Storia dei popoli del Nord-America – 1

A cura di Claudio Ursella
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Le origini, il mondo nuovo

L’espressione “Nuovo Mondo” con cui gli Europei identificarono le Americhe, ha una sua verità più profonda di quella immediatamente evidente ad ogni occidentale; in effetti le Americhe non sono un mondo nuovo solo per gli Europei, che ne vennero a conoscenza alla fine del ‘400, ma per tutta la specie umana, che solo in tempi relativamente recenti conobbe questo immenso continente.
Dalle prime varietà di ominidi dell’Africa equatoriale, passando per l’Home Erectus, il Neanderthal, fino all’Homa Sapiens, la vicenda della specie umana si snoda per centinaia di migliaia di anni, in una lenta ma costante evoluzione, a cui si accompagna una parallela diffusione verso ogni angolo dell’Europa, dell’Africa e dell’Asia; tale processo però non coinvolse in alcun modo il continente americano, dove non sono stati mai trovati reperti che testimoniassero la presenza di ominidi, o di altre specie “homo”, che non fossero l’homo sapiens; a ciò va aggiunto che in America non vivono, ne risultano mai vissute, le scimmie antropomorfe che sono le nostre parenti più prossime.
Per decine di migliaia di anni, mentre la specie umana si evolveva e si diffondeva ovunque, tutto il continente americano fu una terra senza umani, una terra senza cacciatori provvisti di specifiche, ancorchè semplici tecnologie, una terra in cui il dominio del fuoco era ignoto, così come era ignota ogni attività predatoria che non fosse immediatamente connessa alla contingente necessità di cibo del predatore: l’uomo, il predatore al vertice della catena alimentare, era assente.


Gli spostamenti del genere umano

La specie umana, la cui attività predatoria trascende l’impulso immediato alla ricerca di cibo, per divenire elemento fondativo di una cultura sempre più complessa, è l’unica specie di predatore che non è totalmente sottomesso a quelle leggi che regolano l’equilibrio tra le speci, evitando che una di esse cresca al punto di mettere a rischio, prima tutte quelle che la circondano, poi anche se stessa. La più feroce popolazione di leoni, non metterà mai a rischio la sopravvivenza della popolazione di erbivori di cui si nutre, e il rapporto tra i due gruppi sarà sempre necessariamente equilibrato. Solo l’uomo è in grado di mettere in discussione tale equilibrio, e non solo per la maggiore efficacia delle tecniche di caccia, ma anche e soprattutto per la capacità di reinvestire in modo ulteriormente produttivo la quantità di energia che il buon risultato della caccia gli mette a disposizione. Così non si limiterà a mangiare la sua preda e a farla mangiare ai suoi cuccioli, ma ne userà le ossa e i denti per farne armi e utensili, la pelle per coprirsi dal freddo e avvicinarsi di nascosto alla preda, seccherà e conserverà una parte della carne per i tempi di magra, costruirà sull’evento predatoria una narrazione che diverrà memoria ed esperienza collettiva, e userà la caccia stessa come occasione per produrre gruppi coesi e selezionare i leader più forti. Questo rende l’uomo il più efficace, temibile e spietato tra i predatori.
In America l’uomo non c’era; per decine di millenni un immenso eden naturale, senza il peccato originale della coscienza, è esistito, solo patrimonio di quelle specie animali che per secoli abbiamo pensato create solo per essere poste sotto il nostro dominio. Mentre da centinaia di migliaia di anni in Africa, in Europa e in Asia, la comparsa dell’uomo aveva accompagnato il progressivo declino dei grandi mammiferi della preistoria, l’America era stata risparmiata dall’impatto con il predatore umano, che fu una delle cause dell’estinzione di gran parte della megafauna primigenia.


