Viaggio nel Sud-Ovest americano

A cura di Giuseppe Danovaro

Cavalieri nella riserva dei Navajo
Fermai il furgone subito dopo aver abbandonato la grande arteria principale che da Albuquerque (New Mexico) si snoda lungo la grande pianura: meta di questa prima tappa il Pueblo di Acoma, nella riserva degli Zuni.
Il mio viaggio prevedeva appunto un ampio giro lungo gli Stati dell’Arizona e del New Mexico, attraverso le riserve più rappresentative, quali appunto quelle degli Hopi, degli Zuni, dei Navajos, fino a raggiungere gli Apaches ed altre etnie minori.
Partenza appunto da Albuquerque, dove ero giunto il giorno precedente insieme ad un gruppo di appassionati di cultura indiana e di quella immensa scenografia rappresentata dalle pianure dei deserti americani.
Davanti a me si era delineato all’improvviso un paesaggio di assoluta, quasi astratta bellezza, dove una multiforme varietà di colori si fondeva in una atmosfera di totale silenzio, solo interrotto dal soffuso ed attutito rumore di una brezza fresca e costante, che faceva lievemente ondeggiare le cime degli alberi circostanti.
Due mondi, tanto diversi, separati da uno spazio esiguo: alle mie spalle il traffico ed i rumori tipici ai quali eravamo da sempre abituati, davanti un mondo di sogno e fantasia.
Ripreso il cammino giungemmo ben presto da Acoma, da dove salimmo al Pueblo omonimo, a bordo di un pulmino, condotto da una guida locale.
Per nulla casuale la denominazione Sky City, con la quale viene denominata tale località: giunti al culmine dell’ascesa ci trovammo in un povero villaggio, da dove si poteva osservare la grande vallata sottostante e le vicine colline, che la delimitavano.


Acoma, “Sky City”

Le case rettangolari, costruite con fango ed argilla, davano alla scena un qualcosa di antico, di rigidamente bloccato nel tempo, come l’affermazione di un rifiuto a volersi allineare ai nuovi gusti e alle tendenze della società e della cultura dominante.
Assoluta mancanza di acqua ed elettricità, strade polverose, dove la gente si riunisce silenziosamente, immersa nei propri pensieri.
La guida, anche esageratamente calata nel proprio ruolo, descriveva le caratteristiche di questa zona, soffermandosi su alcuni particolari storici ed illustrando alcuni degli aspetti salienti di questa popolazione.
Gradualmente persi contatto con la sua voce squillante e monotona, limitandomi a seguire il percorso che ci veniva indicato.
Mi guardai intorno.
Come questa gente possa condurre un simile tipo di esistenza, rimane un vero mistero: il mutare delle stagioni doveva per forza di cose rappresentare un costante motivo di allarme, sia nei mesi estivi. per la siccità evidente, sia nei mesi invernali, per la esposizione di questo promontorio ai venti e al clima rigido tipico di questa zone. Impensabile poi il poter fronteggiare adeguatamente una qualsiasi situazione di emergenza.
Volsi il capo e vidi un uomo anziano, dai lunghi capelli bianchi sciolti sulle spalle. Dopo averci guardato con un certo distacco, si fermò sulla soglia di quella che doveva essere la sua abitazione, poi, accomodatosi su un povera panca, alzò lo sguardo verso l’azzurro del cielo, rimando immobile in muta contemplazione.
I miei precedenti ragionamenti, le mie elucubrazioni, i miei interrogativi cominciarono lentamente a dissolversi. Il nativo americano appartiene alla natura , con la quale ha da sempre un rapporto ed un legame indissolubile e della quale condivide ogni variazione, negativa o positiva, ogni palpito.


