Gli indiani Opata

A cura di Angelo D’Ambra

Raggruppamento di Opata
Uno dei popoli nativi più misteriosi d’America è quello degli Opata, un gruppo etnico di indigeni messicani, oggi sul punto di scomparire.
Il loro territorio era quello delle montagne di Sonora e il nord-est di Chihuahua. Confinava a nord-ovest di Sonora con quello degli apache, nell’Arizona Sudorientale con quello dei tohono o’odham e degli akimel o’otham (pima), a nord-ovest di Sonora con gli o’ob (pima bajo), i tepehuanes e gli yoeme (yaqui), a sud-ovest con i yoreme (meglio noti come mayo) e i guarijíos, infine a nord-est di Sonora e nord-ovest di Chihuahua con i rarámuri.
Gli Opata faceano parte della famiglia yuto-azteca del gruppo taracahitiano. La loro lingua apparteneva, come quella degli yaqui, al gruppo dei popoli taracahíta.
Parliamo al passato perché, dal 1950 non sono stati registrate comunità o individui parlanti questa lingua. Rimangono solo i nomi delle città, delle piante e della geografia del territorio chiamato Opateria. Inoltre, sebbene i loro discendenti siano stati individuati a Sonora, quasi nessuno di essi afferma di discendere dagli Opata, tutti si riconoscono come apache o yaqui. Così, gli Opata sembrano essere “scomparsi” come fantasmi.
L’Opateria era un’area caratterizzata da numerosi centri agricoli indipendenti sparsi sopra e sotto le valli interne dei fiumi Sonora, Moctezuma, Babispé e Aros. Il territorio occupato dagli Opata era estremamente variegato e spaziava dalle pianure semiaride tra i 400 e i 500 metri alle regioni più elevate che raggiungono i 2.000 metri di altitudine. I villaggi che oggi si possono far risalire direttamente agli Opata sono Pívipa, Terapa, Tépupe, Guayacora, Turuachi e Wachierieno.


Mappa del sud-ovest con gli insediamenti indiani

La loro cultura doveva essere una delle più complesse del Messico. Erano membri di un unico corpo politico, ma organizzati in numerosi “stati” con classi dirigenti, commercianti, contadini e schiavi. I nuclei abitativi presentavano almeno 200 case di mattoni a due e tre piani e una città centrale che fungeva da centro del governo e che era attorniata dalle campagne coltivate. Questa organizzazione restò in piedi almeno dal 1350 al 1550. Le testimonianze archeologiche hanno rivelato che agli inizi del XVI secolo gli Opata vivevano in due tipologie di case: grandi abitazioni semisotterranee circolari o rettangolari, preferite nelle stagioni calde e secche, e case rettangolari in mattoni, a volte con tetti di paglia.
Si coltivavano mais, zucche, fagioli e cotone ottenuti con l’irrigazione garantita da canali artificiali. Commerciavano con le tribù jano, yaki, suma, jumano, jocome, manso e koncho e zuni. Ovviamente cacciavano, pescavano e raccoglievano cibi selvatici come pigweed e foglie e frutti di cactus. Producevano anche una bevanda di mais fermentato conosciuta come tanori, che veniva solitamente bevuta durante alcune cerimonie.


L’opateria

Le donne erano abili tessitrici, tessevano abiti con fibre di cotone tinte e colorate. Nella stagione calda sia le donne che gli uomini vivevano nudi. Nei mesi più freddi gli uomini indossavano abiti succinti con gonne di pelle e serapes (scialli). Le donne indossavano abiti a corpo intero. Le calzature maschili e femminili erano sandali di pelle. Erano diffuse collane e altri ornamenti fatti di pelli, pietre, ossa, conchiglie e piume.
Pare che non ci fossero tabù sessuali, che fossero accettate coppie dello stesso sesso e transgenderismo. I capi villaggio praticavano la poligamia. Certe cerimonie erano di natura orgiastica e contro di esse si scagliarono principalmente i missionari spagnoli. In particolare si ricorda la danza “mariachi”, una danza circolare e promiscua ritenuta immorale.
Al momento del loro primo contatto con gli spagnoli, esistevano più sottogruppi di Opata. Il più numeroso era quello degli udebe (Eudewe), che si facevano chiamare Deve, entrambi termini che significano “persone”. Diffusi erano anche teuima (anche teguimas o tewimas), abitanti della parte nord-orientale e centrale del territorio Opata. Il termine significa “gente del fiume”. Gruppi più piccoli erano quelli degli jova o “popolo dell’acqua”, che abitavano in otto villaggi nella parte sud-orientale del territorio Opata. I jova si fusero con il vicino popolo yudebe. In realtà i jova erano da sempre distinguibili tra gli Opata. Se il grosso del popolo era costituito da agricoltori sedentari, già al tempo della prima intrusione degli spagnoli nel 1540, era possibile distinguere gli jova, che, invece, erano soprattutto raccoglitori. La figura di spicco di questa comunità fu Shishibotari, un grande capo jova che aveva enorme influenza su tutti i popoli di Sonora. Funse da importante intermediario tra Opata e spagnoli.
Padre Andrés Pérez de Ribas descrisse Shishibotari così: “Era bello e ancora giovane, portava un lungo mantello legato alla spalla come un mantello, e i suoi fianchi erano coperti da un panno, come era consuetudine di quella nazione. Al polso Dalla mano sinistra, che tiene l’arco quando la mano tira la corda per scagliare la freccia, indossava una pelle di zibellino che stava diventando molto grande”. Fu un eccezionale guerriero e riuscì ad unire i suoi contro il nemico comune, gli apache, anche in alleanza con gli spagnoli, con alterne fortune.
Si ritiene che nel Seicento fossero il gruppo indigeno più numeroso e tecnologicamente avanzato del Messico nord-occidentale. Le stime suggeriscono che la popolazione dell’Opateria al momento del contatto con gli spagnoli toccasse le 70.000 unità, ma nel 1764 si erano già ridotti al numero di 6.000. La conquista spagnola dell’Opateria fu assai lenta. Il rapido declino degli Opata si dovette probabilmente alla diffusione di malattie introdotte dall’Europa e, con lo spopolamento causato da guerre agli apache e malattie, la società Opata divenne più piccola e semplice. Attualmente non si conoscano Opata di razza pura, ma discendenti, diffusi nel Messico settentrionale e negli Stati Uniti sud-occidentali, in particolare in Arizona.