Il corridoio libero dal ghiaccio

Ma l’incanto di questa immensa, primordiale e autentica terra vergine, si ruppe alla fine in un giorno ignoto in una lontananza indefinita, quando per la prima volta una punta di selce scheggiata, trafisse le carni di un bisonte dalle grandi corna; ma perchè ciò potesse accadere, e l’uomo potesse violare l’Eden, varcandone la stretta porta d’accesso, dovettero prodursi condizioni particolari, la cui durata fu relativamente breve.
Il luogo più vicino all’America in cui l’uomo preistorico giunse nel corso della sua inarrestabile diffusione, furono le fredde foreste dell’estremo est asiatico, dove l’uomo fece la sua comparsa nel pleistocene superiore tra i 50.000 e i 40.000 anni fa. Oggi le estreme propagini della Siberia sono divise dall’Alaska e dal Nord America, dal braccio di mare detto Stretto di Bering, interrotto dalle isole Diomede, e benchè la traversata da una all’altra di esse sia praticata dalle popolazioni eschimesi, è impossibile immaginare che in epoche preistoriche, orde di cacciatori nomadi continentali, abbiano deciso di affidare al mare i loro destini, inventando di sana pianta le tecniche necessarie ad affrontare un simile viaggio. Il passaggio doveva essere via terra, e non fu possibile fin quando il mare divise i due continenti; ma le condizioni giuste per il passaggio si presentarono in più occasioni, almeno ogni qualvolta l’abbassarsi della temperatura durante una fase glaciale, immagazzinando una imponente quantità d’acqua ghiacciata intorno ai poli, determinò un abbassamente del livello degli oceani e una conseguente emersione di vaste aree costiere.
Fu così che l’abbassamento del livello dell’oceano Pacifico, produsse il formarsi di un vasto ponte di terra, coincidente con quella parte del mare di Bering la cui profondità attuale non supera i 50 metri, e che si estendeva a nord e a sud dello stretto omonimo. Tale ponte di terra, denominato dagli studiosi Beringia, potrebbe aver modificato i flussi delle correnti marine, sbarrando il passaggio delle fredde acque dell’Artico a sud, e permettendo alle correnti calde provenienti dal Pacifico meridionale, di estendere le loro influenze mitigatrici più a nord di quanto accada oggi; così, grazie a tali correnti meridionali, la Beringia sarebbe rimasta in gran parte libera dai ghiacci, che pure coprivano zone poste a latitudini più meridionali.
Oltre questa sorta di oasi dell’epoca glaciale, gran parte degli attuali Canada e Alaska erano ricoperte da due immense coltri ghiacciate, una sull’area delle Rocky Mountains, l’altra sul cosiddetto Scudo Laurenziano, la vasta regione che si estende intorno alla Baia di Hudson, fino ai Grandi Laghi e oltre; tra queste due immense calotte ghiacciate, è però quasi certo che per periodi di maggiore o minore durata, si aprì un corridoio, che dalle terre emerse della Beringia, attraverso le valli dello Yukon e del Mackenzie, poteva permettere agli invasori umani, di superare le zone ghiacciate e diffondersi per tutto il continente; oltre a questa via, lungo la costa del Pacifico, in una zona di terre emerse più estesa di quella odierna, a causa del più basso livello dei mari, un’altra via poteva aprirsi in coincidenza del parziale ritiro dei ghiacci, e anche approfittando delle influenze mitigatrici delle correnti oceaniche meridionali.
Abbiamo così due possibili vie lungo le quali i primi umani poterono colonizzare il continente americano, una più occidentale, lungo una zona costiera oggi parzialmente sommersa, l’altra posta a est delle Rocky Mountains, nella valle del Mackenzie; a queste due vie, sicuramente va aggiunta una via intermedia, apertasi però solo in epoca tarda, alla fine del Pleistocene, nelle vallate delle Rocky Mountains, dove la calotta glaciale si ritirò in tempi relativamente brevi.
Questo fu quasi certamente ciò che accadde, più difficile è determinare con precisione quando ciò effettivamente accadde. L’orizzonte temporale in cui il popolamento dell’America va calato è quello del Pleistocene superiore, in particolare dell’ultima parte del Pleistocene superiore, corrispondente ad un lasso temporale che va da circa 110.000 a 12.000 anni fa. Tale periodo, conosciuto in America come Wisconsin e in Europa come Wurm, vide una immensa estensione dei ghiacci, che dai poli raggiungevano in Europa la Germania, e in Nord America la valle del Missouri e dell’Ohio; questo mondo dominato dai ghiacci, fu il teatro della prima epopea umana, quella che portò l’homo sapiens a colonizzare l’intero pianeta, inseguendo le mandrie dei grandi mammiferi, di cui era divenuto l’efficiente predatore.
Durante tale lunghissimo periodo comunque, l’espansione dei ghiacci non fu costante, e per periodi più o meno lunghi, e sempre nell’ordine delle migliaia di anni, le temperature crebbero, le calotte ghiacciate si ridussero lungo i limiti meridionali, alle temperature rigide e alle scarse precipitazioni, succedettero fasi di temperature più calde e precipitazioni abbondanti.