La vecchia Acoma

Superfluo porsi a priori delle domande e cercare affannosamente delle risposte, delle certezze, acquisibili magari con un qualche accorgimento tecnico, che comunque forza inevitabilmente il normale corso degli eventi, ai quali l’uomo, come ogni creatura non può e non deve sottrarsi.
Mi sembrava fosse questo il messaggio che la figura di questo vecchio, nella sua ieraticità e nel suo orgoglioso distacco, ci trasmetteva.
Mi avvicinai nuovamente al gruppo che stava ora visitando il piazzale antistante la chiesa: a poca distanza dall’entrata, ben delimitato entro precisi confini, un piccolo cimitero.
Entrati in chiesa, ascoltammo il resoconto della nostra guida, la quale stava spiegando che a suo tempo erano giunti in queste zone i Francescani, i quali avevano fatto erigere quella costruzione, nella quale si svolgevano tuttora, in certi giorni le cerimonie sacre.
Anche in questo, come in altri casi nelle zone del Nord America, si assisteva ad un fenomeno di aperto sincretismo: la stessa guida ammetteva di praticare entrambe le religioni, quella cattolica e quella del suo popolo. Personalmente non mi stupii, visto che il bisogno di trascendenza e di spiritualità è univoco: non so però se gli assertori della dogmatica ufficialità siano del mio stesso avviso. Nutro qualche dubbio a tale proposito.
Quando lasciammo questo luogo non potei esimermi dall’osservare come fosse diverso il comportamento della nostra guida e quello del vecchio indiano: la prima professionalmente attenta ed impegnata nel suo ruolo, il secondo decisamente estraneo ad avvenimenti poco consoni al suo mondo. Preferii non formulare alcun giudizio: sicuramente entrambi, pur in modo diverso, cercavano di preservare e salvaguardare almeno una parte della propria identità.


La missione francescana di Acoma

Sulla strada per Gallup, dove ci saremmo fermati per un paio di giorni, ci imbattemmo in un Pow Wow, organizzato dai Navajos.
Canti e danze si susseguivano rapidamente su un’ampia piazza sterrata, mentre tante bancarelle esponevano tutte le varianti di una variopinta oggettistica artigianale: collane e bracciali, ventagli di piume, dipinti ove si rappresentavano scene di caccia o semplicemente dorati paesaggi, tutto un insieme estremamente gradevole ed invitante, nonostante i prezzi fossero piuttosto elevati.
Dopo aver pagato il nostro tributo all’appetito con una robusta colazione a base di piatti tipici, proseguimmo, giungendo a Gallup all’imbrunire.


Una vista di Gallup

Sistemati i bagagli in albergo, cercammo un ristorante.
Il breve intermezzo pomeridiano era servito a placare, ma solo temporaneamente, il nostro appetito: probabilmente la fatica di questo primo trasferimento aveva comportato un notevole dispendio di energie, che ora dovevano essere reintegrate. Questo era un compito particolarmente gradito al quale, per nessuna ragione al mondo, intendevamo sottrarci.
Tornati in albergo, ci ritirammo nelle nostre stanze.
Come prevedevo, stentai ed addormentarmi: le immagini della giornata continuavano a scorrere nitide davanti ai miei occhi, mentre sommessi rumori, sempre più fievoli, provenivano dall’esterno. La natura stava a poco a poco rallentando i propri ritmi : lentamente anch’io mi abbandonai ad un sonno ristoratore.
La mattina successiva ci alzammo di buon’ora: il programma prevedeva la visita a Chaco Canyon, centro della cultura Anasazi, antica popolazione misteriosamente scomparsa, secondo gli studiosi, fin dal 1200.
Dopo aver percorso chilometri di sterrato in una landa deserta, in leggera, ma costante salita, sotto guglie di rocce, che sembravano vere torri, arrivammo alla all’entrata di una immensa radura, dove riposano appunto le vestigia di questa antica civiltà.
A quanto mi risulta, sugli Anasazi si sa veramente poco e anche quelle scarne informazioni, che gli antropologi hanno acquisito, non si sa se siano più o meno attendibili.