Una capanna di indiani Opata

Agli Opata è legata la leggenda della miniera perduta della Missione di Tumacacori, a circa 45 miglia a sud di Tucson, in Arizona, nella valle di Santa Cruz. La missione risaliva al 1691, fondata dai gesuiti di padre Eusebio Francisco Kino come Missione San Gaetano. Fu la prima missione ad essere situata nell’attuale Arizona. Dopo la ribellione dei pima del 1751 la missione fu abbandonata e ristabilita dopo pochi mesi. Nel 1753 si iniziò la costruzione della chiesa di San Giuseppe, ancora oggi visibile. Dopo l’espulsione dei gesuiti, nel 1767, la gestione passò ai francescani, ma l’edificio non fu mai completamente completato perchè le incursioni degli apache si rivelarono indomabili e, alla fine degli Anni Quaranta dell’Ottocento, Tumacácori fu abbandonata. Gli abitanti si trasferirono nella Missione San Saverio del Bac, a sud di Tucson.
Intorno al 1766 nei terreni della missione francescana fu scoperto un giacimento d’argento e gli indiani furono impiegati nell’estrazione mineraria. Stranamente, gli Opata preferivano una specifica miniera alle diverse del territorio. Tardi si capì perché.
Si erano ricavati negli spazi della miniera una stanza di grandi dimensioni dove avevano immagazzinato l’argento in una pila centrale attorno a cui, di notte, danzavano, celebrando le loro divinità. Del cattolicesimo avevano assorbito solo qualcosa e lo avevano rielaborato in modo del tutto personale. Di fatti, quando scorsero la scorta di una vergine mayo, bionda e dagli occhi azzurri, che stava attraversando il deserto, immaginarono che fosse la Vergine Maria. Entusiasti, la rapirono, la rinchiusero nella stanza sacra e tentarono di obbligarla a sposare il loro capo al fine di generare un “salvatore”. La mayo si rifiutò e davanti al suo inamovibile diniego, scelsero di sacrificarla ai loro dei. Di domenica la legarono alla pila d’argento al centro della stanza e le tagliarono le mani, spalmando del veleno del cactus sotol sulle sue ferite. Quando un piccolo raggio di sole irradiò attraverso un buco al centro della stanza, gli indiani iniziarono a ballare e cantare intorno a lei che moriva. Fu allora che un francescano sentì il gran trambusto che proveniva dalla miniera, le urla, i canti. Irruppe nella stanza e si ritrovò davanti l’orribile scena di quel sacrificio cruento: la mayo era legata alla pila d’argento, morta dissanguata e gli Opata danzavano eccitati attorno al suo cadavere. Inorridito chiamò gli altri frati che fermarono tutto. Sconvolti dal fatto, la miniera fu chiusa senza che fosse prelevato neppure l’argento della stanza.
Le prime notizie loro riguardanti risalgono al 1610 e all’opera del missionario francescano Marcos. Questo frate si inoltrò nei territori attraversati dal fiume Bavispe, perdendosi in direzione di Paso del Norte, l’odierna El Paso, e qui incontrò gli Opata. Furono loro, amichevolmente, a condurlo a El Paso. Qualche decennio dopo, nel 1642, un secondo francescano, Silvestre Cárdenas, tornò nell’area stabilendovi una missione. Una volta che i francescani si ritirarono per ordine reale, le missioni passarono alla gestione dei gesuiti. Padre Cristóbal García, che visitò questi centri nel 1645, vi destinò il missionario Marcos del Río, di origine fiamminga (il suo nome reale era Mark Van Der Veken). Questi si stabilì a Huásaba e gli indiani si radunarono attorno a lui nei villaggi di Oputho, Bacadéhuachi e Nácori Chico.