Beringia

E’ nell’ambito di tali variazioni del clima, delle precipitazioni e del livello dei mari, che va collocata la vicenda di Beringia, emersa e scomparsa più volte nel corso di 100.000 anni, e delle due vie per il sud, aperte o chiuse dai ghiacci e dall’acqua a più riprese. Diverse sono le ipotesi degli studiosi rispetto ai momenti in cui il ponte di terra di Beringia fu percorribile, così come rispetto all’apertura delle due vie per il sud, e qui di seguito riportiamo uno schema che raccoglie in forma sintetica una delle ipotesi probabili.
Le complesse valutazioni dei paleoclimatologi, ci offrono i primi elementi per definire l’epoca in cui ebbe inizio la colonizzazione del continente americano, e a queste valutazioni vanno poi aggiunti gli studi dei paleoantropologi e i ritrovamenti, per quanto scarsi, frutto della ricerca archeologica.
Come già accennato l’uomo non fece la sua comparsa in Asia orientale prima di 50.000 anni fa, ma secondo molti studiosi, egli elaborò le tecniche necessarie a sopravvivere a latitudini elevate, immediatamente a ridosso della calotta glaciale che ricopriva gran parte della Siberia, solo in tempi più recenti 30.000, forse 40.000 anni fa. A quest’epoca è probabile che i primi gruppi umani abbiano raggiunto la Beringia, dove certamente essi non si limitarono a transitare, ma risiedettero per lungo tempo in relativo isolamento, anche dal contesto asiatico di provenienza; nell’isolamento delle terre di Beringia, che durò certamente per migliaia di anni, questi primi gruppi umani selezionarono gruppi sanguigni caratteristici e specifici, che rendono omogenea la popolazione dei nativi americani e la differenziano dai popoli di altri continenti. Furono questi primi gruppi umani a colonizzare il continente americano, anche se non sono ancora chiari i tempi e le dinamiche di questa colonizzazione; molti elementi indicano che nel corso di decine di migliaia di anni, una lenta, rada e inconsapevole migrazione, si sia certamente prodotta, ma è solo dalla fine del pleistocene che ci sono chiare evidenze di una vera e propria colonizzazione del nuovo continente.