Chaco Canyon

La grande radura che si apriva davanti a noi era intervallata da costruzioni, formate da mattoni di argilla e fango, mescolati con erbe e rami: di forma prevalentemente circolare, denotavano una buona conoscenza della tecniche di costruzione, che pur rudimentali dovevano aver garantito a questo popolo un valido ed accogliente rifugio.
Scavate nel terreno, le Kiva, ampie buche, anch’esse circolari, destinate a cerimonie sacre o a momenti di meditazione e di raccoglimento. La discesa e la risalita erano facilitate da robuste scale in legno, appoggiate all’interno, con la sommità rivolta verso l’uscita.
Spostandoci all’interno raggiungemmo un altro punto, dalle caratteristiche più o meno analoghe: Pueblo Bonito.
Purtroppo la carenza di notizie su questa etnia rende difficoltosa una certa, anche se approssimativa, ricostruzione della loro cultura, per cui anche il turista più interessato deve limitarsi ad un giudizio solo estetico, senza poter contare su alcun collegamento con trascorse vicende umane, che magari potrebbero consentire un avvicinamento maggiore a simile cultura.
Mentre tornavamo in albergo, avvertivo un certo senso di frustrazione: posti e luoghi di incomparabile bellezza, ma muti, privi di quel necessario ed indispensabile collegamento con le etnie che vi si erano stanziate.
Stavo visualizzando una sequenza di stupendi fotogrammi, ma non riuscivo a sentire quel rapporto, quella connessione, che sicuramente doveva essersi verificata tra l’ambiente e quelle popolazioni.
Conservai tale sensazione di disagio anche la sera, tornati in albergo. Eravamo però ancora all’inizio del viaggio: l’indomani avremmo visitato la riserva degli Zuni, la cui etnia occupa da tempo immemorabile quella zona.


Pueblo Bonito

Le mie speranze non vennero deluse.
Ci trovavamo in un territorio estremamente gradevole, curato ed ordinato, dove piccoli agglomerati di case si armonizzavano perfettamente con l’ampio territorio circostante.
Penetrando nel centro della riserva, giungemmo su un’ampia piazza, davanti alla quale si affacciava una chiesa.
Entrati, fummo immediatamente raggiunti da un rappresentante di questa etnia, che, dopo essersi educatamente presentato, manifestò la sua aperta disponibilità ad illustrarci il significato dei dipinti rappresentati sulla pareti.
Come si era già verificato in precedenza, anche qui l’argomento sacro era trattato nel pieno rispetto della tradizione e della religione cattolica: colpiva invece singolarmente la molteplicità delle tinte e delle diverse tonalità cromatiche, segni questi che denotavano non soltanto un certo gusto istintivo, ma anche una indubbia ricercatezza tecnica.
Mi sembrò di capire che il nostro anfitrione aveva dipinto lui stesso alcune scene, seguendo l’insegnamento del proprio genitore, denominato, non a caso, Michelangelo degli Zuni.
Ci accomiatammo, ringraziandolo per la sua cortesia e proseguimmo per Window Rock, centro della cultura Navajos.
Giunti a destinazione, alzai lo sguardo e, finalmente avvertii una improvvisa emozione. Dall’alto una roccia troneggiava, quasi spavalda, sul sottostante scenario: al centro si apriva un grosso foro perfettamente circolare, attraverso il quale il sole saettava i suoi raggi, dando l’impressione di una evanescente colata lavica.
Il nome rappresentava l’esatta definizione del fenomeno.
Mentre mi avvicinavo alla base di questo straordinario monumento naturale, mi sembrò di poter capire come davanti a certi spettacoli, l’uomo, riconoscendo la propria modestia e debolezza, senta il bisogno di inchinarsi, deferente.
Nessun stupore quindi che i Navajos abbiano scelto questo posto quale sede del loro governo tribale.


