La civilizzazione forzata
A cura di Gaetano Della Pepa
Bambini indiani nel cortile di una scuola
Appena arrivati presso le “scuole per indiani” gli adolescenti venivano raggruppati e fotografati nei loro variopinti costumi. Subito dopo venivano lavati, tagliati loro i capelli, pettinati, disinfettati e fatte indossare loro le uniformi della scuola simili alle divise militari. Le bambine e le adolescenti erano vestite con camicette da donna e lunghe gonne e con i capelli accorciati e raccolti. Tutti calzavano rigide ed alte scarpe nere alposto dei mocassini. Così agghindati venivano di nuovo fotografati. Con queste foto si voleva dimostrare che già dall’inizio era possibile indurre gli indiani ad abbandonare le loro usanze. Infatti si vedono nelle foto computi ed irrigiditi ragazzini con la mano destra infilata tra il secondo e quarto bottone della giubba alla stessa maniera degli ufficiali USA, mentre le meste fanciulline avevano le mani raccolte in grembo.
Quanta tristezza suscitano quelle foto se confrontate con quelle fatte all’arrivo.
Provate ad immaginare cosa rappresentava il taglio dei capelli per “guerrieri in erba” che avevano avuto già i rudimenti di una diversa educazione e cresciuti con altri valori. Considerate la sofferenza fisica provocata dal calzare le rigide scarpe, forse non sempre della misura giusta, ad un piede abituato a stare libero oppure in comodi e soffici mocassini.
Un gruppo di ragazzine appena arrivate a Carlisle
Questo era solo l’inizio. I nuovi arrivati, dopo la “trasformazione” esteriore e prima di essere successivamente divisi in classi ed irreggimentati, venivano allineati per gruppi contro un muro secondo altezza decrescente per ricevere un nome inglese in ordine alfabetico.
Nel quadro di un regolamento draconiano e sotto la minaccia di una disciplina rigorosa veniva dato loro un insegnamento più pratico che teorico, destinato a far assimilare la cultura anglosassone.
Ancora bambini all’arrivo a scuola
Per mezza giornata i docenti insegnavano le normali materie scolastiche; l’altra metà era dedicata alle attività professionali. Il programma di studi comprendeva anche l’istruzione religiosa, il culto e l’educazione civica. Non mancavano corsi di storia degli USA e canti patriottici.
Però, il governo federale non forniva fondi o personale sufficienti, così gli studenti erano impiegati nei lavori di manutenzione della scuola con il risultato che i bambini passavano più ore a pulire, cucinare, cucire, lavare coltivare e fare riparazioni di quante non ne passassero in classe od in laboratorio ad imparare.
In estrema sintesi il compito della scuola, dopo il distacco forzato e l’allontanamento dalla famiglia, consisteva nel duplice attacco
all’identità bei bambini indiani: rimuovere tutti i segni esteriori ed interiori di identificazione dei bambini con la vita tribale e, al tempo stesso, istruirli sui valori ed i comportamenti della cultura bianca.
Con quali metodi didattici, poi, lo possiamo trovare in ampie documentazioni. Relazioni redatte dagli stessi ispettori bianchi: alimentazione insufficiente ed inadeguata, assenze di cure mediche, sovrappopolazione, lavori di manutenzione eccessivi imposti agli scolari, militarizzazione dei ragazzi, punizioni corporali (frusta, manette, bastonate e prigione), programmi di insegnamento inadatti…
Coi capelli rasati sui banchi di scuola a studiare
Così si espresse l’antropologo Oliver La Farge: “La scuola indiana è una istituzione penale. I bambini indiani sono condannati ad anni di lavori forzati al fine di espiare il loro crimine di essere nati dalla loro madre.”
La vita all’interno della scuola aveva una impostazione militare. I bambini dovevano marciare in uniforme, in formazioni militari, per recarsi alla mensa o alle classi. Marciavano anche durante il poco tempo libero al solo scopo di tenerli lontano dai guai.
