Archi e frecce

A cura di Maurizio Biagini

Per tutte le popolazioni native del nord America, archi e frecce hanno rappresentato per secoli indispensabili strumenti per la caccia e la guerra. L’invasione degli europei, le guerre coloniali e quella di indipendenza diffusero le armi da fuoco rapidamente anche tra le tribù indiane, spesso coinvolte in questi conflitti, ma ciò nonostante, archi e frecce non furono mai abbandonati, e furono uno dei simboli della disperata resistenza all’uomo bianco, protrattasi fino alla fine del XIX secolo.
Per lungo tempo, inoltre, archi e frecce, insieme a lance, mazze da guerra e tomahawk furono le armi predilette degli indiani che le preferivano sicuramente ai primi schioppi o ai fucili ad avancarica che erano lunghi e noiosi da ricaricare e che non garantivano un’efficace difesa dagli attacchi.
Insomma, anche se erano armi primordiali, archi e frecce furono un serio contraltare degli armamenti dei bianchi.
Guerrieri con arco e frecce
Per questo ci sembra giusto raccontarvi qualcosa di più.
Per molte tribù indiane le frecce erano considerate sacri doni del Grande Spirito. Il celebre capo Apache Geronimo raccontò una versione del mito della Creazione degli Apache Chiricahua, secondo cui un grande uccello (l’aquila) avrebbe diviso con gli Apache il suo arco e le sue frecce, insegnando loro come utilizzare queste armi.
Uno dei miti della creazione degli Cheyenne, fa riferimento a 4 “Mahuts” o frecce medicina, donate dal creatore Maheo ad un uomo chiamato Sweet Medicine che divenne così il profeta della sua gente. Senza i “Mahuts” non ci sarebbe stata alcuna tribù Cheyenne, così le 4 frecce erano custodite in uno speciale tepee da una società Cheyenne conosciuta come “i custodi della freccia”.
Molti guaritori utilizzavano frecce nei riti di guarigione ed erano perciò tenuti in grande considerazione dalla loro gente, essendo appunto la freccia un legame diretto con il Grande Spirito.
Tra i Chemehuevi , lo sciamano della freccia era un medicine man capace di guarire le ferite da freccia attraverso la “freccia medicina”.
Anche gli Yuma, una popolazione confinante, si avvalevano dei servizi degli sciamani della freccia Chemehuevi, mentre i Modoc lanciavano talvolta frecce sacre nel terreno circostante il corpo del malato per conservare l’anima del paziente intatta e far fuggire la malattia.


Un guerriero armato a cavallo

Una suggestiva tradizione era invece diffusa tra gli indiani Pima; per guarire persone ferite o malate, gli uomini medicina erano soliti lanciare frecce contro gli spiriti malvagi che si pensava circondassero i pazienti.
Aldilà comunque dei poteri magici, le frecce erano armi di straordinaria efficacia e affidabilità. I guerrieri potevano lanciarle con precisione a quasi 100 metri di distanza e farlo con più velocità di quanta ne occorresse ad un soldato per caricare e sparare con fucile ad avancarica o a colpo singolo. Queste armi, inoltre offrivano altri vantaggi: essendo silenziose, erano utilissime per eliminare le sentinelle durante gli attacchi notturni e di giorno permettevano di colpire senza rivelare la posizione dell’arciere.


