Gli anni del cambiamento
A cura di Domenico Rizzi
Speciale a puntate: 1) John Wayne, un gigante del cinema western 2) La lunga gavetta di John Wayne 3) John Wayne: la ripresa del western 4) John Wyane, attore ormai affermato 5) Altri film di John Wayne 6) Strada aperta per John Wayne 7) Il meglio di John Wayne 8) Strade diverse 9) Alamo, un trionfo a caro prezzo 10) Uomo d’azione 11) Eroe nell’ombra 12) Gli anni del cambiamento 13) Il lento declino 14) La solitudine dell’eroe
Dopo il successo di “L’uomo che uccise Liberty Valance”, Wayne si cimenta in due o tre ruoli non proprio esaltanti, girando, ancora con Ford, “I tre della croce del Sud” al fianco di Lee Marvin, Elizabeth Allen e Jack Warden, il western “Mc Lintock” diretto da Andrew Victor Mc Laglen – nel quale lavora anche suo figlio Patrick e le partner femminili sono Maureen O’Hara, Stefanie Powers e Yvonne De Carlo – e “Circus World”, regia di Henry Hathaway, distribuito in Italia nel 1964 con il titolo “Il circo e la sua grande avventura”.
Ormai sa di non poter più contare sulla saggia guida di John Ford prossimo al ritiro e comincia a rendersi conto che il western non è più quello di un tempo.
Se da un lato il genere registra un forte recupero sul mercato, producendo 42 film nel 1964, dall’altro è innegabile che Hollywood stia perdendo il proprio monopolio e che la linea classica sia stata sovvertita da alcuni registi emergenti. In Italia, Sergio Leone ha girato “Per un pugno di dollari” e si appresta a dargli un seguito con “Per qualche dollaro in più” e “Il buono, il brutto, il cattivo”. Il cowboy tradizionale narrato da Owen Wister in “Il Virginiano” si sta facendo da parte come Tom Doniphon di fronte all’avvocato Ransom Stoddard, ma non è un uomo dalle buone maniere cresciuto nell’Est a scalzarne il ruolo, bensì lo spietato pistolero che non sembra provare alcun sentimento e per il denaro non guarda in faccia a nessuno.
L’astro nascente a livello mondiale diventa un attore televisivo di 33 anni, quel Clint Eastwood che riesce ad imporre il nuovo clichè indossando un poncho messicano e stringendo un cigarillo fra i denti. E’ un uomo che non parla molto, spara velocemente, si sposta a dorso di mulo come usava il generale Crook anziché servirisi del cavallo e ama mettersi in mezzo tra due fazioni rivali. Non sembra possedere una fede, né un credo politico, ignora le donne e non è disposto a rinunciare al compenso che gli spetta.
Anche Wayne, come Eastwood nella trilogia leoniana, ha quasi sempre indossato gli stessi abiti in scena – camicia azzurra o rossa con doppia fila di bottoni, calzoni di tela o fustagno color panna che terminano sopra la caviglia, giacca proporzionalmente corta – ma il suo atteggiamento sornione e l’espressione bonaria di tanti film lasciano il posto allo sguardo glaciale della nuova star.
Lo spaghetti-western comincia a dilagare proprio nel 1964, quando John è alle prese con “il grande C”, il cancro che lo priverà di un polmone. I nuovi registi cambiano stile, i personaggi vecchia maniera di Hawks e Ford segnano il passo: i “romantici” superstiti del West si possono ritrovare in “Sfida sull’alta Sierra” di Peckinpah, dove due relitti rappresentati da Joel Mc Crea – il Buffalo Bill dell’omonimo film di William Wellman nel 1944 – e il cowboy-sceriffo Randolph Scott cavalcano ancora insieme per l’ultima volta. Il maggiore Dundee di Peckinpah (“Sierra Charriba”, 1965) non somiglia a nessuno dei soldati della trilogia fordiana; neppure i fuorilegge del western ciociaro-andaluso, come Ramon Rojo o El Indio, hanno qualcosa in comune con i fratelli Miller di “Mezzogiorno di fuoco” o con l’arrogante Liberty Valance.
Da molti aspetti del nuovo corso, si comprende che il western è diventato sempre meno americano, sia nelle trame che nella loro ambientazione. Sono iniziati gli anni del grande cambiamento e rimanere a galla diventerà sempre più difficile.