Window Rock

Il giorno successivo fu riservato alla visita di Gallup: senza ulteriori indugi, ci dirigemmo quindi verso il centro.
Gallup si presenta come una cittadina decisamente ordinata, pulita, col tipico nitore di molte altre località del Sud -Ovest, costantemente pervasa da una luce chiara e diffusa.
La via principale, caratterizzata dalla presenza di diversi semafori, si percorre a velocità moderata, nonostante la scarsa presenza di veicoli. La comunicazione con tale arteria viene agevolata da piccole strade laterali, che vi confluiscono ad intermittenza.
Negozi e laboratori artigianali rappresentano una folcloristica costante, estremamente gradevole, considerata la varietà di oggettistica esposta nella vetrine.
Evidente l’impronta del popolo Navajo, con tutte le peculiarità tipiche di questa etnia: una atmosfera di serena allegria pervade ogni angolo della città, diffondendosi anche negli angoli e nei punti più remoti e nascosti.
Il Museo cittadino, naturale punto di riferimento di ogni turista, si divide in diversi settori, con ampie stanze e locali destinati alla mostra di lavori artigianali, a proiezioni cinematografiche, a riunioni dal contenuto storico ed artistico.
Sulla piazza antistante, una simpatica vecchietta, dagli abiti variopinti e con le braccia e le mani letteralmente coperte da anelli di luminosissimo turchese, sorrideva agli occasionali visitatori, sicuramente incuriosita dalla loro presenza e da quel turbinio di voci, abbastanza inconsueto e comunque tanto diverso dalla discreta compostezza del suo popolo.
I miei ritmi si stavano lentamente adeguando a questo clima: una calma sempre più intensa si stava impossessando del mio essere, mentre si acuiva il desiderio di guardare, esaminare, immergersi in questo clima di completa tranquillità.
Tornato in albergo, la sera, prima di coricarmi, non seppi resistere al desiderio di affacciarmi alla finestra.
L’oscurità stava lentamente avanzando, spegnendo gli ultimi riflessi di luce: l’immensa pianura si addormentava, mentre si stavano destando le creature notturne.
All’improvviso un piccolo leprotto si delineò sul campo vicino: accovacciato al suolo sembrava ascoltare attentamente messaggi lontani, vibranti.
Dopo qualche istante balzò oltre la siepe sparendo alla mia vista.
Chiusi la finestra e mi coricai.
Il ricordo di quel piccolo essere continuava a danzare nella mia mente: la sua immagine, così inconsueta in un luogo simile, sembrava volesse apertamente sottolineare l’appartenenza anche di quella zona cittadina alla immensa natura circostante, la quale ne rivendicava appunto la propria assoluta sovranità, avvalendosi proprio di una delle sua creature più deboli ed indifese.
Cercai di addormentarmi, ma vi riuscii solo dopo diverso tempo.


La stazione di Flagstaff

Nuova tappa di trasferimento, la città di Flagstaff, ma con un intermezzo ad altissima intensità emotiva: la visita al Deserto Dipinto e alla Foresta Pietrificata.
A questo punto nascono difficoltà di notevole spessore.
Riuscire a descrivere il Deserto Dipinto senza cadere nell’iperbole appare come una vera impresa.
Quale rappresentazione può darsi, se non quella di una enorme tavolozza, appoggiata al suolo come su un enorme basamento, dove vengono rappresentati tutti i colori esistenti, con le più svariate tonalità e sfumature?
Francamente non riesco a dare una diversa definizione a questa meraviglia della natura né mi sento di addentrarmi in complicati sofismi dialettici, che sicuramente sminuirebbero una simile rappresentazione.
Non sono esperto di arti figurative in genere e di pittura in particolare, ma il desiderio che ho immediatamente e irrazionalmente avvertito è stato quello di circoscrivere in una immensa cornice quello che stavo vedendo, per poi portare questo incredibile quadro in una mia immaginaria pinacoteca.
Non si può delimitare l’infinito, mi ritrovai a riflettere, né alterare una scenografia che nessuna mente umana avrebbe mai potuto inventare. Giusto invece che in ognuno di noi rimanga il ricordo di un disegno, con tutte le caratteristiche dell’astrattezza, che si fa poi concreto davanti ai nostri occhi, per poi tornare a disperdersi e quindi ad amplificarsi nella fantasia.
Inferiore alle mie aspettative, la Foresta Pietrificata, probabilmente più apprezzabile da uno studioso, in grado di comprendere meglio la portata di questo fenomeno. Torno a ripetere, si tratta di un giudizio esclusivamente personale, che non deve assolutamente apparire né riduttivo né negativo.
Un improvviso acquazzone ci spinse ad affrettare i tempi per la partenza verso Flagstaff, dove giungemmo in tarda serata : cena velocissima e quindi ognuno nella propria stanza. L’indomani ci aspettava il Grand Canyon.
Francamente non sono mai riuscito a visualizzare questa immensa spaccatura, se non ricorrendo alle immagini di tanti film e fotografie: ora finalmente avrei potuto “viverla” direttamente.


