Il mestiere di Scout dell’Esercito nelle guerre indiane

A cura di Gian Carlo Benedetti

Scout Apache
Durante il periodo 1840-1890 nella frontiera del West la figura dello Scout (Army Scout) sia nella guida delle carovane di emigranti e soprattutto nelle spedizioni militari era insostituibile. Vestito di buckskin col lungo fucile di traverso alla sella, come il cow boy e il gunfighter, è tra le immagini più iconografiche del Far West. Conoscitore profondo della geografia, dei popoli e delle caratteristiche e pericoli delle immense pianure, deserti e montagne dell’hinterland nordamericano, la sua assistenza era necessaria in un territorio vasto, bellissimo ma selvaggio, dove gli errori spesso si pagavano con la morte, non solo per mano dei nativi, ma per la sete, fame od assideramento.
La orribile vicenda di antropofagia della mal diretta “Carovana Donner” è emblematica.
Questa genìa di uomini, bianchi, mezzosangue o nativi aveva la rara spesso innata ma sempre perfezionata capacità di, udire, vedere, leggere e decifrare segnali, tracce, situazioni che si rivelavano vitali in un ambiente spietato.


Donner Party

Possedeva inoltre doti di coraggio, prontezza nella reazione, resistenza ed abilità equestre e nel maneggio delle armi. Quelli bianchi sovente erano ex mountain men oppure cresciuti nelle tribù indiane, adusi quindi al contatto con la natura selvaggia, agli agguati ed alle guerre tribali. Il lato oscuro era che a volte guidava o fungeva da interprete in spedizioni militari proprio contro la stessa tribù che lo aveva adottato, come accadde ad Isaiah Dorman, Frank Grouard. Billy Comstock, Mickey Free e Merejildo Grijalva.
Il sostantivo inglese “scout” deriva dal verbo francese “ecouter” che significa appunto ascoltare.
L’esercito in particolare non poteva fare a meno degli scouts che sin dalle prime spedizioni di esplorazione, ricognizione e belliche erano i suoi occhi ed orecchi. Senza di loro poteva vagare sino allo sfinimento di uomini e cavalli senza trovare la minima traccia dell’elusivo nemico che conosceva perfettamente il terreno. Persino una intera tribù in movimento, con donne vecchi e bambini, poteva rendersi introvabile e viaggiare alla lunga più spedita di un reparto di cavalleria.
Nota come la “tragedia del Decimo Cavalleria” è l’odissea di una spedizione dell’estate del 1877 di una compagnia della famosa truppa di colore di stanza a Ft. Concho che, insieme numerosi cacciatori di bisonti, si era inoltrata nel Llano Estacado (Staked Plains) per “dare una lezione” ai Comanches ma senza guide.


Il 10° Cavalleria – Buffalo Soldiers

Non trovò i Comanches e neppure le pozze di acqua pur transitandovi vicino tanto che ebbe perdite umane e diserzioni, fatto raro nei reggimenti di colore, che costò infine la corte
marziale a dei validi sottufficiali ma nessun nocumento al maggior responsabile bianco, l’inetto cap. Nicholas M. Nolan.
L’abilità nel leggere i “segni” era fondamentale, ad essa lo scout dedicava molta attenzione, certe volte li studiava immobile per ore altre volte seguiva le minime tracce, invisibili ad un profano, anche per intere settimane.
Durante le campagne nelle grandi pianure leggemmo di uno scout indiano per non smarrire la pista degli ostili ormai vicinissimi, essendo notte fonda, nascosto sotto una coperta leggeva le tracce alla luce dei fiammiferi davanti agli increduli soldati. Numerose sono le testimonianze nelle memorie di Ufficiali della loro eccezionale bravura.
Nonostante i 60 anni suonati e la dura vita di frontiera Jim Bridger cavalcando in testa alla spedizione sul fiume Tongue nel 1865 notò un lontanissimo piccolo sbuffo di fumo segnalandolo agli ufficiali più giovani che però non riuscirono a vedere nulla. Scoprirono poi che proveniva da un villaggio indiano.


