John Wayne, strade diverse
A cura di Domenico Rizzi
Speciale a puntate: 1) John Wayne, un gigante del cinema western 2) La lunga gavetta di John Wayne 3) John Wayne: la ripresa del western 4) John Wyane, attore ormai affermato 5) Altri film di John Wayne 6) Strada aperta per John Wayne 7) Il meglio di John Wayne 8) Strade diverse 9) Alamo, un trionfo a caro prezzo 10) Uomo d’azione 11) Eroe nell’ombra 12) Gli anni del cambiamento 13) Il lento declino 14) La solitudine dell’eroe
Dopo “Sentieri selvaggi”, che aveva rappresentato il suo grande ritorno al western, Wayne si lasciò attrarre ancora una volta da altri generi, con esiti abbastanza discutibili.
Nel 1957, nuovamente diretto da John Ford, lavora con Dan Dailey, Maureen O’Hara, Ward Bond e Ken Curtis in “The Wings of the Eagles” (“Le ali delle aquile”) basato sulla biografia romanzata dell’aviatore Frank W. Wead, divenuto scrittore dopo un grave incidente. Lo stesso anno viene messo in circolazione “Jet Pilot” (“Il pilota razzo e la bella siberiana”) girato nel 1949 dal famoso Joseph Von Sternberg ma distribuito molto più tardi per decisione dell’eccentrico produttore Howard Hughes. Contemporaneamente il Duca interpreta “Legend of the Lost”, apparso in Italia come “Timbuctu”, diretto da Henry Hathaway, nel quale si trova affiancato a due mostri sacri del cinema italiano, Sophia Loren e Rossano Brazzi. La qualità del cast non corrisponde però a quella del film, nel quale il bravo John, trasferitosi dalle praterie del West al grande deserto africano, sembra muoversi come un pesce fuor d’acqua.
La sua consolidata bravura, dimostrata in tante pellicole di Ford e Hawks, sembra essersi dissolta di colpo, sebbene si tratti di un’impressione sbagliata. La debolezza del copione e il disagio di recitare in una parte che non gli si attaglia come in altri film, finiscono per offuscare la sua precedente immagine: “Ombre rosse” è ormai lontanissimo, “Sentieri selvaggi” – che pure è recente – non ha ottenuto subito i riconoscimenti dovuti.
A peggiorare le cose si aggiunge nel 1958 l’originale John Huston, che gli affida il ruolo di Townsend Harris, un diplomatico statunitense inviato in Giappone nell’Ottocento, in “The Barbarian and the Geisha” (“Il barbaro e la geisha”). Wayne accetta soltanto perché il suo ingaggio è di 700.000 dollari, compenso astronomico per quei tempi, ma il film – costato 3 milioni di dollari – si rivela un tremendo flop e viene stroncato dalla stampa, che lo definisce “noiosissimo”. Dal canto suo, Wayne, cerca di parare il colpo dicendosi quasi felice per quel fiasco, nutrendo una vecchia ruggine verso la 20th Century Fox. Huston, che aveva raccolto ben altre opinioni con “La regina d’Africa” (1951) e “Moby Dick. La balena bianca” (1956) non esce bene da questa esperienza, ma si rifarà di lì a due anni con “Gli inesorabili”, discussa per i suoi contenuti ma ricca di apprezzamenti.
A questo punto forse lo stesso Wayne analizza i passaggi della propria carriera e comprende che il suo futuro, quanto il rilancio della sua immagine, si fondano ancora una volta sul genere che lo lanciò quasi trent’anni prima con “Il grande sentiero”.
Gliene offrono l’opportunità due grandi registi: Howard Hawks e lo stesso Ford. Dopo una parentesi di tre anni, il grande John può finalmente tornare in sella per rivestire i panni dei personaggi che maggiormente gli si addicono. Sarà lo sceriffo Chance in “Un dollaro d’onore”, il colonnello Marlowe in “Soldati a cavallo” e di lì a poco il roccioso capitano dei Texas Ranger, Jake Cutter, ma, prima di affrontare quest’ultima fatica, si toglierà la soddisfazione di produrre, dirigere e interpretare “La battaglia di Alamo”.
Gli anni che vanno dal 1959 al 1961 vedono dunque il grande ritorno del Duca, con 4 film che lasciano un’impronta marcata nella storia della filmografia western. Nel 1960 si concede anche una pausa recitando un ruolo semiserio in “Pugni, pupe e pepite” (“North to Alaska) insieme a Stuart Granger e all’attrice e modella francese Capucine.