Una spettacolare vista del Grand Canyon

Il percorso di avvicinamento alla nostra meta si presentava in leggera, ma costante salita, assumendo un andamento sinuoso: inizialmente ci trovammo a costeggiare fitte macchie verdeggianti, che lentamente lasciarono spazio a boschi lussureggianti.
Le prime colline si stagliavano lungo il basso profilo del cielo, conferendo alla scena un qualcosa di maestoso, di ieratico.
La strada continuava a salire, penetrando nella macchia, ora, in alcuni tratti fitta, in altri più rada, più povera, come volesse indicare una sofferenza latente.
Il nostro furgone procedeva lentamente, consentendoci di osservare meglio l’ambiente.
All’improvviso, in rapida successione, notai prima una scoiattolo morto, vittima probabilmente di un qualche veicolo di passaggio, poi, poco oltre, un porcospino, che aveva subito identica sorte.
Ci fermammo: il silenzio era assoluto.
Quale significato poteva darsi all’ingerenza sempre più massiccia della nostra pressante tecnologia in una simile zona?
Anni di progresso scientifico spesi per consentirci sofisticate e comode evasioni al di fuori delle nostre quotidiane abitudini, avevano finito per alterare un equilibrio consolidatosi nel tempo passato, squilibrando il preciso rapporto dell’intero ecosistema.
Piante, animali, vegetali, minerali in genere, travolti da una sempre più vorticosa corsa alla ricerca di un improbabile ed aleatorio benessere, di un divertimento fine a se stesso, temporaneo e fuggevole.
La vita di creature innocue ed indifese spezzata senza motivo, nella più fredda indifferenza, come se tutto questo macrocosmo fosse stato precostituito, al solo scopo di allietare l’esistenza di chi ottusamente ed arbitrariamente si era insignito di un potere assoluto.
A cosa era servito quel sacrificio? A sfamare forse qualche altro essere vivente? Il ciclo naturale aveva mantenuto il suo corso oppure era stato sviato, nel suo iter consueto, da un qualcosa di estraneo?. La risposta era anche troppo semplice: quei poveri resti abbandonati ne erano la più diretta testimonianza.
Non escludo che qualcuno potrebbe sorridere davanti a queste mie considerazioni. Tutto sommato è sempre preferibile sdrammatizzare e magari ironizzare su quelle che potrebbero essere definite come assurde esagerazioni.
Potrei anche essere d’accordo, ma mi si dovrebbe spiegare quale sarebbe la vita dell’uomo su questo nostra pianeta, senza tutte quelle manifestazioni della natura, alle quali inconsciamente siamo da sempre abituati e alle quali ricorriamo nei nostri sogni infantili e, da adulti, nei nostri, magari rari, momenti di contemplazione.
Non mi risulta che ottenga il medesimo risultato la visita di un sofisticato centro di ricerca scientifica o molto più semplicemente la vista di un rombante mezzo di locomozione.