Jim Bridger

Durante una spedizione del 1864 in Nebraska i soldati del Settimo Cavalleria dell’Iowa accampati di notte udivano ululati ma lo scout John Smith li avvertì che non si trattava di lupi ma di richiami dei Cheyennes che li stavano accerchiando. Disgraziatamente questi segnali, vocali e visivi, tipici delle tribù non erano sempre decifrabili poiché venivano prestabiliti ogni volta dai nativi proprio per garantirne la segretezza.
Per sopravvivere, orientarsi, trovare tracce, preziose pozze d’acqua, capire la direzione ed il numero dei nemici e bene operare era importante anche saper comunicare con le varie tribù, spesso in gruppi misti. Gli scouts conoscevano la lingua di qualche tribù con cui avevano convissuto ma data la varietà dei ceppi ed ostici dialetti era giocoforza comunicare col linguaggio dei segni, di uso universale nelle grandi pianure, sviluppato insieme dalle diverse nazioni per superare le barriere linguistiche. Vari ufficiali scrissero poi trattati su questo particolare linguaggio che non solo permetteva di scambiare informazioni ma consentiva di ragionare come un indiano ed era quindi prezioso per comprenderne la natura e la logica.


Scout Black Seminole

Gli scouts nelle spedizioni militari importanti non operavano da soli ma sovente in gruppi anche di più di cinquanta elementi, a volte compositi tra bianchi e nativi di diverse tribù collaborazioniste. Servivano inoltre come corrieri e portaordini: durante la campagna del 1879 in Colorado contro gli Utes lo scout J. P. Rankin percorse 80 miglia in 24 ore per portare al Gen. G. Crook la notizia della battaglia di Milk Creek. Grazie a ciò fu evitato un disastro al Quarto Fanteria del Magg, Thomas T. Thornbough per l’arrivo di una colonna di soccorso.
Molti scouts preferivano il mulo al cavallo, come ben recepito dal Gen. “Tre Stelle” Crook, forse il più abile e leale Indian Fighter, poiché erano quadrupedi più parchi nel foraggiamento e resistenti alla lunghe marce a costante velocità e nei terreni impervi.
Consolidata tecnica era quella di inviare in avanscoperta di almeno 12 o 24 ore un gruppo di scout poiché il suo compito non era di sconfiggere i nemici ma quello di osservarne segretamente e prudentemente le mosse, scoprirne la posizione e l’accampamento guidandovi le truppe.
Lo scout non era tenuto per contratto a prendere parte al combattimento ma si trattava di una opzione teorica poiché trovandosi nella mischia doveva difendersi e neppure poteva allontanarsi dopo aver indicato ai militari gli ostili.
Più tardi, con gli arruolamenti di scouts nativi, organizzati in compagnie inquadrate come cavalleria, Black Seminole, Pawnee, Arikara, Crow, Oglala, sempre sotto il comando di ufficiali bianchi. Forniti di divise, che indossavano con libertà, carabine Springfield 45-70, con ferma di 40 giorni e 40 cent di paga giornaliera, venivano usati senza scrupoli per combattere le tribù tradizionalmente nemiche nelle Grandi Pianure ma anche contro i loro fratelli, soprattutto nel caso degli scout Apache. Alla fine, quale ricompensa per il loro prezioso aiuto, questi condivisero la deportazione in Florida con i resistenti.
Nel primo periodo dell’espansione verso ovest i migliori furono Cristopher “Kit” Carson, Thomas, il tagliatore di teste Thomas “Tom” Tobin, l’afroamericano James P. “Jim” Beckworth, Jim Bridger e Mariano Medina.


