dei denti, la sua bocca era protrusa e la sua faccia aveva l’aspetto di quella di un gorilla”.
I corpi senza vita di Julia e suo figlio, dunque, continuarono il loro macabro tour tra i continenti. Nel frattempo suo marito, rimasto vedovo, si risposò con un’altra “donna barbuta” di nome Marie Bartel. Per motivi commerciali le fece cambiare nome e la trasformò in Zenora Pastrana, spacciandola come sorella di Julia. Una vicenda squallida e disumana, che finisce con il furto delle mummie da parte di uno sconosciuto. Di Theodore Lent si perdono le tracce: si dice che sia morto in un manicomio russo nel 1884.
Anche le salme spariscono per anni, per ricomparire in un museo in Norvegia negli anni Venti del Novecento. La storia di Julia si protrae fino quasi alla contemporaneità: nel 2013, su iniziativa di un’artista messicana di nome Laura Anderson Barbata, la sua salma viene finalmente rimpatriata in Messico, dove viene dignitosamente interrata con una sepoltura cristiana.
Non sappiamo se Julia abbia potuto apprezzare questo tardivo tributo dal luogo misterioso in cui si trova ora. Almeno livello simbolico, tuttavia, ci sembra che le sia stato reso un riguardo dovuto.

Le due vite di Elmer Mc Curdy

Se spulciate qualche vecchia enciclopedia, difficilmente troverete il nome di Elmer McCurdy (1880-1911) sotto la voce “genio del crimine”. Dedito all’alcol e con un’infanzia infelice alle spalle, nella sua breve e turbolenta vita cercò di praticare il duro mestiere del rapinatore di banche e di convogli ferroviari, negli ultimi anni ruggenti della frontiera intorno alla fine del secolo, ma gli esiti dei suoi colpi non erano quasi mai quelli che lui sperava.
Il suo esordio nel mondo dei “train robbers” risale al marzo del 1911 quando, insieme a quattro compari, cercò di rapinare il treno della Iron Mountain-Missouri Pacific in Oklahoma. Aveva sentito dire che uno dei vagoni del convoglio conteneva una cassaforte con quattromila dollari di paghe.
La prima parte della rapina si svolge secondo i piani: i banditi riescono a fermare il treno e a localizzare l’armadio blindato.
A questo punto, entra in gioco Mc Curdy: nel 1907 ha militato nell’Esercito Americano a Fort Leavenworth come mitragliere, e lì, prima di venire congedato, ha imparato a maneggiare la nitroglicerina. Un po’ come lo Sean di Giù la testa, si considera e viene considerato un esperto di esplosivi. Il piano è quello di far saltare la porta del forziere con una detonazione. Elmer piazza la carica e si allontana in fretta, ma la dose di nitroglicerina è eccessiva: il rombo assordante sventra la cassaforte, ma manda anche in fumo gran parte del suo contenuto.


uno dei treni che Elmer McCurdy cercò di rapinare

Le banconote si dissolvono in cenere e per gli avviliti bandidos restano soltanto 450 dollari d’argento, buona parte dei quali rimane fusa con il telaio della cassaforte per il calore dell’esplosione. I quattro se la svignano con la coda fra le gambe.
Nel mese di settembre dello stesso anno, Elmer Mc Curdy ci riprova, con soci diversi. Questa volta l’obiettivo è la Citizens Bank di Chautauqua, in Kansas. Dopo due ore di duro lavoro con il martello, Elmer e i suoi riescono ad aprire una breccia nel muro esterno e a piazzare una carica di nitroglicerina attorno alla porta del caveau. Questa volta la carica è carente: scardina la porta, devasta l’interno della stanza ma fallisce l’obiettivo principale e lascia intatta la cassaforte. McCurdy dosa una seconda carica per aprire il forziere, ma non riesce a innescarla. Mentre armeggia disperatamente, una guardia riesce a dare l’allarme.
Al bombarolo e i suoi fidi compari non resta che darsela a gambe, abbandonando il malloppo: devono accontentarsi di un bottino modesto, rubato dai cassetti delle scrivanie.
L’ultima rapina della tragicomica esistenza di McCurdy si svolge il 4 ottobre 1911 nei pressi di Okesa, in Oklahoma. Il bandito e i suoi complici ci riprovano con un treno “Katy” (abbreviativo per la Missouri-Kansas-Texas Railway). McCurdy ha sentito dire che il treno contiene quattrocentomila dollari destinati alla tribù degli Osage. Con un Trattato del 1870, la tribù era stata relegata in un luogo inospitale e dimenticato da Dio, che però si era rivelato, di lì a poco, una vera e propria miniera d’oro… nero. Per estrarre il petrolio, il Governo degli Stati Uniti era costretto a pagare royalties principesche, che trasformarono la tribù in veri e propri “sceicchi” ante litteram, che sguazzavano nel lusso al punto di permettersi le prime automobili in commercio (le celebri Modello T del signor Henry Ford…