Scena invernale in Beringia

Tracce di una prima migrazione sono state trovate in tutto il Nord e Sud America a partire dal 27.000 a.C.: è fatto risalire a quest’epoca un raschietto fatto con una tibia di cariboù, ritrovato nella regione dello Yukon, poi seguendo le tracce del percorso umano all’interno del continente americano, si giunge nell’Alberta dove i resti di ossa di un bambino, sono fatti risalire ad un epoca poco più recente del raschietto dello Yukon, forse 25.000 anni fa; più o meno dello stesso periodo sono reperti, la cui valutazione è più incerta, ritrovati in California; considerati indiscutibilmente testimonianza della presenza umana, sono i ritrovamenti di Tlapacoya in Messico, ossa animali e reperti litici risalenti a 23.000 anni fa, mentre a 20.000 anni fa risalgono altri reperti, provenienti da una caverna delle Ande settentrionali, e a 16.000 anni fa quelli del sito di Monte Verde in Cile. La certezza della presenza umana prima della fine del pleistocene, è basata su scarsi e spesso discussi ritrovamenti, dispersi in tutto il continente dalle regioni orientali degli Stati Uniti, fino al Messico e al Cile; ciò dovrebbe indurre a ritenere che per diverse migliaia di anni, attraverso le terre di Beringia, e forse lungo il corridoio costiero, secondo alcune teorie aperto in tempi più antichi rispetto al corridoio della valle del Mackenzie, piccoli gruppi umani, separatamente giunsero nel nuovo continente, diffondendosi fino alle estreme regioni meridionali, vivendo in relativo isolamento l’uno dall’altro, e lasciando scarsissime tracce del loro passaggio.
Depositi di ossa animali, residui di focolari, pietre rozzamente lavorate e pochi resti di ossa umane dalla discussa datazione, sono stati ritrovati in ogni parte del continente, e se ogni singolo sito scavato può essere oggetto di valutazioni diverse e dispute, è difficile pensare che in tutti i siti gli archeologi abbiano preso degli abbagli. Ciò che comunque accomuna tutti questi siti è la mancanza di quei reperti litici che chiaramente testimoniano l’attività umana, quelle punte di pietra che furono il primo utensile che permise agli umani il successo nella caccia, e che in epoca successiva segnano la pista dell’evolversi delle prime comunità umane. Discussa e anche oggetto di accuse di frode è il ritrovamento delle punte di lancia nella caverna di Sandia Mountain in New Mexico, posizionate in uno strato al di sotto di reperti più recenti e datate all’inizio a circa 20.000 anni fa; le punte di Sandia ricordano nella forma e nella lavorazione simili oggetti prodotti dalla cultura Solutreana, risalente anch’essa a circa 20.000 anni fa, e diffusa nell’Europa occidentale, ma come già detto la loro datazione rimane piuttosto dubbia.


Le Sandia Mountains

Tra i reperti ritrovati a Cactus Hill, un sito della Virginia orientale, risalente a 16 18.000 anni fa, ci sono pietre lavorate che possono ricordare le punte di lancia di Sandia, e quindi le tecniche europee dei Solutreani. Sulla base di questi elementi alcuni studiosi hanno ipotizzato addirittura una colonizzazione dall’Europa, attraverso il pack ghiacciato che ricopriva l’oceano Atlantico, ma tale ipotesi presuppone la conoscenza di tecniche analoghe a quelle degli Inuit storici, che è difficile immaginare in epoche così remote. Nel complesso è possibile affermare chè benchè sia certo il ritrovamento di manufatti litici, i primi abitanti del continente non ci hanno lasciato testimonianza diffusa della capacità di fabbricare punte di lancia, come invece è accaduto in Europa, e la mancanza di questi oggetti fa si che molti studiosi definiscano questa fase del popolamento del continente come “Pre Punte”.
D’altra parte è difficile ipotizzare che tali utensili non fossero noti ai primi colonizzatori, essendo essi già in uso in Eurasia e, volendo tentare una spiegazione, ciò potrebbe essere in relazione con una possibile prima penetrazione umana, prevalentemente attraverso la via costiera, piuttoso che non le zone interne del Mackenzie. In questo caso è possibile che il modello economico di sopravvivenza dei primi emigranti nel nuovo continente, privilegiasse le risorse del mare, la raccolta di molluschi in particolare, che garantisce risorse certe e abbondanti, piuttosto che non la caccia ai grandi mammiferi. Un modello di sussistenza simile, avrebbe potuto portare alla perdita della tecnica di costruzione di grandi punte, come quelle usate per la caccia ai grandi mammiferi, e quindi un successivo sviluppo di altre modalità di sopravvivenza, più legate alla piccola selvaggina, alla pesca, alla raccolta. Un tale modello di sussistenza era comunque più precario, offriva minori opportunità allo sviluppo di comunità più numerose, e questo può forse spiegare le ragioni per cui la prima colonizzazione del nuovo continente, fu così lenta e lascia così poche testimonianze. D’altra parte è certo che un tale modello di sussistenza fu certamente presente, nelle regioni a ovest delle Rocky Mountains, anche quando in tutto il Nord America, si affermavano le comunità di cacciatori di grandi mammiferi. L’uomo può quindi essere entrato per la prima volta in America, non come il predatore al seguito delle grandi mandrie, ma con piccoli gruppi marginali, che seppero sopravvivere raccogliendo e utilizzando le risorse che l’ambiente, e il mare principalmente, metteva loro a disposizione, senza produrre alcun impatto ambientale, nel continente vergine in cui avanzava.
Anticipare la presenza umana a tempi più remoti, rispetto alla fine del Pleistocene, permette anche di spiegare come il Sud America possa essere stato colonizzato, a meno che non si voglia immaginare che anche il popolamento delle estreme regioni meridionali non sia antecedente alla fine del Pleistocene, e che nell’arco di pochi secoli o al massimo un millennio, a partire da 14.000 anni fa, tutto il continente possa essere stato raggiunto da bande di cacciatori nomadi i cui spostamenti erano casuali e determinati dalla sola necessità di trovare cibo. Ipotizzare che in pochi millenni, una popolazione di qualche migliaio di individui (o di poche decine di migliaia di individui), abbia potuto colonnizzare totalmente, dall’Alaska alla Terra del Fuoco, l’intero continente, senza peraltro averne, ne la volontà, ne la coscienza, e senza nemmeno conoscere il continente stesso, è poco probabile.


