Sergio Leone e lo “Spaghetti Western”

A cura di Elio Marracci


Sergio Leone sul set di “Giù la testa”
“Quando scatta in me l’idea di un nuovo film ne sono totalmente assorbito e vivo maniacalmente per quell’idea. Mangio e penso al film, cammino e penso al film, vado al cinema e non vedo il film proiettato ma vedo il mio…” Questa frase tratta da un’intervista al grande Sergio Leone ci mostra come quest’uomo avesse una grande passione per il cinema, la stessa passione di cui è impregnato ogni suo film. Infatti, solo un uomo che ha una grande passione per quello che fa può riuscire a passare alla storia del cinema e ad essere il capostipite di un genere, lo spaghetti western.
E nello stesso tempo a lanciare attori di grosso calibro, uno su tutti Clint Eastwood, con film che, anche se girati con cast italiani, si discostavano moltissimo dal neorealismo e dalla commedia all’italiana che andavano di moda in quel periodo.
È per questo che vi parlerò della figura atipica di questo rivoluzionario regista italiano.
Ciò che più colpisce è che i giovani siano maggiormente portati ad esaltare film stranieri mediocri dimenticandosi molto spesso di registi e d’attori italiani del passato che hanno reso celebre la nostra nazione in campo cinematografico.
Sergio Leone nasce nel 1929 a Roma da Roberto Roberti, regista pioniere dell’industria cinematografica italiana ai tempi del muto e da una celebre cantante d’opera.
È l’inventore oltre che il maggior esponente del “western all’italiana”, meglio conosciuto come “spaghetti western”, genere sicuramente tra i più imitati.
Celebrato per la sua qualità dagli stessi americani, lo spaghetti western è divenuto un filone di rilevanza internazionale.


Clint Eastwood, una scoperta di Leone

Laureato in giurisprudenza e cresciuto praticamente a Cinecittà, Leone rivela una stupefacente abilità tecnica nel girare per i kolossal dei mitici anni cinquanta, le scene di battaglia e le sequenze di massa, quale direttore della seconda unità.
Vanta collaborazioni in “Quo Vadis?” di Mervyn Le Roy, primo dei grandi film storici realizzati in Italia, “Elena di Troia” di Robert Wise, e “Ben Hur” di William Wyler.
Assistente alla regia ma anche sceneggiatore per “Gli ultimi giorni di Pompei” di Mario Bonnard, una super produzione fallimentare, kolossal tutto italiano spettacolare e grandioso, Sergio Leone deve trasformarsi in regista per sostituire Bonnard ammalato.
La prima regia ufficiale però è “Il colosso di Rodi” che rivela un nuovo cineasta dal sicuro gusto per lo spettacolo e padronanza tecnica assoluta.
Dopo questa regia Leone gira i film che lo consacreranno alla storia del cinema: “La trilogia del dollaro”, “Per un pugno di dollari”, “Per qualche dollaro in più” e “Il buono il brutto e il cattivo”, “C’era una volta il west” e “Giù la testa” (di cui parleremo più diffusamente in seguito).
Negli anni ‘70 il maestro italiano si dedica alla produzione e alla preparazione, durata tredici anni, della sua opera assoluta “C’era una volta in America” tre ore e quaranta di durata.
Si racconta della saga di una famiglia newyorchese dalla nascita alla sua distruzione, attraverso la vita di due amici gangsters.
Interpretato da attori superlativi tra cui su tutti Robert De Niro e James Wood, Sergio Leone con la forza di sempre e la solita regia magistrale rende il tutto epico.
La fotografia è di Tonino Delli Colli, la musica di Ennio Morricone, i costumi di Gabrielle Pescucci e il montaggio di Nino Baragli.


Scenari imperdibili

È un’opera assolutamente originale che costituisce la sintesi più completa della sua arte; costata oltre 60 miliardi di lire ha impegnato tre anni per la lavorazione più gli oltre 13 anni di preparazione.Sergio Leone, è morto improvvisamente per un attacco cardiaco nel 1989 mentre preparava un kolossal sulla battagli di Leningrado.

Per un pugno di dollari
Fare qualcosa di nuovo nel cinema è piuttosto inusuale.