Cristopher “Kit” Carson

Questa prima generazione aveva acquisito una profonda esperienza operando nelle Montagne Rocciose e lungo il Missouri e qualcuno aveva attraversato il Continental Divide sino alla California, quali mountain men, trappers ed apripiste che, conclusa l’epoca d’oro della delle pellicce di castoro, si era riconvertita a gestire remoti trading post o fare la guida sfruttando la acquisita conoscenza dei luoghi e la affinata capacità di sopravvivenza. Vari scouts erano mezzosangue, figli di due culture in conflitto, quali lo scoto-chippewa Archie McIntosh, il preferito di Crook avendogli evitato di cadere in un agguato ed il cui fratello minore, Donald, perì da ufficiale nel disastro di Custer; William McKay, scoto-chinook, capo degli Scout Apache Warm Springs usati anche nella guerra dei Lava Beds.
Quelli dell’ultima generazione nella lotta contro le tribù delle Grandi Pianure furono il principe dei pistoleri James B. “Wild Bill” Hicock; William A. “Medicine Bill” Comstock, superstizioso capo degli scouts di Ft. Wallace ucciso da giovani guerrieri Cheyennes poi sconfessati dal loro capo mentre tornava dal parlamentare, noto anche per una gara di caccia al bisonte persa contro William F. “Buffalo Bill” Cody, altro famoso scout e uomo di spettacolo; i 50 frontiermen “Forsythe’s Scouts” del Maggiore George A. Forsythe del Nono Cavalleria, attori nel settembre 1868 della battaglia di Beecher Island ove trovò la morte il capo Cheyenne Naso Romano; il maggiore Frank J. North capo degli scout Pawnee nelle spedizioni dei fiumi Powder e Tongue. Ancora, Moses “California Joe” Milner lo scout preferito dal Gen. P. “Little Phil” Sheridan, che aveva servito anche nelle Guerre Messicane sotto il Gen, Zachary Taylor, ed il discusso ma capace interprete Frank Grouard. figlio di un missionario mormone e di una polinesiana.


James B. “Wild Bill” Hicock

Charlie “Lonesome” Reynlds, George Herendeen ed il mulatto Billy Jakson, con gli interpreti Isaiah Dorman e Mitch Bouyer, erano tra gli scout di Custer ed alcuni ne condivisero la sorte a Little Big Horn, come pure il capo degli scouts Ree Bloody Knife, l’indiano preferito dal Boy General, che aveva avuto la “visione” premonitrice della sconfitta del Settimo e della propria morte.Altri personaggi famosi sono Luther Sage “Yellowstone” Kelly capo scout dello spocchioso ma capace Gen. Nelson Miles e Johnny “Big Leggins Tahunska Tanka” Bruguier.
Nelle campagne contro gli Apaches si distinsero il tedesco di nascita Albert “Al” Sieber, Tom Horn, il messicano cresciuto tra gli Apache Merejildo Grijalva e Mickey Free, definito “mezzo irlandese, mezzo messicano e del tutto figlio di buona donna” che da bambino inconsapevole aveva dato avviò alle Apache Wars.


Al Sieber

Tom Horn si impiegò poi come “hired killer” dei latifondisti nel Wyoming e finì impiccato, forse innocente, per l’omicidio di un ragazzino. La sua abilità di tracciatore e di tiratore era proverbiale: essere inseguiti da lui era considerata come una inevitabile sentenza di morte.
L’ultima presenza di scout è documentata dalla foto di un vecchio apache seminudo mentre guida nella primavera del 1916 la spedizione punitiva nel vecchio Messico del Gen. John J. “Black Jack” Pershing alla vana ricerca di Pancho Villa.
Questa superficiale carrellata di caratteristici personaggi, alcuni leggendari, non scalfisce neppure l’enorme argomento. Pur tacendo le storie di coloro, altrettanto capaci, qui per brevità non rammentati, occorre precisare che per narrare le avventure di uno solo di questi straordinari figli della frontiera occorrerebbero fiumi di inchiostro.

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