Un momento di una cerimonia con archi e frecce

La veloce espansione del fucile tra i nativi, a partire da est per poi diffondersi anche tra gli indiani delle pianure, non garantiva comunque agli indigeni un facile approvvigionamento di polvere da sparo e munizioni. Al contrario, guerrieri e cacciatori non erano mai a corto di frecce. Un ufficiale dell’esercito J.G. Burke (1846-1896) raccontò che un Apache Aravaipa poteva costruire una punta di freccia in pochissimi minuti
Giovanissimi indiani con l’arco
Archi e frecce erano inoltre leggeri e facilmente trasportabili e potevano essere facilmente utilizzati da cavallo, cosa invece molto complicata con i fucili ad avancarica, molto macchinosi da caricare.
Gli indiani delle praterie che vivevano quasi esclusivamente delle risorse fornite dalle allora gigantesche mandrie di bisonti, non potevano assolutamente prescindere da archi e frecce. Contro queste bestie pesanti fino a una tonnellata, l’unico sistema sicuro era colpire con una freccia dritta al di sopra della spalla sinistra, in modo che l’asta attraversasse il cuore. Era difficile cacciare ai bisonti in corsa con i macchinosi fucili ad avancarica in groppa ad un cavallo lanciato al galoppo tra centinaia di corna e zoccoli. Sparare da lontano contro quei bestioni dal cranio blindato, in pratica inefficace.
Sino all’avvento della cartuccia metallica, arco e frecce erano l’unica arma veramente efficace per sfamare una famiglia Cheyenne o Sioux.
Alla fine della giornata di caccia, spesso si accendevano delle dispute tra i cacciatori. I bisonti erano trafitti da più frecce, chi aveva lanciato quella decisiva? Esistevano allora dei giudici, che dovevano stabilire chi avesse colpito l’animale mortalmente. Per questa ragione ogni cacciatore aveva piume diverse all’estremità delle proprie frecce.
Anche durante le guerre contro gli invasori bianchi le frecce volavano a nugoli. Dopo la battaglia ricordata come “il massacro di Fetterman” dai bianchi o “la battaglia dei cento uccisi” (1866) dagli alleati Lakota-Cheyenne, il luogo dello scontro ne era letteralmente cosparso. I rapporti militari parlano di circa 40.000 frecce infisse ovunque, compreso negli imprudenti uomini del Capitano Fetterman.


Dettaglio della realizzazione di arco e frecce tra gli Arikara…

Nella leggendaria battaglia combattuta sul Little Big Horn (1876) i precisi arcieri Lakota e Cheyenne ebbero un ruolo fondamentale nello spazzare via il VII cavalleria.
Charles Windolph, decorato con la medaglia d’onore per il suo comportamento sulla collina dove Reno venne cinto d’assedio, affermò in seguito che circa la metà dei guerrieri che li circondavano utilizzavano archi e frecce.
Non è stato possibile calcolare quanti soldati fossero caduti sotto le tradizionali armi degli indiani: mazze da guerra, lance, archi e frecce, ma di sicuro questo arsenale fu di fondamentale contributo alla vittoria, come quando Gall, il famoso capo Lakota, scivolato alle spalle del plotone L, fece piovere un nugolo di frecce sui soldati colti di sorpresa, facendone strage.


…E tra i Blackfoot

Studi recenti affermano che il numero delle armi da fuoco in mano ai nativi non fossero più del 45%, di cui il 25% usavano ancora armi ad avancarica e soltanto il 20% armi a cartuccia metallica. I conti sembrano quindi tornare, anche se sicuramente durante la battaglia della Reno Hill, il volume di fuoco dovette più volte cambiare: a partire dalle ore più tarde del 25 e per tutto il 26, infatti i soldati subirono il fuoco dei 200 e più fucili presi ai loro stessi commilitoni caduti nelle disastrose cariche di Reno e Custer.
Ma come erano costituite queste armi? Le punte di freccia erano generalmente costituite di pietra lavorata (selce, ossidiana, ecc.) ma erano utilizzate anche corna di animali, conchiglie, legno, ossa e metallo. La punta di freccia era collocata in una fessura all’estremità dell’asta e lì veniva assicurata con tendini o lacci di pelle di animali.
Arco e frecce Navajo
La lunghezza delle frecce variava: quelle dei Navajo come quelle degli Utes erano lunghe circa 2 piedi, mentre quelle Apache, Comanche, Arapaho, Cheyenne, Kiowa e Pawnee erano circa 7 cm e mezzo più lunghe.
Occasionalmente le frecce potevano essere avvelenate intingendole nel veleno, o con piante venefiche. La pratica era poco diffusa data la grande perizia degli arcieri indiani nel colpire i loro bersagli e non sappiamo con certezza quali tribù la utilizzassero. Si sa per esempio che alcuni Apache usavano una mistura preparata con estratto di cistifellea di daino mischiata a veleno di crotalo.
Nel 1919 il medico John C. Da Costa nel suo libro Modern Surgery scrisse che gli unici indiani ad utilizzare frecce intinte nel veleno erano i Piutes.
Tuttavia, già nel 1862, J.H. Bill, un medico dell’esercito aveva descritto la tecnica con cui gli Hopi fossero soliti avvelenare le loro frecce con veleno di serpente ed interiora imputridite di piccoli animali.

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