Grandi film come Quarto potere, Ladri di biciclette, Nashville, che poiché opere di geni sono stati fonte di ispirazione per moltitudini di registi più giovani, sono molto pochi.
Per un pugno di dollari appartiene di diritto a questa categoria.
Prima di questo film, infatti, regnava il western americano.
Nonostante fossero stati girati molti western italiani, questi non sembravano discostarsi molto da quelli americani.
La situazione però cambiò dopo che Per un pugno di dollari fu realizzato.
Presto, infatti, molti registi si ispirarono alle tecniche di Leone e molti film, che erano musicati prevalentemente da Ennio Morricone o da Bruno Nicolai, di un nuovo genere chiamato “spaghetti western”, uscirono in quegli anni nelle sale.
Per un pugno di dollari è quasi il rifacimento scena per scena del film di Akira KurosawaYojimbo, conosiuto in Italia col titolo La sfida del samurai.
La trama del film di Kurosawa parla di un samurai che arriva in una città lacerata da due bande di combattenti, appartenenti a due famiglie rivali.
Il samurai li mette gli uni contro gli altri, aiuta una famiglia a fuggire e alla fine distrugge quasi tuta la città e scappa con del denaro.
La locandina
Cambiate il samurai con un pistolero, e cambiate il villaggio giapponese con una piccola cittadina del west, e avrete Per un pugno di dollari.
Leone prende in prestito da Kurosawa anche i set affollati, la calma che pervade il film, l’uomo senza nome, l’uso della musica per rimpiazzare i dialoghi ed infine la fotografia lenta propria del regista giapponese.
Nonostante ciò, Per un pugno di dollari non è una semplice copia de La sfida del samurai.
Leone usa perfettamente le tecniche di Kurosawa, ma adotta anche elementi propri del suo stile: rapide zoomate, primi piani e occhi socchiusi.
Come western inoltre il film infrange un gran numero di regole.
Non ci sono indiani, l’uomo senza nome, grazie a dio, non suona la chitarra e non canta canzoni.
L’eroe buono del film, inoltre, è spietato e affamato di denaro come i cattivi e la sola differenza che esiste fra lui e i cattivi è che l’uomo senza nome risparmia gli innocenti.
Il film è più violento dei western che si erano visti fino a quel momento, Leone, infatti, non sapeva che secondo le regole di Hollywood non era accettata la violenza e nei film western, e fece a riguardo ciò che gli sembrò opportuno.
È inutile dire che il risultato ridefinì le regole.
Protagonista, nel ruolo principale è Clint Eastwood, la cui apparizione in questo e nei due film successivi di Leone gli conferì fama internazionale.
Quando decise di musicare Per un pugno di dollari, Leone voleva ricorrere alla musica di Francesco Lavagnino che aveva lavorato con lui nel film Il colosso di Rodi.
Fortunatamente incontrò Ennio Morricone le cui sonorità lo interessarono.
E Morricone seppe ripagare la fiducia che Leone aveva riposto in lui.
Le colonne sonore dei primi western erano canzoni popolari americane sempre piacevoli e con voce vellutata.
La musica di Morricone invece, s’ispira pienamente allo stile western e sembra più musica folcloristica messicana.
Per la realizzazione del film Leone temeva che, il pubblico americano non avrebbe mai guardato un film girato in Italia visto che gli americani erano i massimi esponenti del genere.
Così sia Sergio Leone sia Ennio Morricone cambiarono il loro nome in Bob Robertson, figlio di Roberto Roberti, e Don Savio.
Questo film, contro le più rosee attese ottenne un gran successo e fu il primo di un genere, lo ”spaghetti western” che crebbe rapidamente.
Dopo questo film il western non sarebbe stato più lo stesso.
Non ci sarebbe stato più modo di tornare indietro.

Per qualche dollaro in più
Per qualche dollaro in più è il film che segue a Per un pugno di dollari, e che continua la cosiddetta “trilogia del dollaro”. Ritorna Clint Eastwood nel ruolo dell’uomo senza nome e, appare per la prima volta in un western italiano Lee Van Cleef. Stilisticamente possiede ancora molti elementi del film precedente come contrasti tra inquadrature lunghissime e primissimi piani dei protagonisti, cui sono aggiunte novità basilari come il flashback.