Dopo il rilancio in grande stile, si prepara a lavorare in un grande capolavoro di John Ford: “L’uomo che uccise Liberty Valance”.
Wayne ha raggiunto la maturità artistica ed è ormai un ultracinquantenne, sostenuto da un invidiabile vigore fisico e più che mai convinto delle proprie possibilità. Si appresta dunque a vivere la seconda fase della sua carriera di attore con il fermo proposito di rimanere per sempre nel cuore delle platee.
Un dollaro d’onore
“Un dollaro d’onore” venne girato con intenti, per così dire, “patriottici”, dopo che l’immagine dell’Americano medio era stata seriamente compromessa soprattutto da un precedente film western diretto da Fred Zinneman. “’Un dollaro d’onore’ venne fatto” dichiarò il regista Howard Hawks “perché non mi piaceva un film chiamato ‘Mezzogiorno di fuoco’…Non credevo che un bravo sceriffo dovesse correre in giro per la città come un pollo senza testa a chiedere aiuto, e alla fine dovesse salvarlo la moglie quacchera.” (Joseph Mc Bride, “Il cinema secondo Hawks”, Pratiche Editrice, Parma, 1992, p. 161).
Nella pellicola interpretata da Gary Cooper e Grace Kelly, un attempato difensore della legge viene letteralmente piantato in asso dagli abitanti della sua città e dal suo stesso vice Harvey Pell (Lloyd Bridges) di fronte alla minaccia di quattro fuorilegge. Mentre il giudice che condannò il loro capobanda se la dà coraggiosamente a gambe, i cittadini di Hadleyville si defilano uno dopo l’altro, accampando scuse per non appoggiare il marshal Will Kane (Cooper). Gli rimane accanto solo la giovane moglie Amy (Grace Kelly) tanto bella e all’apparenza fragile, quanto determinata a battersi accanto al suo novello sposo.
Sia Hawks che Wayne ammisero apertamente di detestare quel film diseducativo, che pure aveva ottenuto 4 Oscar, per avere offerto al pubblico l’indegno spettacolo di una città di codardi; in Spagna la pellicola aveva assunto un titolo ancora più esplicito: “Solo ante el peligro” (Solo davanti al pericolo).
Per rimediare ad una simile dissacrazione dell’epopea dei pionieri, lo sceriffo John T. Chance (Wayne) viene supportato da tre aiutanti, uno più scombinato dell’altro. Il suo vice è l’ubriacone Dude (Dean Martin) precipitato nel baratro dell’alcool dopo una delusione amorosa. Lo affiancano l’anziano e sciancato Stumpy (Walter Brennan) e il giovane Colorado Ryan (Ricky Nelson) ma l’improvvisato staff ottiene l’appoggio dell’avventuriera Feathers (Angie Dickinson) e della famiglia messicana che gestisce un saloon.
Pur rimanendo la lotta ugualmente impari contro l’allevatore Nathan Burdette (John Russell) che dispone di molti uomini, la situazione è ben diversa da quella di “Mezzogiorno di fuoco”. Se il coraggio di Chance è scontato come quello di Will Kane, la gente che lo sostiene – anche l’alcoolizzato redento Dude – non è meno decisa di lui e lo dimostra in diverse occasioni, sgominando infine gli avversari in una memorabile sparatoria.
Il soggetto fu ricavato da una short story di B.H. Mc Campbell – in realtà, la figlia dello stesso Hawks, Barbara – pubblicata nel 1958 e sceneggiata da Jules Furthman e Leigh Brackett, prodotto dallo stesso Hawks e distribuito dalla 20th Century Fox. Le scene esterne vennero girate sul set di Old Tucson, in Arizona, che aveva già ospitato “Sfida all’O.K. Corral” di John Sturges due anni prima e accoglieva quasi in contemporanea le riprese di “Cimarron” di Anthony Mann. La colonna sonora fu affidata a Dimitri Tiomkin e Paul Webster, con alcuni splendidi brani adatti alla voce di Dean Martin (“Rio Bravo” e “My Rifle, my Pony and Me”) e Ricky Nelson, oltre ad una trascinante rielaborazione del “De Guello”, eseguito da una tromba solista con accompagnamento di chitarra. A questo punto, essendovi tutti gli ingredienti per puntare al successo anche commerciale, la grande attesa si basava soprattutto sulla performance di Wayne. Non ci volle molto a Hawks – che aveva diretto il Duca in “Il Fiume Rosso” – per capire di avere azzeccato la scelta un’altra volta. Bonario e sornione, quanto implacabile nel momento in cui la situazione lo esige, John si cimenta in un ruolo che gli va a pennello, destreggiandosi abilmente con fucile e pistola, ma dimostrandosi alla fine – evento abbastanza raro per i personaggi interpretati da Wayne – sensibile anche al fascino femminile.