Ancora una vista del Grand Canyon

La sosta si stava prolungando oltre il previsto: riprendemmo allora la nostra marcia, giungendo ben presto su uno dei tanti piazzali, posti ai lati del Grand Canyon.
Proseguendo a piedi, mi diressi verso il costone laterale: provai a guardar verso il basso, ma avvertii subito un certo sgomento.
Riuscii a controllarmi e dopo qualche perplessità, con molta cautela, comincia a muovermi sul sentiero, che delimitava appunto questa enorme fenditura. Rilassatomi completamente, cominciai ad osservare lo spazio che si affacciava davanti al mio sguardo.
Avvertivo, in modo inebriante, il senso del vuoto, come se quella grande voragine riflettesse, simile ad una immensa lente, lo spazio sopra di noi: falchi, o anche semplici poiane, volteggiavano seguendo invisibili percorso, ora abbandonandosi in vertiginose picchiate ora in imperative ascese verticali.
Rocce frastagliate, a strapiombo, disegnavano fantasiose raffigurazioni, ritagliando arcigni e raffinati profili di immaginarie creature scolpite nella roccia. Macchie boschive sporgevano dai canaloni, come se volessero sfidare il baratro o addolcirlo in morbide balze.
Il ripiano sul quale camminavamo era coperto d’erba e muschio morbidissimi, che attutivano il rumore dei nostri passi, rendendo l’atmosfera ovattata, quasi del tutto priva di suoni.
Qualche breve stormire di ali, la fuga di qualche scoiattolo, il fruscio del sottobosco e delle alte chiome degli alberi, poi nient’altro se non il nostro respiro.
Tornando al punto dove avevamo lasciato le nostre vetture, incrociammo gruppi di turisti, armati come noi di macchine fotografiche o cineprese: il desiderio di immortalare quelle immagini, da rivedere una volta tornati a casa, era comprensibilissimo. Resta però il fatto che il vero elemento catalizzatore rimane il momento in cui si è fatto parte di quell’ambiente, senza interferenze o mediazioni: l’immagine evoca i ricordi, ma come riuscire a trasmettere certe emozioni a chi, rimasto a casa, ne ha solo una rappresentazione visiva, bloccata su una fotografia o su una sequenza cinematografica?
La natura conserva i suoi segreti e ne rende partecipe, con sommessi messaggi, solo chi, anche fuggevolmente o per pochi attimi, ne entra umilmente a far parte: questo almeno mi sembrava di aver percepito durante questa visita e nel corso di tante altre, durante il nostro itinerario.
Rientrati a Flagstaff, dopo una rapidissima doccia, ci catapultammo, il termine non è esagerato, nella sala ristorante, dove confidavamo in una abbondante cena: la nostra speranza non fu delusa.


L’interno di un ristorante di Flagstaff

Enormi portate, ricoperte da salse piccanti di vario genere, innaffiate da succhi di frutta e bevande, generalmente servite a temperatura polare, si avvicendavano sull’immensa tavolata, predisposta appositamente per la nostra allegra e vorace comitiva.
A lenire i morsi dell’appetito, una simpaticissima donna tipicamente Yankee, che saettava dalla cucina alla sala ad una velocità incredibile, elargendo sorrisi e battute in tipico stile Saloon di frontiera: dove trovasse tutte quelle energie e quel sano senso umoristico resta un mistero, visto tra l’altro che si trattava di una persona sicuramente non più giovane, anzi, senza eufemismi, di una certa età.
Mi venivano in mente certe espressioni di cupe o tristi inservienti di casa nostra, quando entrando in un ristorante, ci siamo quasi sentiti in dovere di scusarci per la nostra incauta intrusione. Visi arcigni, gelidi, che ci guardano severi dall’alto, mentre una mano nervosissima verga su piccolo taccuino la varie ordinazioni. Ultimato il rito, un immediato voltafaccia, quindi il rapido succedersi delle varie portate, senza alcun commento, se non di maniera, e con l’invito, più o meno palese, a levare rapidamente il disturbo: ovviamente non prima di aver pagato.
Naturalmente questo non avviene sempre, ma un certo atteggiamento improntato ad una malcelata insofferenza, mi sembra abbastanza ricorrente in alcuni ristoranti nostrani.
Semplicità, faciloneria, infantilismo sono questi i sinonimi con i quali noi, “colti europei”, gratifichiamo certi comportamenti americani. Saranno anche giudizi fondati, ma, non me ne vogliano i cultori del c.d. bon ton, personalmente preferisco uno smagliante sorriso ad un gelido e distaccato cenno di saluto.
Finalmente sazi e soddisfatti, uscimmo sulla piazza antistante il ristorante: una fresca brezza notturna ci accolse non appena giunti all’aperto.
Qualche breve dialogo, lo scambio delle varie impressioni, poi il desiderio di un morbido ed accogliente letto.
L’ultimo ricordo prima di addormentarmi andò a quella inserviente, mentre improvvisava allegri e spericolati slaloms nella sala: mi aveva inguaribilmente contagiato e conquistato col suo disinvolto comportamento. Eppure, come ho già detto, era una persona d’età e, per giunta, neanche bella: sorrisi nell’oscurità, mentre cercavo la posizione più comoda, poi, finalmente, mi addormentai.


