Feriti da una freccia

A cura di Maurizio Biagini

Avvelenata o no, essere infilzato da una freccia indiana era un affare serio. Se anche la freccia non ledeva un organo vitale, c’erano molte complicazioni che potevano insorgere, come le infezioni e la cancrena (la penicillina era ancora molto in là dall’essere scoperta) o le emorragie. Inoltre se la freccia non veniva estratta immediatamente dalla ferita, potevano insorgere conseguenze anche mortali. A contatto con il sangue i tendini usati per legare la punta all’asta tendevano a gonfiarsi e a tendersi, e se i tempi di estrazione erano troppo lunghi la punta resa scivolosa sarebbe rimasta nella ferita.
A seconda di dove era si infissa la freccia, c’era pure il rischio che i muscoli si contraessero intorno alla punta rendendone ancora più ardua l’estrazione.
Se la freccia si conficcava in un osso non restava altro che la trazione e tutta la forza del medico per rimuoverla.
Con l’arco a cavallo
Per i medici militari questi interventi erano vere e proprie imprese, a cui ovviavano anche con molta fantasia ed improvvisazione.
Il già citato dottor J. H. Bill fu uno dei pochi medici che nel XIX secolo scrissero dettagliatamente sulle ferite da freccia.
Il ventiduenne James Burridge in forza alla compagnia G del 14° Fanteria fu ferito dagli Apache l’11 novembre 1867 nel territorio dell’Arizona. Una freccia l’aveva colpito due pollici sopra il gomito. Non sembrava nulla di grave ma la ferita non guarì perfettamente e due mesi dopo un aneurisma traumatico si era formato sul braccio di Burridge sotto forma di un ascesso. Il medico militare suggerì al soldato di applicare una pressione costante sul rigonfiamento con le dita e dopo una settimana il tumore si era ridotto della metà. In un paio di settimane la massa era scomparsa ed il soldato era tornato al servizio attivo.


Indiani Yuma; il guerriero è armato con arco e frecce

Le frecce indiane volavano ed i soldati ne erano terrorizzati, mentre i chirurghi improvvisavano. Uno di questi fu a sua volta colpito ad un’ascella durante uno scontro con i Navajos. Come quasi sempre, l’asta venne via facilmente ma per un po’ la punta rimase nel corpo del dottore. Alla fine, un altro chirurgo fece una incisione a T sopra la scapola e localizzò la punta. Era molto in profondità e fu molto difficile rimuoverla, ma alla fine dopo lunghe ore di complicazioni emorragiche, il dottore guarì.
A volte i recuperi avevano del miracoloso, tanto da far venire il dubbio che il medico fosse passato dal saloon a festeggiare prima di redigere il rapporto.


Parte terminale delle frecce

Il chirurgo militare C. C. Gray ci racconta appunto uno di questi casi: il soldato John Krumholz, Compagnia H, 22° Fanteria ricevette una freccia nell’occhio sinistro presso Fort Sully il 3 giugno 1869. Sembra che il dardo fosse penetrato per una profondità di due pollici nel cranio del soldato. Krumholz fu narcotizzato con il cloroformio ed operato d’urgenza. La punta di freccia venne rimossa ed il decorso postoperatorio consistette in riposo, una dieta a basso contenuto calorico e la posizione elevata della testa. Gli furono inoltre applicati impacchi freddi e catartici salini sulla zona dell’intervento. Il soldato ritornò in servizio 4 giorni più tardi, il 7 giugno 1869!
In un altro caso, nel 1881, una freccia Comanche colpì un ufficiale, il cui nome non ci è pervenuto. Secondo il verbale la freccia aveva trafitto il militare nella parte superiore destra del petto ed era passata quasi orizzontalmente attraverso un polmone fino a fuoriuscire tra la scapola e la spina dorsale. L’intervento stavolta fu parecchio azzardato. Su richiesta del ferito un fazzoletto di seta fu fissato alla freccia che poi fu spinta attraverso il corpo trascinandosi dietro il fazzoletto per tutta l’estensione della ferita.


Pittografia di un combattimento tra indiani

Non abbiamo idea di come, ma il soldato si rimise e passò ancora molti anni nell’esercito.
Il Dottor J.H. Bill ci racconta di un civile, Salvador Martinez che fu trafitto da una freccia nel petto che entrò da destra tra la quinta e sesta costola ed uscì a sinistra tra la settima ed ottava costola. Martinez rimosse la freccia ma cominciò a vomitare sangue. Ricoverato a Fort Defiance, gli fu somministrata morfina e l’uomo parve riprendersi un poco. Alla fine si decise per un clistere comprendente mezza pinta di essenza di manzo e due once di siero di vino. L’uomo ricominciò a vomitare (comprensibilmente, N.D.R.) e gli fu somministrato ancora metà grano di morfina. Clisteri, morfina e persino champagne ghiacciato furono parte della terapie che Martinez seguì per 18 giorni prima di morire. L’autopsia rivelò che entrambi i polmoni erano stati trafitti, assieme al fegato e allo stomaco.
Andò meglio a Miguel, postiglione a Fort Union, Nuovo Messico. Fu colpito da una freccia Ute proprio nel retro del cranio. Comprensibilmente in preda al panico, l’uomo tirò via la freccia con uno strattone ma la punta rimase conficcata nella testa. Soccorso dal medico del forte, con qualche sforzo anche la punta venne estratta in pochi minuti. Da vero uomo della frontiera, Miguel, starnutì, si alzò in piedi, e ringraziato il dottore se ne andò. Il giorno dopo, Miguel cominciò ad avvertire un forte mal di testa. Il referto medico racconta che il volto dell’uomo era rosso e la pulsazione veloce ed irregolare. Il dottore rasò la testa del postiglione e gli applicò impacchi freddi e olio di crotone. Miguel cominciò a delirare ed allora, utilizzando un sistema molto in voga in quegli anni, il medico gli fece un salasso finché l’uomo svenne.


Guerrieri Apache con archi e frecce

Durante la notte Miguel ricominciò a delirare e venne di nuovo salassato dal medico. Evidentemente il rimedio funzionò, perché la mattina dopo Miguel stava molto meglio si riprese e dopo tre settimane era di nuovo al suo posto.
Dopo il massacro di Wounded Knee (1890) le frecce indiane smisero praticamente di minacciare soldati bianchi e coloni bianchi.
Chiusi nelle riserve, anche i più orgogliosi ed irriducibili guerrieri dovettero iniziare una guerra, tuttora in corso, per la sopravvivenza della loro identità. I nuovi nemici sono l’alcolismo, la povertà, l’incapacità di adattamento a valori così lontani da quelli tradizionali.
Contro questi nemici, archi e frecce sono inutili e sono accatastati nei negozi e sulle bancarelle per turisti nei villaggi delle riserve come artigianato locale.

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