Infrangere le regole delle caserme-scuole equivaleva ad essere puniti.
Chi bagnava il letto veniva costretto a portarsi dietro il materasso per tutto il giorno. I bambini sorpresi a parlare la loro lingua nativa o a svolgere rituali religiosi dovevano rimanere in punta di piedi per ore, con le braccia alzate sopra la testa.
Alle bambine disobbedienti veniva ordinato di alzare le gonne per essere sculacciate davanti alle compagne di classe. Un ragazzo che tentava di fuggire poteva essere costretto ad indossare abiti femminili, o ad essere frustato con un tubo di gomma, oppure gli veniva messa una palla al piede. Una punizione più comune era quella di essere rinchiusi al buio, in cantina, con poco pane e poca acqua.
L’educazione forzata prevedeva anche i mestieri dei bianchi
Al termine dell’anno scolastico, molti studenti indiani venivano mandati presso famiglie euroamericane, dove svolgevano lavori agricoli e domestici, perchè sentissero parlare soltanto inglese ed assorbissero i valori cristiani non indiani. Questi programmi facevano in modo che alcuni studenti non tornassero a casa per anni.
L’uso delle punizioni non vigeva soltanto a Carlisle ma in tutti i convitti-scuole. Dopo una breve sospensione le punizioni corporali con la frusta furono ripristinate a causa di una “presunta” recrudescenza dell’indisciplina degli internati.
Lezione di matematica a chi era abituato a vivere all’aperto
Di particolare severità erano le punizioni per la tentata fuga. Al Rice Boarding School di San Carlos alcune ragazzine, catturate dopo la fuga, dopo essere state picchiate selvaggiamente furono costrette a trasportare pesantissimi pezzi di legno. Mentre i ragazzi fuggitivi e ripresi venivano incatenati ai loro letti nel dormitorio e condannati a portare al collo una pesante catena durante gli spostamenti all’interno dello stabilimento.
Ciò che accadeva all’interno delle scuole prigioni era risaputo.
Ragazzini Chiricahua all’arrivo alla Carlisle School
Anche la corrispondenza che riusciva ad evadere la censura portava in giro tali notizie. Oltre alle commoventi richieste dei ragazzini che volevano i loro archi, le loro frecce, i loro mocassini ed imploravano di tornare a casa. Qualcuno chiedeva addirittura il suo cavallino ed ogni notte sognava di correre libero nella prateria. I genitori si rifiutavano di mandare gli altri figli in quelle prigioni e li nascondevano durante i “rapimenti ufficiali” effettuati dagli agenti dell’Ufficio Affari Indiani, per rispetto della legge dell’obbligo scolastico.
I piccoli Chiricahua ormai costretti nelle nuove divise d’ordinanza
L’imperativo delle Autorità e dello stesso Pratt erano chiare e non ammettevano deroghe. Il metodo raccomandato dai fautori della pace era questo: “Strappare il bambino indiano alla sua famiglia ed al suo gruppo sociale per rinchiuderlo, per un certo numero di anni, in un internato dove sarà cresciuto da “Americano Indiano”, per poi rispedirlo nella sua riserva perchè diffonda gli elementi della civiltà acquisiti”. Il Regolamento precisava inoltre: “Siamo in attesa di agenti che riempiano gli internati di studenti indiani, in primo luogo con la persuasione.
Prima e dopo…
Se ciò non potesse bastare, dovranno sopprimersi le razioni e le pensioni annue ai genitori, oppure utilizzare altri metodi atti a realizzare lo scopo prefissato”. Gli agenti trovarono subito il “mezzo” più efficace: una caccia spietata agli scolari, rapiti spesso all’insaputa dei loro genitori e caricati sui carri a disposizione degli agenti stessi.
Trascorrevano parecchi anni prima che i giovani tornassero nelle loro rispettive case, se le malattie contratte all’interno delle scuole non li portavano via nel frattempo.