Francisca Ocuna, Opata, 1924

La storia di molti di questi centri è completamente dimenticata. Di Oputho, toponimo derivato da OPO (ferro) e THO (legno-foresta), oggi chiamato Villa Hidalgo, si sa che fu continuamente soggetto agli attacchi dei apache. Più volte gli abitanti dovettero lasciare il luogo a causa delle violente incursioni. Nel 1862 Oputho fu definitivamente popolato con l’aiuto garantito dal governo dello Stato di Sonora che fornì armi, attrezzi agricoli e tutto il necessario per l’insediamento. Protetti da un distaccamento militare al comando di Sacramento Fierros, Pablo Durazo e Sacramento Barba, venticinque famiglie di Huásabas si impegnarono a ripopolare il vecchio villaggio. Tra queste c’erano quelle di Ramón Ramírez, Florentino Salcido, Santiago Rios, Manuel Ramirez -El Pato- Miguel, Manuel Moreno e persino alcune di origine italiana come quelle di Octaviano e Julian Durazo. Degli Opata non restò più traccia. Alla fine del secolo ad Oputo si stabilirono anche altre famiglie italiane come i Bennett, i Vercini e i Bartolini.

Nel 1800, la maggior parte degli Opata erano cristiani, generalmente di lingua spagnola. Molti lavoravano come vaqueros o nelle città minerarie. Non mancarono rivolte. Nel 1820, infatti, 300 guerrieri Opata sconfissero 1.000 soldati spagnoli e distrussero una città mineraria vicino a Tonnichi. Gli spagnoli ebbero, però, la meglio e giustiziarono i capi Opata. Tra essi c’era Drameh, della tribù yudev il cui cognome è ancora comune nella regione dell’opateria di Sonora. Dopo l’indipendenza del Messico, nel 1833, un altro leader Opata, Dolores Gutierrez, fu giustiziato per aver capeggiato una nuova ribellione. Con lo stesso spirito, sostennero Massimiliano I durante il breve periodo asburgico e addirittura l’Opata Refugio Tanori divenne generale dell’esercito imperiale. Dopo che fu sconfitto, Tanori dovette fuggire a Guaymas e si imbarcò su una nave diretta sulle coste della Bassa California. La nave fu intercettata dalle forze repubblicane prima di raggiungere la penisola e Tanori fu catturato e giustiziato. Alla caduta di Massimiliano, la rappresaglia messicana contro gli Opata fu sanguinosa e pose fine alla loro resistenza.

Nel 1902, l’antropologo americano Ares Hrdrikka stimò il numero degli Opata purosangue tra 500 e 600. Un altro antropologo, Karl Lamholtz, commentò che gli Opata “hanno perso la loro lingua, la loro religione e le loro tradizioni, e si vestono e sembrano messicani”.

Misteriose sono le loro origini. L’analisi della sepoltura di una Opata mummificata, rinvenuta in una grotta nella Sierra Alta di Sonora nel 2009, potrebbe esserci di grande aiuto. Specialisti dell’Istituto Nazionale di Antropologia e Storia (INAH), infatti, hanno riscontrato nella sepoltura alcuni elementi che evidenzierebbero il legame tra questo popolo e la cultura pre-colombiana casas grandes. I resti della donna sono infatti stati rinvenuti all’interno di una casa preispanica di mattoni costruita all’interno di una grotta. Il corpo era all’interno di una stuoia, imbavagliato e con le braccia incrociate sul petto. Era accompagnato da un’offerta composta da un neonato e da un vaso contenente fasci di agave e bucce di mais. Gli studi effettuati sul neonato indicano che il suo cranio era disarticolato in quattro parti. In un primo momento si è pensato che fosse stato sacrificato, ma analizzando la disposizione delle sezioni craniche si è capito che erano resti recuperati per essere parte dell’offerta. Questi elementi sono un misto di cultura cristiana, Opata e casas grandes. La datazione della costruzione della casa in cui si trovava corrisponde all’anno 900 d.C., mentre il bambino e le ceramiche ad esso associate risalgono all’anno 1000 del periodo “Vecchio di Casas Grandes”.


Luis Estrada, Opata, 1922

Queste informazioni fanno pensare ad un riutilizzo dello spazio per seppellire la donna Opata accompagnata da elementi che si trovavano nella grotta già in precedenza. L’idea era quella di seppellire la donna con i suoi antenati. Ci sarebbe quindi una continuità dei gruppi casas grandes con gli Opata e ciò è rilevante perché una delle grandi sfide dell’archeologia del Messico nordoccidentale è confermare le radici dei diversi gruppi preispanici.

Per i Commenti è possibile usare il nostro forum