La locandina
La colonna sonora di Morricone, è potente e crea tensione. Anche in questo film ritorna l’uomo senza nome, e questa volta è un cacciatore di taglie come il Colonnello, Lee Van Cleef. Entrambe sono sulle tracce di un bandito evaso, l’Indio, che ha deciso di rapinare la banca di El Paso. L’uomo senza nome e il Colonnello decidono di catturare l’Indio e i suoi uomini per intascare una grossa ricompensa, 20000 dollari. Ma con una ricompensa così grossa i due cacciatori di taglie si devono guardare l’uno dall’altro con la stessa diffidenza con cui guardano l’Indio. Nonostante ciò il film finisce con l’uomo senza nome che va via con tutta la taglia intascata per la cattura dell’indio. Infatti, il Colonnello è appagato dalla vendetta della morte di suo fratello, causata, neanche a dirlo, proprio dall’Indio e lasci tutta la ricompensa all’uomo senza nome. Questo film non è ricordato come quello precedente, sebbene sia migliore di Per un pugno di dollari. Un’altra cosa interessante da rilevare è che questo è il primo film che contiene ciò che sarà il marchio di fabbrica di Leone. Infatti da ora in poi Morricone scriverà la musica prima dell’inizio delle riperse del film, e a questa s’ispireranno gli attori per calarsi più a fondo nei loro personaggi.

Il buono, il brutto, il cattivo
Lungometraggio del 1966 che chiude “la trilogia del dollaro”, Il buono, il brutto, il cattivo doveva essere nelle intenzioni di Leone, il suo ultimo film western. Il regista italiano, infatti, aveva previsto di abbandonare il western per raccontare l’America del proibizionismo con il film intitolato C’era una volta in America. Ma Sergio Leone, riuscì a realizzare questo progetto solo diciotto anni dopo e vale la pena ricordare che C’era una volta in America fu anche il suo ultimo film. Nel corso di quei diciotto anni quindi, Leone realizzò altri due western e si dedicò, per ingannare l’attesa, prevalentemente a film diretti da altri in qualità di produttore. Questa premessa è necessaria per spiegare come Sergio Leone si accingesse a chiudere il suo personalissimo discorso sul western proprio con il film Il buono, il brutto, il cattivo.
Il poster originale
Il primo western era stato una scommessa, il secondo una conferma, il terzo doveva affermare una volta per sempre “la via italiana al western”. E quale poteva essere la via italiana al western se non la “commedia western all’italiana”? Leone l’aveva capito per primo: la più forte, la più significativa, la più importante innovazione del genere western a quel punto non poteva essere che il senso dell’umorismo. Quando si era imbarcato nell’avventura di Per un pugno di dollari, il regista italiano aveva sinceramente temuto, come si diceva nell’ambiente dei cinematografi romani, di “far ridere i polli”. Invece gli era andata bene. E allora con il secondo film, Per qualche dollaro in più, Sergio Leone aveva trovato il coraggio di fare dell’ironia esplicita. Il terzo: Il buono, il brutto, il cattivo, doveva dunque spingersi, senza esitazioni, oltre la barriera della comicità. Nulla poteva più accadere per caso. Sergio Leone aveva ormai idee chiarissime. Al punto da affidare la sceneggiatura del film ad un terzetto formato dal fido Luciano Vincenzoni e dalla celeberrima coppia Age e Scarpelli. Con uno stile già sperimentato in Per qualche dollaro in più, Leone presenta i tre protagonisti come se fossero gli eroi di un albo a fumetti. Tuco, un rapinatore messicano pazzo e ghignante esce come una palla di cannone da una banca appena svaligiata. Sul fermo fotogramma appare in corsivo la scritta Il brutto. Sentenza, un killer professionista che è capace di uccidere chiunque, persino il proprio mandante, purché ci sia qualcuno disposto a pagare, viene a sapere tra un omicidio e un altro dell’esistenza di un favoloso tesoro, 200.000 dollari, sottratto da un soldato sudista all’esercito nordista. Sul fermo fotogramma appare in corsivo la scritta Il cattivo. Il Biondo, un cavaliere solitario, s’imbatte nell’esecuzione del Tuco da parte di tre cacciatori di taglie e in extremis salva la pelle al messicano. Sul fermo fotogramma appare in corsivo la scritta Il buono. Da quel momento in poi, il brutto e il buono si mettono in società sulla base di un’ideuzza geniale. Visto che il buono ha salvato il