Il film, intitolato “Rio Bravo” nell’originale in lingua inglese, venne distribuito in Italia come “Un dollaro d’onore”, per il semplice motivo che quel titolo era già stato dato ad un’altra pellicola della trilogia militare di Ford: “Rio Grande”. Benchè non figuri fra i western che realizzarono i migliori incassi, ottenne facilmente una piazza d’onore attraverso l’apprezzamento di critica e pubblico. Il regista Quentin Tarantino arrivò a definirlo il miglior western della storia del cinema dopo “Il buono, il brutto, il cattivo” di Sergio Leone.
“Un dollaro d’onore” incassò 5,75 milioni di dollari – secondo, per quell’anno, soltanto al film di Billy Wilder “A qualcuno piace caldo” – ma non ottenne premi di prestigio. La critica continuò a considerare “Il Fiume Rosso” il miglior successo di Hawks, sebbene qualcuno abbia ritenuto “Un dollaro d’onore”, probabilmente a ragione, “il capolavoro del western urbano” (Aldo Viganò, “Storia del cinema western in 100 film”, Le Mani, Recco Genova, 2002, p. 137). Una delle scene del film verrà riutilizzata nel 1976 da Don Siegel in “Il pistolero”, film-testamento di John Wayne.
Il genere fondato su cowboy e Pellirosse stava già declinando: dai 53 film prodotti nel 1958, si era scesi ai 35 di quell’anno e nel 1960 il calo sarebbe proseguito inesorabilmente, con sole 19 pellicole sull’argomento. Con “Un dollaro d’onore”, Hawks si era riconfermato, dopo 4 anni di inattività, un regista maturo ed eclettico, mentre Wayne aveva fatto una prepotente riapparizione come protagonista sicuro dei propri mezzi e praticamente senza rivali nel suo ruolo di uomo del West. La loro perfetta cooperazione era riuscita ad impedire un crollo anticipato del genere, che avrebbe anzi trovato nuove strade da percorrere negli anni successivi.
Soldati a cavallo
Il grosso pubblico e soprattutto gli appassionati del western non avevano dimenticato i capolavori di Hawks e Ford, fra i quali occupava ancora un posto di primissimo piano la “trilogia militare” del celebre regista di origine irlandese.
Protagonista delle tre pellicole era sempre un militare, che di volta in volta assumeva le vesti del capitano York (“Il massacro di Fort Apache”) del capitano Brittles (“I cavalieri del Nord-Ovest”) e del colonnello Kirby Yorke (“Rio Bravo”). “Soldati a cavallo” (“The Horse Soldiers”) che generalmente viene considerato a se stante, è il quarto film di Ford dedicato alle “facce da mezzo dollaro al giorno”, sebbene non vi figurino gli Indiani e lo scenario sia quello della guerra di secessione.
John Wayne torna a indossare i panni che forse gli calzano meglio in assoluto: quelli dell’ufficiale dell’esercito, indipendentemente dall’epoca in cui si deve svolgere la vicenda. Nel primo film militare di Ford era un capitano in conflitto con un ottuso superiore (Henry Fonda) nel secondo un ufficiale umano e comprensivo con lo stesso grado, giunto tristemente alle soglie della pensione; nel terzo, un colonnello con problemi nei riguardi della moglie sudista, avendole distrutto la casa durante il conflitto antischiavista. In “Soldati a cavallo”, il Duca è il colonnello John Marlowe incaricato di compiere una missione quasi impossibile: devastare le retrovie dei Confederati.
Il copione gli calza a pennello: John è pragmatico e determinato quale dev’essere un vero comandante, rispettato dai suoi uomini e in aperto contrasto con l’ufficiale medico del reparto, il maggiore Henry Kendall (William Holden) che lo chiama “manovale” per le sue maniere rozze. L’elemento femminile compare nel film sotto l’aspetto di una bella proprietaria terriera del Sud, Hannah Hunter, interpretata dalla giovane Constance Towers, che per la sua età può essere una figlia di Wayne.