Elmer Mc Curdy

Ma torniamo a McCurdy e i suoi complici. Anche questa volta riescono a fermare il treno con successo, ma la cassaforte non si trova, perché hanno fermato il convoglio sbagliato, che non trasporta valori ma soltanto degli spaventati passeggeri. Il bottino, questa volta, è più magro che mai, forse davvero “il più misero della storia delle rapine ai treni” come titolava beffardamente un giornale dell’epoca: quarantasei dollari dalla borsa di un impiegato delle poste, un revolver, un cappotto e l’orologio del capotreno e due damigiane di whiskey.
A questo punto, McCurdy è davvero sconfortato. Al di là del colpo finito male, è anche ammalato di tubercolosi. Si rifugia nel ranch dell’amico Charlie Revard, dove era solito nascondersi dopo le sue imprese criminali, e decide di concedersi una sonora sbornia.
Nel frattempo, però, viene messa una taglia di duemila dollari sulla sua testa e tre sceriffi, Bob e Stringer Fenton e Dick Wallace, decidono di formare una posse e di mettersi sulle sue tracce, affidandosi al fiuto dei segugi.
Nottetempo, i tre tutori della legge arrivano alla fattoria e la circondano: quando spunta il giorno inizia l’ultimo giorno della vita del povero Elmer McCurdy. Per questa ultima, avvincente sparatoria abbiamo una dichiarazione dell’epoca, rilasciata dallo sceriffo Bob Fenton:
“Cominciò proprio verso le sette. Noi eravamo appostati lì intorno ad aspettare che uscisse quando sparò il primo colpo nella mia direzione. Mi mancò e poi spostò l’attenzione su mio fratello, Stringer Fenton. Sparò tre volte e quando mio fratello riuscì a mettersi al coperto si concentrò su Dick Wallace. Continuò a spararci per circa un’ora. Noi rispondevamo al fuoco ogni volta che potevamo. Non sappiamo chi di noi tre l’abbia ucciso… abbiamo trovato una delle damigiane rubate dal treno. Era quasi vuota. Doveva essere piuttosto ubriaco quando è arrivato al ranch la scorsa notte”.
Non si sa se a causa dei postumi o se per mancanza di mira, ma Elmer McCurdy “sparava come un coscritto”. Ad ucciderlo fu un colpo di fucile, che lo colse al petto mentre cercava di impallinare gli sceriffi.
Finisce così la vita turbolenta e avventurosa di Elmer McCurdy. Sempre meglio che campare fino a ottant’anni in un ufficio, si potrebbe obiettare, ma le peripezie di quest’uomo sono ancora ben lontane dall’essere terminate.
Cambio di scena. Pipistrelli di cartapesta, ragnatele finte e pupazzi a molla. Una casa degli orrori in un luna park di Long Island, in California. Siamo nel 1976 e una troupe cinematografica sta girando una puntata di una serie televisiva. Durante le riprese, da un manichino di cera, grottescamente ricoperto di vernice fosforescente e impiccato a una forca di cartapesta, si stacca un avambraccio.
I membri della crew constatano, inorriditi, che dal moncone si intravede un osso, circondato da muscoli e tendini essiccati. Chiamano la polizia. Successive analisi scientifiche portano alla luce la storia del falso manichino, che si rivela essere il corpo imbalsamato di Elmer McCurdy.
La sua “seconda vita” inizia poche ore dopo la sua morte, quando il suo corpo viene trasportato in treno sino a Pawhuska e affidato alle cure della Johnson Funeral Home, un’agenzia locale di pompe funebri. Un fotografo, tale William J. Boag, lo immortala nella cassa (com’era allora consuetudine fare con i banditi), di lì a poco viene identificato dalla posse che lo ha ucciso.
Temendo che la faccenda possa andare per le lunghe, il becchino estrae la pallottola dal torace del cadavere e lo tratta con l’arsenico, in modo da ritardare gli effetti della putrefazione. Il lavoro riesce alla perfezione e Elmer, o quello che di lui rimane, non raggiunge la collina degli stivali come tutti gli altri cadaveri, ma si conquista un angolo nello studio dello scavafosse.
Col tempo, il “bandito imbalsamato” diventa una vera e propria attrazione. Per ricavare qualche spicciolo, il becchino lo riveste con i vestiti che indossava un tempo e gli mette tra le mani un fucile, per aggiungere un tocco di realismo.
Il gioco va avanti per cinque anni, fino al 1916, quando due uomini si rivolgono allo sceriffo. Uno dei due si presenta come il fratello di Elmer McCurdy: esige e ottiene la restituzione della salma del compianto fratello.
In realtà l’uomo non è chi dice di essere. Non solo non ha alcun legame di parentela con il defunto, ma lui e suo fratello gestiscono uno spettacolo itinerante che si chiama Patterson Carnival Show. Il cadavere del bandito diventa un’attrazione di questo bizzarro spettacolo e inizia a girare l’America, si sposta in Oklahoma e poi in Texas.
Il macabro tour si conclude dopo sei anni, quando la mummia viene acquistata da un certo Louis Sonney, proprietario di un “Museo del Crimine” a Los Angeles. Il museo consisteva principalmente di riproduzioni in cera dei più famosi banditi, dai Dalton a Jesse James, e Sonney pensò che il cadavere di un vero bandito fosse un’occasione da non perdere per arricchire la collezione.
Nel 1971 anche il signor Sonney passa a miglior vita, e i suoi eredi si sbarazzano della collezione vendendola a un museo delle cere itinerante. La mummia di Elmer passa di mano in mano, deteriorandosi progressivamente, fino ad arrivare al poco dignitoso ruolo di impiccato nella casa degli orrori.
Finalmente, nel 1977 il corpo del maldestro fuorilegge trovò finalmente pace: venne seppellito nel cimitero di Guthrie, in Oklahoma, non lontano dalla tomba di un altro celebre fuorilegge del West, Bill Doolin (1858-1896). Per evitare che il suo grande sonno venisse ulteriormente disturbato, sul sarcofago venne versato mezzo metro di cemento.