brutto una volta, perché non continuare a farlo? Ecco la messinscena: un giorno si e l’altro pure il buono consegnerà il brutto alle autorità intascandone la taglia per poi aiutarlo a fuggire poco prima che sia impiccato. Il trucco funziona sempre, ma è sempre il brutto ad avere il cappio al collo. Dai e dai, quest’ultimo finirà per spazientirsi, e il sodalizio si trasformerà in un rapporto amore/odio. Mentre il buono e il brutto continuano a bisticciarsi come vecchi coniugi, il cattivo s’infiltra nell’esercito nordista per cercare di rintracciare il famoso tesoro. Ma intanto, gli altri due raccolgono per caso la confessione in punto di morte del soldato sudista che ha trafugato i 200.000 dollari. E così, vengono a sapere che il bottino si trova sepolto in una tomba non meglio identificata in mezzo ad un cimitero abbandonato. In fondo ad un percorso spettacolarmente accidentato, il buono, il brutto e il cattivo convergono sul luogo che li farà diventare ricchi. Come sempre però, dividere il malloppo è la parte più delicata dell’impresa. I tre si sfidano a duello, il famoso triello, e i piccoli inganni ancora una volta si sprecano. Il cattivo tira le cuoia. Il brutto si prende un bello spavento. E il buono si allontana a cavallo con la bisaccia piena. Ma poiché è davvero buono, non se ne va lasciando a mani vuote il suo compare. Il buono è Clint Eastwood, ormai in rotta con il suo padre artistico Sergio Leone. Eastwood non vedeva l’ora di tornare trionfante a Hollywood, questo, infatti, è l’ultimo film girato da lui in Italia. Il cattivo è ancora Lee Van Cleef, i cui limiti sono ormai fin troppo evidenti. Anche Van Cleef lascerà Leone per sfruttare la fama acquisita in successivi e ben pagati sottoprodotti del western all’italiana. Il brutto è il solito “fool” shakespearino caro a Leone. Come nei precedenti western, l’interprete doveva essere Gian Maria Volontè, ma il regista temeva che il grande attore italiano avrebbe conferito al personaggio di Tuco uno spessore troppo nobile e inquietante non rendendolo abbastanza comico. Fu per questo che Leone scelse Eli Wallach, gran caratterista americano che aveva strabiliato negli Spostati di John Huston accanto ai fascinosi Clark Gable e Marylin Monroe. Il regista, questa volta più che mai, fa la parte del Leone. Il buono, il brutto, il cattivo rimane forse, a tutt’oggi, il suo film più spettacolare. Ma anche la sceneggiatura gronda d’inventiva. Age e Scarpelli imprimono uno stile preciso al film utilizzando trovate accumulate in anni d’esperienza. Piccole grandi idee in cerca di un film moderno finalmente trovato.

C’era una volta il west
Dopo “la trilogia del dollaro”, Sergio Leone era fermamente intenzionato a farla finita col western. I tre film che la componevano glia avevano procurato grande notorietà internazionale, Clint Eastwood aveva deciso di tornare in America da dove era partito come un signor nessuno, la trilogia si era chiusa in gloria, ed era venuto il momento di cambiare. Nel 1967, il regista italiano si era perdutamente innamorato di un libriccino che gli era capitato tra le mani per caso: si trattava di Mano armata, autobiografia di Herry “Noodles” Grey, un balordo sfigato che racconta i ruggenti anni ‘30 del gangsterismo americano in maniera suggestiva e originale. Sergio Leone, cominciò dunque nel ‘67 a scrivere la sceneggiatura tratta da Mano armata per il film che si doveva intitolare C’era una volta l’America. Quel copione conobbe un’infinità di stesure, vi lavorarono innumerevoli sceneggiatori, ma vide la luce soltanto diciassette anni dopo, nel 1984 e fu l’ultimo film di Leone. Vi chiederete perché. È presto detto. Le majors hollywoodiane che avevano offerto lauti contratti a Leone, nicchiavano per il costo eccessivo di C’era una volta in America e soprattutto volevano altri western, sempre western, e soltanto western. In sostanza i produttori americani dicevano a Sergio Leone: “Sei molto bravo ma rimani al tuo posto, e vedrai che faremo tanti bei soldi insieme”. Questa premessa è utile a spiegare che il film C’era una volta il west, non fu che uno dei tanti contrattempi in cui s’imbatté Leone nel suo impervio cammino verso l’agognata materializzazione di C’era una volta in America. Tuttavia ciò non sminuisce per niente il valore dell’opera. Anzi.