I 4 figli di Katie Elder
Per John Wayne si tratta di ritagliarsi uno spazio in cui salvaguardare la propria identità, cercando di non snaturare un’immagine costruita in tanti anni di duro lavoro.
Dopo la ridotta partecipazione a “La più grande storia mai raccontata” diretto da George Stevens nel 1965, nel quale veste gli inconsueti panni di un centurione romano che accompagna Cristo verso la croce, nel medesimo anno il Duca recita nel film di guerra “Prima vittoria” sotto la sapiente direzione di Otto Preminger, ma il suo ritorno al genere più amato è appena dietro l’angolo. Sempre nel 1965 Wayne impersona John Elder in “I 4 figli di Katie Elder” di Henry Hathaway, una pellicola senza troppe pretese che gli consente di tornare ad un ruolo tradizionale. Poiché il genere è ormai in rimonta grazie al boom commerciale dei film di Leone, la produzione può essere soddisfatta anche sotto questo profilo, perché l’incasso supera abbondantemente i 13 milioni di dollari.
Negli anni che seguono Wayne, che sembra avere domato il male che l’affligge, non si discosta più dalla tipologia dei personaggi che l’hanno reso celebre, ripetendo se stesso anche fino alla noia nella parti del “duro” un po’ burbero ma sorretto da una specchiata onestà. Rimane il “lone rider” di sempre, solamente un po’ più attempato e si tira addosso critiche feroci soltanto per la sua interpretazione del colonnello Kirby ne “I berretti verdi”, che dirige personalmente facendo infuriare tutti coloro che osteggiano l’intervento americano nel Vietnam. In realtà John ha inteso girare un film patriottico e di supporto “ai nostri ragazzi impegnati a difendere una giusta causa” (opinione che “democraticamente” non gli si concede) come fece al tempo in cui produsse “La battaglia di Alamo”. Questa volta però il risultato è decisamente migliore, perché il film incassa quasi 22 milioni di dollari con una spesa che è stata meno di un terzo. Questo basterà tuttavia a far affermare a qualche critico, in occasione della morte del grande attore, che egli “rappresentava tutto ciò che vi era da disprezzare”, affermazione faziosa che non può trovare condivisione da parte di chi ha conosciuto l’uomo, l’attore, il regista e il suo lunghissimo curriculum.
Nel riproporre, talvolta pedissequamente, l’immagine del frontiersman un po’ rozzo e senza paura, Wayne non trova sempre sulla sua strada registi all’altezza di chi lo fece grande nel passato.
Andrew Victor Mc Laglen, George Sherman, Mark Rydell e Burt Kennedy non possiedono lo humour di Hawks e di Ford e spesso il gigante buono appare eccessivamente monocorde. Tuttavia, con Henry Hathaway e Don Siegel riuscirà di nuovo a lanciare due acuti destinati a rimanere nella storia del cinema western.
Con Burt Kennedy ha girato nel 1967 “Carovana di fuoco” al fianco di Kirk Douglas, un discreto film d’azione tratto dal romanzo di Clair Huffaker, per tornare lo stesso anno, sotto la regia di Hawks, sulla scena di “El Dorado”, dubbio remake di “Un dollaro d’onore”, ma la bravura dei comprimari Robert Mitchum, Arthur Hunnicut e James Caan non basta a far dimenticare i vari Dean Martin, Walter Brennan, Ricky Nelson e Angie Dickinson. Costato 4 milioni e mezzo, il film ne incassa quasi 6 soltanto in USA e Canada e promette bene anche all’estero. Wayne sembra soddisfatto, gli affari vanno bene e la sua malattia comincia a diventare soltanto uno spiacevole ricordo. L’esplosione dello spaghetti-western e la nascita del revisionismo non lo preoccupano eccessivamente, perché i suoi film – e soprattutto i suoi personaggi classici, che interpretano temi altrettanto classici – incontrano ancora un largo favore delle platee.
Carovana di fuoco
Ciò che manca ancora al Duca è tuttavia un autorevole riconoscimento della critica, una parte della quale lo ha sempre aprioristicamente disprezzato mentre l’altra ha riconosciuto la sua statura artistica soltanto in rare occasioni. Eppure molti registi e attori stravedevano per lui, cominciando dal “genio” Orson Welles per arrivare a Charlton Heston, il quale dichiarò in un’occasione: “Tra i 10 migliori film della storia del cinema, c’è un western con John Wayne.”