“Big Nose” George Parrott: l’uomo che diventò un paio di scarpe

A voler essere rigorosi, la storia che stiamo per raccontare non parla di una mummia. Eppure è così macabra e grottesca che non sfigura nella bizzarra galleria che andiamo delineando.
George Parrott, detto Big Nose o Big Beak per via del suo pronunciato profilo, era un fuorilegge. Proprio come Elmer McCurdy, di cui abbiamo appena parlato, rapinava i treni, ma rispetto al suo “collega” aveva tendenze decisamente più sanguinarie.
Nel 1878, insieme alla sua banda attaccò un treno della Union Pacific in Wyoming. Il colpo non andò a buon fine e Big Nose e i suoi si diedero alla macchia. Due tutori della legge, il vice sceriffo Robert Widdowfield e l’agente Tip Vincent, si misero sulla loro pista, riuscendo a rintracciarli nel Rattle Snake Canyon.


Big Nose – George Parrott

I due ambivano a cogliere i banditi di sorpresa, ma il loro piano andò in fumo quando vennero avvistati da un uomo di guardia. Allertati dalla sentinella, i banditi abbandonarono l’accampamento provvisorio e si nascosero tra i cespugli e quando arrivarono gli inseguitori aprirono il fuoco. Widdowfield morì sul colpo. Vincent tentò la fuga, ma venne freddato prima di riuscire a uscire dal canyon.
Nel febbraio del 1879 Big Nose e i suoi tornano alla carica in Montana, nei pressi dell’attuale Miles City. Il loro bersaglio è un ricco mercante di nome Miles Cahn, diretto a est per fare acquisti. Il magnate viaggia in compagnia di un convoglio militare di quindici uomini, proveniente da Fort Keogh con le paghe dei soldati. I banditi non si lasciano intimorire dai soldati e si lanciano all’assalto in pieno giorno. Come accade nei migliori film western, il luogo dell’imboscata è una stretta gola che da quel giorno si chiama Cahn’s Coulee. I banditi si appostano in una curva, i volti coperti da fazzoletti, e, quando sopraggiunge il convoglio, ne catturano prima l’avanguardia, poi tutto il resto, riuscendo a impadronirsi del carro con le paghe. Il bottino è principesco: le fonti dell’epoca parlano di una cifra che varia dai tremilaseicento ai quattordicimila dollari.
La taglia sulla testa di Big Nose, che era già consistente per via dell’omicidio dei due uomini di legge, raddoppia e raggiunge i ventimila dollari.
Il successo obnubila la prudenza del bandito. Big Nose si sbronza in un saloon di Miles City in compagnia del suo vice, tale Charlie Burris detto “Dutch Charlie”. Persi nei fumi dell’alcol, i due si vantano apertamente per gli omicidi commessi in Wyoming e finiscono col farsi arrestare.
Il bandito nasuto viene riportato in Wyoming, nel carcere di Rawlins, dove deve essere processato per i crimini commessi. Malgrado la situazione disperata, tuttavia, non si perde d’animo e riesce ad aprirsi le manette con un coltello a serramanico. Si nasconde nel bagno e coglie alla sprovvista lo sceriffo Robert Ranking, colpendolo alla testa con le manette manomesse. Anziché perdere i sensi, il coriaceo sceriffo riesce a opporre resistenza e chiama a gran voce sua moglie Rosa, che accorre armata di pistola e respinge Big Nose dentro la cella.
Quando si sparge la voce della tentata evasione, la brava gente della pacifica Rawlins si organizza, mette mano a fucili e forconi e si maschera il volto con cappucci improvvisati. Giunti alla prigione, si fanno consegnare le chiavi dallo sceriffo e prendono in custodia il povero Big Nose, che di lì a poco balla il suo ultimo valzer con un cappio al collo, appeso a un palo del telegrafo.
Il linciaggio è la fine violenta della violenta esistenza di Big Nose Parrott e fin qui la sua vicenda è simile a quella di mille altri fuorilegge che affollano le cronache del west. Ma la storia non è ancora finita.
Tra i facinorosi che somministrano la spietata sentenza c’è anche John Osborne (1858-1943), banchiere e futuro governatore dello stato, appassionato di scienza e medicina. In compagnia del dottor Thomas Maghee, si fa affidare il cadavere dell’impiccato per scopi scientifici.
Il primo obiettivo dei due è quello di esaminare il cervello del criminale, per capire se la sua devianza è riconducibile a una particolare morfologia. L’idea può forse apparire stramba, ma non è diversa dalle teorie di Cesare Lombroso (1835-1909), che pressappoco in quegli anni predicava le stesse cose al di qua dell’Atlantico.