La locandina del film
Da questo film nasce un regista molto diverso da quello che avevamo scoperto insieme a Clint Eastwood. Il Sergio Leone di C’era una volta il west è un uomo ferito nell’orgoglio che ostenta improvvisamente un feroce disprezzo per il capitalismo americano. Disprezzo che troverà poi la sua massima esaltazione nel 1971 in Giù la testa!. Non a caso, Leone sceneggia il film con il fedele Sergio Donati ma firma il soggetto con Bernardo Bertolucci e Dario Argento, due autori notoriamente di sinistra e gira un film costosissimo e lentissimo, tutti superlativi questi, che fanno impallidire il portafogli e fanno venire i bruciori di stomaco ai produttori statunitensi. Basta guardare le prime due memorabili sequenze di C’era una volta il west per capire quali siano le effettive intenzioni di Leone. Nella prima, vediamo tre brutti ceffi venuti dal nulla che prendono possesso di una stazioncina ferroviaria nel deserto e attendono pazientemente l’arrivo di qualcuno. Forse mai, nella storia del cinema, il concetto d’attesa è stato rappresentato con tanto iperrealismo. Uno dei tre combatte, per una buona manciata di minuti, con una mosca che lo tormenta. Alla fine riesce ad imprigionarla nella canna della sua Colt e si diverte a vederla agonizzare. Dopo un tempo che pare un secolo, sopraggiunge un treno. È un merci, che scarica alcune casse. Quando il treno riparte dietro il polverone ecco apparire la sagoma di un uomo dalla faccia di pietra che suona il suo nome, Armonica (Charles Bronson). Ed ecco che i tre ceffi lo fronteggiano spavaldi per spedirlo al creatore. La sparatoria è brevissima. Tutti e quattro mangiano la polvere. Ma Armonica è l’unico a rialzarsi. Gli altri tre sono già fuori dal film, due di loro non hanno pronunciato una battuta. Eppure si trattava di tre notevolissimi caratteristi di Hollywood: Woody Stroode, Jack Elam e Al Mulloch. La seconda sequenza ci mostra Brett McBain, interpretato dall’attore è l’italiano Frank Wolff, maschera di grande intensità, morto suicida pochi anni dopo, un proprietario terriero irlandese da tempo vedovo che sprona i suoi tre figli ad accelerare i preparativi per una grandiosa festa all’aperto. Cosa c’è da festeggiare? L’arrivo di una donna Jill, sua futura moglie e nuovo angelo del focolare. McBain non sta nella pelle. I suoi rampolli sono più preoccupati che felici. Ma a spegnere ogni ansia, ci pensano come al solito le pistole. Pochi colpi, che sembrano venire dal cielo, e i McBain sono buoni solo per una tomba di famiglia. Un pugno d’uomini incede lentamente sul luogo del massacro. Il più piccolo dei McBain si affaccia sull’uscio. Il capo dei killer lo fissa con un ghigno beffardo egli spara a sangue freddo. Quell’uomo senza cuore si fa chiamare Frank, ma in realtà è nientemeno che il buono per antonomasia del cinema Americano: Henry Fonda. Più dissacratori di così si muore. Nella terza scena, ecco che sbarca nel film la novità più dirompente: la donna. Una Claudia Cardinale bella da svenire interpreta l’ignara Jill, promessa sposa del già fu Brett McBain. Ma ancora una volta, l’unico vero ignaro è il pubblico. Perché di lì a poco scopriremo che è proprio la donna la vera protagonista di C’era una volta il west. È lei il centro d’attenzione e il motore del film, dal momento che le nozze col defunto