L’Oscar alla carriera
Nel 1968 lo scrittore statunitense Charles Portis pubblica un romanzo fondato sul racconto della ragazzina Mattie Ross la quale, inseguendo l’assassino di suo padre, si imbatte in un rozzo e attempato sceriffo federale dell’Oklahoma, che dà la caccia ai criminali con ostinata determinazione.
“Il più cattivo di tutti” le spiega un uomo della legge “E’ Reuben Cogburn, detto ‘Il Grinta’. E’ un tipo duro e spietato, uno che non sa cos’è la paura. Però ci va giù pesante con l’alcol.”
Cogburn, che è privo dell’occhio sinistro, dorme su un’amaca che fatica a reggere il suo peso nel retrobottega del negozio di un Cinese, con l’unica compagnia di un gatto zebrato che porta il nome del generale confederato Sterling Price. Come Mattie ha già saputo, è perennemente ubriaco.
Quando Wayne legge le prime pagine del libro di Portis, prende una decisione immediata: il “Grinta” sembra un personaggio creato su misura per lui. La Batjac tenta di acquisirne subito i diritti, ma Hal Wallis l’ha già preceduta; nonostante ciò sono in molti ad essere concordi sul fatto che quella parte debba essere la sua e Wallis gliela accorda.
Marguerite Roberts si incarica di adattare il racconto di Portis al film – “il più bel soggetto che io abbia mai letto”, dichiarerà il Duca – e Henry Hathaway ne assume la regia.
Le riprese iniziano a settembre del 1968 nella Ouray County del Colorado, ma prevedono anche scorci sulle pendici orientali della Sierra Nevada, in California, soprattutto nelle località di Mammoth Lakes, Mount Morrison e Laurel Mountain. La lavorazione si concluderà nel mese di dicembre.
Per quanto riguarda l’interpretazione di John non sorge alcun problema: fisicamente è tornato in forma e mostra la solita verve. L’entusiasmo per il personaggio che dovrà impersonare – rude, sregolato, sfrontatamente sincero, facile all’alcol come alle risse – gli ha dato inoltre una carica eccezionale. Infatti dichiarerà: “Rooster era un lurido, vecchio bastardo, un ubriacone figlio di puttana, proprio come me!” Al solito, il problema maggiore lo avranno gli attori destinati a lavorare con lui, dal momento che è abituato ad improvvisare battute e risposte.
Una difficoltà si presenta subito, perché l’attrice prescelta per la parte di Mattie Ross, la bionda ventitreenne Mia Farrow di Los Angeles, fa sapere a Wallis di accettare soltanto se la regia verrà assegnata a Roman Polanski – con il quale ha appena lavorato in “Rosemary’s Baby” – che di western non ne ha mai diretti, ma si è già creato una chiara fama internazionale. Il motivo sembra legato ad una malignità fatta dall’attore Robert Mitchum sul settantenne Henry Hathaway, definito eccessivamente “scorbutico e spigoloso”, ma il produttore Wallis non ne vuole sapere del cambio e preferisce sostituire l’attrice. La scelta cade allora su Kim Darby, una ventunenne californiana dall’aspetto di ragazzina (la protagonista del libro ha 13 anni) già apparsa in alcune puntate televisive di “Star Trek”, “Doctor Kildare” e nella serie western di maggior successo “Bonanza”. La donna non ha ancora colto il successo sul grande schermo, è stata sposata due volte ed è anche il secondo matrimonio con James Stacy è sul punto di saltare, come infatti avverrà poco dopo l’uscita del film.
Il cast prescelto conta su altri nomi celebri o destinati a diventare tali, come Glen Campbell, Robert Duvall, Strother Martin e Dennis Hopper. Ovviamente, la garanzia più autentica sembra fondarsi sulla presenza di Wayne per la parte principale. Elmer Bernstein compone una colonna sonora fra le sue migliori e Lucien Ballard assicura un’ottimo effetto fotografico in technicolor-panavision alle scene girate in esterni. La distribuzione è della Paramount Pictures come per “Eldorado” e “I 4 figli di Katie Elder”.
