C’era una volta… Armonica!

A cura di Domenico Rizzi

Stefano Jacurti
Ci era rimasta la sua immagine granitica, il suo volto di pietra, il suono sfumato su cui il grande Ennio Morricone impostò il motivo conduttore del capolavoro western di Sergio Leone. L’avevamo visto per l’ultima volta conversare con il morente Cheyenne (Jason Robards) colpito da qualcuno “che non sa dove sparare”.
E’ il protagonista di “C’era una volta il West”, impersonato dall’indimenticabile Charles Bronson, il pistolero “che invece di parlare suona e quando dovrebbe suonare parla”, simbolo di una razza che non esiste più: quella degli uomini abituati a regolare i conti con la pistola. Mentre si allontanava solitario, l’inquadratura spaziava sulla valle trasformata in un cantiere dalla ferrovia che avanzava inesorabile, spazzando via impietosamente, con il suo incedere sistematico, la leggenda del West.
Armonica era l’ultimo rappresentante di una specie in estinzione.
Come recita una delle numerose versioni create intorno alla leggenda di Pecos Bill – morto dopo avere ingoiato del filo spinato, emblema della della delimitazione dei pascoli e dell’affermazione della proprietà nel West – anch’egli era stato ucciso dalla spietata macchina del progresso. Era il cavaliere che, fedele alla tradizione dei migliori western, alla fine se ne va da solo, con l’unica compagnia del suo cavallo, lasciandosi tutto dietro le spalle: il cadavere dell’odiato Frank dagli occhi azzurri (Henry Fonda), un bandito moribondo (Jason Robards) gli sfondi della Monument Valley, solcata un tempo da una diligenza diretta a Lordsburg e percorsa tristemente dal romantico capitano Nathan Brittles sul viale del tramonto, secondo i copioni cari a John Ford.
Armonica si lasciava alle spalle gli operai della ferrovia, l’ultimo lamento dell’avventuriero Cheyenne ed una fattoria isolata, dove una donna, Jill Mc Bain, era tornata “alla vita civile con un marito in meno ed una fregatura in più”.
Gli interrogativi spontanei, per molti degli spettatori del fim, rimasero per anni: “Perché mai Armonica non si è fermato in quella casa?” “Perché non ha voluto sposare quella donna sola?” Forse perché la conclusione sarebbe parsa troppo ovvia e scontata, addirittura banale, oppure per il motivo che in tantissimi altri film del genere, l’eroe preferiva la solitudine, lasciando all’immaginazione collettiva le molteplici avventure di cui sarebbe stato ancora protagonista.
Il baule nella prateria
Stefano Jacurti, nel suo racconto “Dove arriva quel treno”, inserito nell’ottima raccolta “Il baule del West”, ha preferito riscoprire il fascino del ritorno del mitico pistolero a Sweet Water, dove il destino gli ha programmato un appuntamento con la deliziosa Jill, un po’ meno giovane, ma sempre capace di catturare un uomo con le sue grazie.
Lo ha fatto servendosi di uno dei più classici veicoli della tradizione western: il treno. Quel treno che aveva decretato la fine di un’epopea, è lo strumento che dà nuova linfa alle speranze di due amanti mancati, facendo nuovamente incrociare le loro strade dopo una lunga lontananza.
Il luogo è il medesimo, la piccola e polverosa Sweet Water, dove i due convogli giungono quasi contemporaneamente.
Jill Mc Bain, l’incantevole Claudia Cardinale del film di Leone, è sempre la stessa, “senza i suoi schiavi di New Orleans che le portavano il bagaglio” (Jacurti, op. cit., pag. 71) esattamente come quando venne la prima volta nel West per sposare un uomo conosciuto per corrispondenza.
Armonica è cambiato, ma non soltanto perché i suoi capelli sono diventati grigi.
Adesso non sogna più vendette da compiere ed ha riposto per sempre in qualche armadio nascosto lo strumento musicale che caratterizzava le sue apparizioni. Probabilmente, in tutto questo tempo, non ha ucciso più nessuno.
L’uomo ha preso il sopravvento sul pistolero dalla faccia di pietra, come aveva pronosticato Cheyenne: “una razza vecchia” che “non ha più futuro”. L’evento che lo aspetta, non è l’ennesimo duello con un altro cattivo dall’aspetto di bravo ragazzo come Henry Fonda, ma la sua emozione è intensa come se Armonica si stesse preparando ad una nuova sfida.
Jill, la donna alla quale non aveva neppure dato l’addio, è riemersa come d’incanto da un luogo remoto e da un passato sepolto nel tempo.
Il resto lo si può soltanto immaginare.
Il cuore di una casa abbandonata che ricomincia a pulsare, il fumo di un camino che sale verso il cielo nelle notti d’inverno, la volta stellata che si stende come un manto su una tranquilla vallata. E lontano, il fischio di un treno che rompe il silenzio di una terra una volta selvaggia ed ora pacificata. Il serpente d’acciaio che ha portato l’ordine e la civiltà nell’Ovest, lancia ora il suo messaggio rassicurante agli uomini di buona volontà.
Quella di Jacurti è una storia crepuscolare e nostalgica, quanto maestosa nella sua semplicità. I dialoghi sono di poche parole, di battute brevi ed incisive, di emozioni abilmente sintetizzate in un’unica domanda (“Perché sei tornato?”) seguita da una risposta senza titubanze: “Per lei”.
E tutta l’azione sembra svolgersi magicamente in un istante.
Il passato che affluisce alla memoria si dissolve nell’incantesimo di un abbraccio, di un amplesso senza fine, mentre calano le ombre della sera su Swet Water e qualcuno, in lontananza, suona “Red River Valley”.
Naturalmente, è lo struggente suono di un’armonica.

Il libro:

STEFANO JACURTI

Il baule nella prateria. Racconti western

Serel International Editrice

Genova 2008

Copertina a colori. Pagine 112.

Prezzo: 12 euro.

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