sono state celebrate tempo addietro e che Jill può dirsi a tutti gli effetti, la signora McBain. Questo piccolo particolare ha un’influenza determinante sul seguito della storia. Il povero McBain, infatti, come tanti altri prima di lui, è stato assassinato su ordine di Morton, Gabriele Ferzetti in una caratterizzazione straordinaria, magnate infermo con il collare e le grucce che continua a vivere per portare a termine il progetto di unificare il Grande Paese con una ferrovia “coast to coast” che unisca l’Atlantico al Pacifico. Quel progetto, sarà realizzato alla fine proprio da Jill McBain. È la donna, infatti, il simbolo dell’America nascente che avanza sul cavallo d’acciaio e spazza via il ricordo del Far West per costruire l’immagine della futura prima potenza mondiale. Rivedendo oggi questo film, tutto appare più fortemente simbolico. Il rapporto tra Ferzetti/Morton, il mandante, e Fonda/Frank, il sicario, è forse, la cosa più bella del film. Nell’intrigo che li vede complici e rivali, decisi a combattere ciascuno con le proprie armi, Morton il denaro, Frank la pistola, è racchiusa in forma di metafora fulminante tutta la storia americana. Nella storia del cinema questo film che diventa sempre più leggendario con il passare del tempo, figura ormai come “l’ultimo dei western”. Tuttavia, com’è puntualmente accaduto a Sergio Leone, anche C’era una volta il west ha segnato non la fine ma l’inizio di un filone cinematografico. Molti film americani, dal Pistolero di Don Siegel, agli Spietati diretto e interpretato da Clint Eastwood, ci hanno raccontato del crepuscolo del Western, e chissà quanti ne verranno ancora. Ebbene, quando li incontrerete non dimenticate che sono tutti figli di C’era una volta il west e del personalissimo talento creativo di Leone.

Giù la testa
Nel bel mezzo del deserto messicano un piagnucoloso pezzente ferma una strana dirigenza che sembra il Grand Hotel. Lo straccione che si chiama Juan Miranda, implora una passaggio. I ricchi viandanti, prima di prenderlo a bordo, lo deridono e l’umiliano. Più avanti essi scopriranno a loro spese che Juan Miranda è il capo di una pericolosa banda di tagliagole a conduzione familiare. Infatti, di lì a poco la carrozza è presa d’assalto da un vecchietto, il padre di Miranda, e da un branco di ragazzini, i figli di Miranda, tutti armati fino ai denti. Sterminati i passeggeri e incassato il bottino, la gang dei Miranda riceve la visita di un’apparizione surreale: un turista irlandese, vestito alla Sherlock Holmes, sfreccia su una moto tirando candelotti di dinamite. Il suo nome è Sean Mallory, e di professione fa il rivoluzionario. Per il rubagalline Juan Miranda, che sogna da una vita di espugnare la banca più ricca del Messico, Sean Mallory è l’uomo del destino. Con le buone e con le cattive il messicano riesce a convincere l’irlandese ad allearsi con lui. Giunti a Mesa Verde, Sean Mallory e Juan Miranda si imbattono in un gruppo di sostenitori di Pancho Villa, capeggiati da un sega ossa dai modi colti e garbati chiamato il dottor Villega. In mezzo a quei cospiratori, l’irlandese sembra molto a suo agio, mentre il messicano fa la figura del buzzurro. Tuttavia, dal momento che l’obiettivo di tutti è il medesimo, la Famosa banca, Miranda non sembra soffrire di particolari complessi d’inferiorità.