Un reperto trovato a Cactus Hill

Più realistico ipotizzare che il continente americano abbia visto diversi limitati flussi migratori, in epoche diverse e di diverso impatto demografico, prima che un significativo processo di colonizzazione potesse realizzarsi; probabilmente, benchè le condizioni per una migrazione si produssero anche in tempi più antichi, non fu che verso la fine del Pleistocene che tale migrazione divenne numericamente significativa, mentre in epoca precedente essa può aver interessato solo pochi e isolati gruppi umani, che pur in grado di diffondersi in tutto il continente fino alle sue propagini meridionali, non furono in numero tale, ne elaborarono tecniche tali, da lasciare dietro di se altro che poche e incerte testimonianze.
L’ipotesi di diversi flussi migratori, a distanza di molto tempo l’uno dall’altro, spiegherebbe anche l’assenza di relazioni evidenti tra gli idiomi parlati in Nord America e in Sud America; se i gruppi umani che raggiunsero il Sud America migrarono nel Nuovo Continente separatamente e in tempi molto più remoti, rispetto a quelli che invasero il Nord America, non avrebbe senso cercare tra essi relazioni linguistiche, che in effetti non risultano esistere. D‘altra parte l’esistenza in Nord America di piccole popolazioni parlanti lingue totalmente isolate e differenti da quelle dei popoli circostanti, potrebbe essere spiegata proprio come permanenza di residui di flussi migratori più antichi.
In sintesi è possibile affermare che i primi gruppi umani che giunsero in Beringia poco meno di 40.000 anni fa, si siano poi diffusi nel contente americano a partire da 30 25.000 anni fa, anche se si deve giungere a 13.500 anni fa, prima di trovare testimonianze dell’ampia diffusione della specie umana nel nuovo mondo. Sono infatti di questo periodo le più antiche punte di lancia, dette Clovis, dalla località del Nuovo Mexico dove furono per la prima volta rinvenute, che testimoniano non solo la presenza ma l’evoluzione tecnologica dei primi paleo indiani. Da queste momento in poi le testimonianze della presenza umana si fanno più ricche e diffuse in tutto il continente, e attestano inequivocabilmente l’avvenuta colonizzazione. Come sia possibile che ad una quasi totale assenza di testimonianze della presenza umana fino al 13.500 anni fa, faccia poi seguito una fase che ha lasciato dietro di se una gran quantità di reperti litici, punte di freccia in particolare, è un fatto che ha portato molti studiosi a non accettare per lungo tempo l’ipotesi di una presenza umana precedente a questo periodo, ma oggi ogni resistenza è caduta.