Dopo avere scoperto che la ragazza è venuta a conoscenza dei piani dei Nordisti, Marlowe è costretto a condurla con sé come prigioniera, insieme alla sua domestica di colore. Durante il lungo viaggio e gli scontri sostenuti con i nemici, si delinea a poco a poco il carattere dei personaggi e la figura di Marlowe, un ingegnere delle ferrovie costretto dalle esigenze della guerra a distruggere i binari, assume risvolti sempre più umani, spingendolo a dichiararsi ad Hannah, alla quale chiede di aspettarlo al termine delle ostilità. Ford gioca sapientemente sul contrasto di immagine fra il corpulento e rustico Wayne e il più fine ed educato Holden, inserendo anche una delle sue classiche scazzottate fra i due antagonisti, divisi anche dalla presenza della donna. Si ripropone in pratica l’eterno confronto fra il grezzo uomo della Frontiera e il “piede tenero” dell’Est, che sarà poi estremizzato sia ne “I Comancheros” di Curtiz quanto in “L’uomo che uccise Liberty Valance” dello stesso Ford. Simpatizzante com’è verso la gente dell’Ovest – lui che è nato nel Maine – riesce a fare in modo che la bella Hannah sia conquistata proprio dal più ruvido della compagnia, nonostante Marlowe abbia esattamente il doppio dei suoi anni, senza contare che, per la seconda volta in un film western, il Duca si innamora di una donna del Sud. L’intento di Ford, che ha militato nella marina americana nel Pacifico minacciato dai Giapponesi, sottintende un nazionalismo evidente: la riconciliazione degli Stati dopo la guerra di secessione passa anche per un matrimonio fra uno “yankee” e una “ribelle”.
A Wayne, che sprizza ancora forza, coraggio ed efficienza fisica, questa soluzione non può certo dispiacere, anche perché ha un sogno nel cassetto: quello di dar vita ad un progetto che coltiva da diversi anni, basato sulla celebre battaglia di Alamo, pietra miliare dell’indipendenza del Texas dall’oppressione messicana.
“Soldati a cavallo”, che viene distribuito lo stesso anno di “Un dollaro d’onore”, costituirono dunque il grande riltorno dell’attore al suo genere più amato.
La storia si basava su un racconto scritto nel 1956 da Harold Sinclair ed era ispirata ad una celebre incursione nelle linee confederate guidata dal colonnello Benjamin H. Grierson nel 1863, partendo dal Tennessee per giungere fino a Baton Rouge in Louisiana. La produzione aveva preventivato un budget di 6,5 milioni di dollari, considerato che il film doveva essere girato quasi tutto in esterni nei boschi e nelle paludi di Louisiana e Mississippi. John Lee Mahin e Martin Rahin furono gli sceneggiatori, mentre direttore della fotografia – – a tratti molto riuscita, soprattutto per quanto riguarda le riprese della colonna militare in marcia – fu William H. Clothier, che era stato tenente colonnello dell’aviazione durante il secondo conflitto mondiale.
Purtroppo gli sforzi organizzativi profusi, la regia di Ford e la partecipazione di Wayne non sortirono risultati positivi al botteghino, perché il film, distribuito dalla United Artists, incassò soltanto 4 milioni di dollari negli Stati Uniti e in Canada e dovettero trascorrere parecchi mesi prima che riuscisse a pareggiare le spese sostenute. Va tenuto conto, ovviamente, che il western era già nella parabola discendente e le sue apparizioni sullo schermo davano esiti contrastanti.
Fra i 35 film dello stesso genere distribuiti nel 1959, i due interpretati dal Duca rimanevano comunque fra i migliori, insieme a “Ultima notte a Warlock” di Edward Dmytryk e “L’albero degli impiccati” di Delmer Daves. Il panorama cinematografico era ormai dominato dai film drammatici e d’avventura, dalle commedie e dai polizieschi e gli spazi per il western si erano drasticamente ridotti. Nel 1940 ne erano stati prodotti 86, mentre un ventennio più tardi il numero si era più che dimezzato e la concorrenza della televisione si stava facendo agguerrita.
A partire dalla metà degli Anni Cinquanta, la TV americana aveva infatti lanciato numerose serie – “Rin Tin Tin”, “Le avventure di Jim Bowie”, “Le avventure di Kit Carson”, “Le avventure di Wild Bill Hickok”, “Penna di Falco, capo Cheyenne” – conquistando una porzione sempre più larga di pubblico. Nel 1959 venne prodotta la fortunata serie “Bonanza”, che sarebbe durata 14 anni proponendo oltre 400 episodi sulle vicende della famiglia Cartwright. Lo stesso anno la CBS mise in onda “Rawhide”, una serie di 217 episodi che sarebbe proseguita fino al 1966. Vi lavorava anche un attore ventinovenne di nome Clint Eastwood, al quale sarebbe toccato di lì a poco il compito di rilanciare il genere sotto la direzione del regista italiano Sergio Leone.