Il poster
Nel fatidico giorno della rapina, Sean Mallory, Juan Miranda e famiglia e i cospiratori locali riducono Mesa Verde ad un cumulo di macerie. Ma quando Miranda si cala eccitato nei sotterranei della banca, anziché il sospirato tesoro trova centinaia di prigionieri politici sporchi e affamati che lo travolgono nell’ansia di riacquistare la libertà. Sono loro il bottino dell’impresa. Il denaro non esiste. Juan Miranda è furibondo. Vuole la pelle di Mallory. Ma l’irlandese lo riduce all’impotenza chiamandolo eroe. Da questo momento in poi, Sean Mallory e Juan Miranda attraversano il Messico in lungo e in largo sparando all’impazzata contro le bieche truppe governative. Lungo il cammino, Miranda perde tutta la sua famiglia, sterminata dall’esercito durante una rappresaglia. E alla fine, l’ex bandito di strada rimane solo, con l’amico rivoluzionario irlandese che gli spira tra le braccia lasciandogli in eredità la sua esaltante e disperata missione di giustizia. Giù la testa!, film del 1971, è l’ultimo film western di Leone, ma in questo caso più che mai la definizione di western è un azzardo nell’azzardo. Sergio Leone ha impostato tutta la sua carriera all’insegna dell’originalità. Nella sua arbitraria reinvenzione mediterranea del western, il regista italiano si era concesso innumerevoli licenze poetiche. Ebbene, Giù la testa! le supera tutte. Questo film – che non riscosse all’epoca il successo dei precedenti western – è, secondo alcuni un pasticcio ideologico verboso e filosofeggiante, mentre altri si spingono a considerarlo il miglior film di Leone. I detrattori storsero la bocca fin dai titoli di testa che ammiccavano al sessantotto. Il film si apre infatti con una raffica di citazioni di Mao Tse Tung. Molti le ritennero, a seconda dei punti di vista, ruffiane o irriverenti. Coloro che giudicarono negativamente il film si lamentarono del velleitarismo ideologico, della lunghezza (due ore e mezza), e dell’interpretazione istrionica di Rod Steiger nei panni di Juan Miranda. Alla fine questi ultimi salvarono soltanto le musiche di Ennio Morricone, il cui celeberrimo motivetto Sean Sean era finito in vetta alla hit parade dei dischi di quell’anno. Gli altri, gli estimatori, valutarono Giù la testa! un piccolo capolavoro di pop art, apprezzando la varietà dei concetti e degli oggetti, veri e propri feticci, che affollano il film come un bazar: la motocicletta di Sean Mallory, il carroarmato ante litteram dell’esercito messicano, la testata del giornale governativo che si chiama “El Imparcial”, l’interno della carrozza inverosimilmente spazioso e arredato come un salotto viennese e le stesse citazioni di Mao. Inoltre, alcuni esponenti della sinistra parlamentare in quegli anni elessero Giù la testa! come “Film della loro vita”. Detrattori ed estimatori di un tempo però avevano torto entrambe. Innanzi tutto, se ora c’è una cosa che risulta veramente insopportabile, è proprio, una volta tanto, la musica sdolcinata di Ennio Morricone, compresa la canzoncina Sean Sean, che tanto successo conobbe all’epoca. Anche perché le musiche sono terribilmente invadenti, addirittura protagoniste nei muti flashback al rallentatore che raccontano l’improbabile gioventù spensierata e amorosa di Sean Mallory. Improbabile se non altro perché l’attore James Coburn, che interpreta il rivoluzionario irlandese, non vi appare ringiovanito nemmeno di una ruga. Quanto alla gigioneria di Rod Steiger, Juan Miranda, occorrerà ricordare che la recitazione sopra le righe è sempre stata la sua specialità, e ciò non gli ha impedito di vincere qualche anno prima un Oscar a furor di popolo per L’uomo del banco dei pegni di Sidney Lumet. Del resto, Steiger qui è ampiamente giustificato: un ruba galline messicano doveva pur avere una sana e robusta dose di ingenuità per diventare un eroe rivoluzionario, ed è peraltro noto che i libri di storia di casi del genere ne tramandano a dozzine. Spendiamo ancora una parola sul cast, per segnalare i tanti bravi attori di teatro tra cui: Romolo Valli, Maria Monti, Franco Graziosi che soltanto Leone ha saputo valorizzare sul grande schermo. Giù la testa! è e resta uno dei film più spettacolari del cinema italiano. Sul piano del puro virtuosismo registico forse questo è davvero il miglior film di Sergio Leone. Perché qui Leone dimostra di essere un dei pochi registi al mondo in grado di muovere masse imponenti di comparse e, allo stesso tempo, di valorizzare i più piccoli dettagli, alternando totali grandiosi a primi piani inquietanti. Ma non dimentichiamo che Giù la testa! è soprattutto un capolavoro del grande artigianato cinematografico italiano ormai in via d’estinzione. Sceneggiatori del calibro di Sergio Donati e di Luciano Vincenzoni, capaci di inserire senza paura in un genere come il western tutto ciò che agitava la società italiana nel 1971, non ne nascono purtroppo più. E così il direttore della fotografia Giuseppe Ruzzolini, che con Pier Paolo Pasolini faceva film completamente diversi o il responsabile degli effetti speciali rudimentali ma efficaci Antonio Margheriti. In questo film poco ma sicuro, vola la fantasia e volano anche le due ore e mezza.

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