Genti di Beringia

La scarsa presenza umana nelle fasi più antiche, e la sua esplosione in epoca successiva a partire da 13.500 anni fa, può forse trovare una spiegazione nelle complesse dinamiche che permisero l’aperture delle vie verso il sud, oltre le calotte artiche canadesi. Così benché già in epoca precedente la via costiera e quella del Mackenzie siano state aperte per periodi più o meno lunghi, è solo circa 15.000 anni fa, che ha inizio il processo di scioglimento delle calotte glaciali, processo molto lento a est, nella vasta zona ricoperta dalla calotta Laurenziana, dove durò almeno 10.000 anni, ma che fu molto più veloce ad ovest, in quella che è chiamata calotta della Cordigliera, dove nel giro di 3-4.000 anni, i ghiacci si ritirarono dalle vallate, rimanendo solo nelle zone d’alta quota. Il progressivo scioglimento della calotta glaciale della Cordigliera, non solo lasciava libero il passaggio attraverso le valli montane dell’ovest, ma liberava definitivamente il passaggio lungo la valle del Mackenzie, aprendo così la via al passaggio dei nuovi colonizzatori, mentre quello lungo la costa del Pacifico, il passaggio più antico e quello che certamente per più lunto tempo era rimasto aperto, iniziò progressivamente a ridursi, per l’aumento del livello dei mari, successivo al progressivo disgelo.
I nuovi colonizzatori, non giungevano direttamente dall’Asia, bensì dalla Beringia, il vasto ponte di terra che univa l’Alaska alla Siberia; sicuramente questa regione, libera dai ghiacci e ricca di selvaggina era già da tempo abitata dall’uomo, almeno da 30.000 anni prima, gruppi umani che nel corso del tempo avevano perso i rapporti con le proprie origini asiatiche, e che nel corso degli stessi millenni, avevano alimentato il rivolo migratorio a cui è dovuta la più antica presenza umana in America. E’solo alla fine del Pleistocene, in coincidenza con l’inizio del ritiro dei ghiacci, che questi abitanti della Beringia possono dare vita a nuove e più numerose ondate migratorie verso l’America, prendendo possesso del continente, e sovrapponendosi alle disperse e numericamente limitate bande che li avevano preceduti. Possiamo immaginare che a differenza dei primi colonizzatori, queste popolazioni già avessero prodotto un buon livello di specializzazione nella caccia ai grandi mammiferi, e che la colonizzazioone si sia prodotta proprio al seguito delle grandi mandrie di mammiferi, che si spostavano prendendo possesso delle terre liberate dai ghiacci.
La disponibilità di queste grandi mandrie di mammiferi, può aver permesso una crescita demografica e quindi un sistema di relazioni tra le diverse bande e gruppi famigliari, tale da determinare un processo di spostamento più coordinato, più simile alla migrazione di un popolo, che al casuale vagare di piccoli gruppi umani isolati. Così mentre in Sud America gli eredi della prima colonizzazione americana continuavano progressivamente ad avanzare nelle terre vergini, al nord un processo relativamente veloce portava in poco tempo l’uomo ad insediarsi definitivamente in tutta la parte del Nord America libera dai ghiacci.


Paleo-indiani del Great Basin

E’ da questo momento che possiamo tentare di ricostruire la storia e gli sviluppi culturali degli indiani storici, da questi gruppi di cacciatori nomadi della fine del pleistocene, abitualmente definiti “paleoindiani”; è da quest’epoca che possiamo definire con relativa certezza una sostanziale continuità, antropologica e linguistica, tra i primi colonizzatori del Nord America e gli indiani della storia; è in questo momento che gli indiani fanno la loro comparsa, ma ancor prima di iniziare a seguire le loro vicende, doveroso è soffermarci su chi erano, questi antichi pionieri.

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