Le scarpe ricavate da Big Nose

Per estrarre il cervello, segano la calotta cranica e la regalano alla quindicenne assistente del dottor Maghee, Lilian Heath. La ragazza conserverà il macabro trofeo come oggetto d’arredamento, impiegandolo come posacenere e fermaporta.
Una volta constatato che il cervello di un bandito non è poi così diverso da uno sano, Osborne decide di fare un calco del volto del criminale. Anche in questo caso, l’operazione è riconducibile alla frenologia e alle teorie del tempo, che volevano che la criminalità fosse riconoscibile da particolari caratteristiche fisiche e morfologiche del cranio: nel Museo Lombroso di Torino si possono ancora ammirare decine di inquietanti calchi di questo tipo. La maschera mortuaria di Big Nose non ha le orecchie, perché pare che lo sventurato se le fosse strappate dimenandosi appeso al cappio.
Di qui in poi, le azioni del signor Osborne, rispettato cittadino, diventano più discutibili. Scuoia il petto e le cosce di Big Nose e manda la pelle a un ciabattino di Denver, ordinandogli di confezionargli un paio di scarpe e una borsetta. Si raccomanda che sulle scarpe siano visibili i capezzoli dell’uomo, in modo da non lasciare dubbi sulla loro effettiva provenienza.
L’artigiano non esegue alla lettera le indicazioni di Osborne: nelle calzature che gli consegna non sono visibili i capezzoli. Ciononostante, il committente dovette rimanere soddisfatto delle scarpe, perché le indossò fieramente in diverse occasioni ufficiali.
Il resto del corpo del fuorilegge venne invece conservato in soluzione salina per oltre un anno, in modo da consentire al dottore di eseguire chissà quali altre dissezioni ed esperimenti. Alla fine, i miseri resti vennero seppelliti nel giardino del dottor Maghee, dove vennero casualmente rinvenuti negli anni ’50, durante uno scavo. La scatola cranica scoperchiata, che combaciava perfettamente con il pezzo conservato dall’assistente del dottor Maghee, permise di ricostruire l’intera curiosa vicenda.
Se siete curiosi di vedere di persona le scarpe che un tempo furono il pericoloso fuorilegge Big Nose, dovete recarvi al Carbon County Museum della città di Rawlins, in Wyoming. Le troverete in una teca, insieme alla sua maschera mortuaria e a un orologio da polso, omaggiato alla moglie dello sceriffo per averne impedito la fuga.


I resti del cranio di Big Nose

Le manette di Big Nose, invece, insieme alla sua calotta cranica, sono esposte a Omaha, in Nebraska, nel museo della Union Pacific.
La borsetta commissionata al conciatore, invece, non si sa che fine abbia fatto.
Finisce qui questa lunga avventura nel terreno dell’insolito, questa galleria di storie che ha per soggetto una bizzarra e profana “resurrezione dei corpi”. In un mondo come quello della Frontiera, in cui si dava del tu alla morte ogni giorno, la sensibilità in relazione a reperti così macabri doveva sicuramente essere diversa da quella contemporanea.
Come ammoniva Shakespeare, “ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia” e la storia del West è certo priva di sorprese e stranezze.

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