La vicenda si sviluppa intorno al 1878 – mentre è presidente degli Stati Uniti Rutherford B. Hayes, che rimase in carica dal 1877 al 1881 – nel Territorio Indiano che diventerà più tardi lo Stato dell’Oklahoma.
Mattie Ross ha la giusta carica di “pepe” delle ragazze del Sud, provenendo dalle aree rurali dell’Arkansas, così come il ranger texano La Boeuf (Glen Campbell) possiede una dose di arroganza sufficiente a dare continuamente sui nervi a Cogburn.
La caccia ai banditi prosegue per giorni attraverso praterie e boschi, con alcune scene spettacolari, come quella in cui la Darby guada il fiume a cavallo, approdando all’altra riva sotto gli sguardi esterrefatti del Grinta e di La Boeuf che la osservano dallo zatterone su cui stanno comodamente traghettando. L’erotismo è praticamente assente, particolare tutto sommato a favore dell’anziano Wayne, che non se la sente più di impegnarsi in scene di corteggiamento. La simpatia istintiva che nasce verso la ragazzina, sentimento che diventa reciproco, è un tenero approccio verso la nuova generazione che sta venendo fuori e che, constaterà Cogburn, non è per nulla sprovveduta come sembra.
Come c’era da aspettarsi, l’inseguimento si conclude con una strage dei malfattori, merito soprattutto dell’inarrestabile Grinta, che ha modo di esibirsi in una carica a cavallo con entrambe le mani impegnate da pistola e fucile e le briglie strette fra i denti.
Il Grinta
Rispetto al romanzo di Portis, Marguerite Roberts ha apportato poche modifiche. La più significativa riguarda la conclusione: nella versione letteraria Mattie Ross, morsa dai serpenti a sonagli dopo essere caduta in una buca, perde un braccio, mentre nel film torna a casa fisicamente integra. Anche il commiato finale di Cogburn, che salta una staccionata con il suo cavallo, è una variante introdotta dalla Roberts: nel libro, il Grinta scompare senza lasciare traccia dopo avere fatto giustizia e Mattie ne apprenderà la morte diversi anni dopo da due autentici superstiti della storia del West, Frank James e Coleman Younger, ridotti ormai ad attori da circo o, per dirla con le parole della ragazza, a “due bacucchi”.
Questa volta gli ingredienti ci sono tutti per assegnare a Wayne il tanto sospirato premio della sua vita. Infatti ottiene l’Oscar quale miglior attore e il Golden Globe. Commuovendosi al punto da “mettersi a piangere come un vitello”, come egli stesso descrisse la scena, l’attore, alludendo alla benda sull’occhio che portava il suo personaggio, dichiarò: “Se l’avessi saputo, me la sarei messa 35 anni prima!” Perfino il giornalista William Wolf, che non aveva sempre giudicato le interpretazioni di John con favore, ammise: “Il Grinta appare come uno dei suoi più completi trionfi”.
Al successo della critica seguì quello del pubblico.
In una classifica redatta negli Anni Settanta comprendente i 10 western che avevano ottenuto i maggiori incassi di ogni tempo, “Il Grinta” figurava al 4° posto – dietro “Butch Cassidy” di George Roy Hill uscito lo stesso anno, “Corvo Rosso non avrai il mio scalpo” di Pollack (1972) e “Piccolo Grande Uomo” di Penn (1970) ma assai avanti rispetto ai classici “Duello al sole” di Vidor e “Il cavaliere della valle solitaria” di Stevens – con un box office di 14.500.000 dollari, che oggi risulta, con i suoi oltre 36 milioni, più che raddoppiato.
Per il sessantaduenne attore-regista è l’apice della carriera e della sua stessa vita, dal momento che ha dovuto battersi, oltre che con i detrattori professionali e quelli che avversavano le sue scelte politiche, con l’insidiosa minaccia del cancro. La sua vittoria, in questo momento, riveste perciò un valore particolare e simbolico: la forza dimostrata sullo schermo è diventata parte della sua personalità nella vita di tutti i giorni.
Molto appropriatamente John Carpenter, regista di “Halloween”, dirà di lui qualche anno dopo: “Wayne non fu solo un grande attore, ma soprattutto un uomo. L’ultimo degli eroi.”