Sedona!

Un cielo incredibilmente azzurro salutò il nostro risveglio la mattina successiva. Era di buon auspicio per la nostra visita ad una zona ed ad una città tra le più caratteristiche del Sud-Ovest: Sedona.
Non avevo mai sentito menzionare questa località, per cui durante il percorso chiesi a chi si era in precedenza documentato.
Si trattava di una località unica nel suo genere, caratterizzata, secondo alcuni, dalla presenza di misteriose fonti energetiche, di cui erano a conoscenza le stesse popolazioni indiane.
Lo scenario intanto stava gradualmente cambiando: al verde tipico dei boschi si stava sovrapponendo un colore bruno-rossastro, che, con sempre maggiore intensità e frequenza, colorava i fianchi delle colline, ora sempre più spoglie.
All’improvviso, dopo una curva, apparve ai nostro occhi una luminosa vallata dal colore rosso intenso, al centro della quale sorgeva appunto la città, sede del nostro trasferimento.
Che Hollywood, come venni a sapere, vi avesse girato molti film western, non doveva meravigliare, viste certe caratteristiche della zona: era invece incredibile la singolarità di una città che, pur avendo mantenuto le caratteristiche tipiche della frontiera, a queste aveva abbinato un qualcosa di elitario e raffinato, trasformandosi appunto in quel piccolo gioiello, adagiato davanti a nostri occhi.
Negozi , vetrine e… prezzi erano la proiezione e la manifestazione concreta di tanta particolarità.
Proprio per riappropriarci di un qualcosa di più genuino, alcuni di noi, tra i quali il sottoscritto, optarono per una gita a cavallo nei dintorni.
Il punto di ritrovo per un simile tipo di escursione si trovava sulla via principale: breve colloquio con una simpatica impiegata, dopodiché salimmo su una Jeep diretti verso un Ranch, da dove sarebbe iniziata la nostra passeggiata equestre.
In sella ad un cavallo, come è noto, si sobbalza in modo piuttosto evidente, ma questo è solo uno zuccherino se lo si paragona ad un trasferimento a bordo di una Jeep, guidata dal solito buontempone alla ricerca di emozioni forti da propinare agli incauti visitatori, imprigionati, non a caso, da robusta cinture di sicurezza, sia nei posti anteriori sia, a maggior ragione, nei posti laterali posteriori: il rischio di una perdita del turista appare infatti piuttosto elevato.
Al termine di queste “esilaranti” montagne russe, giungemmo al Ranch , dove fummo accolti dal tipico cow boy di tanti film: questo era però vero.


Un ranch a Sedona

Stetson in testa, Jeans rigorosamente Wrangler-Rodeo, stivali, bandana, camicia variopinta, andatura leggermente dinoccolata, modi asciutti e disinvolti, una gentilezza diretta, spontanea, senza sdolcinature. Poche brevi raccomandazioni, un educato, ma deciso rifiuto alla nostra richiesta di galoppare, poi… partenza.
La prateria, leggermente ondulata, era spesso interrotta da piccoli boschi, che evidentemente trovavano la loro alimentazione in qualche falda acquifera, che talvolta faceva capolino anche in superficie. Il terreno era però riarso, bruciato da un sole che anche in quel momento non ci risparmiava: i cavalli procedevano rigorosamente al passo, sollevando piccole nuvole di polvere rossastra, che lentamente si adagiavano sulla secca vegetazione circostante.
Dopo un breve rettilineo, ci trovammo davanti a quel che rimaneva, secondo la nostra guida, di una tenda Apache e di una capanna sudatoria. A poca distanza, la riproduzione di una forca, con tanto di corda e cappio, apparve ai nostri occhi, mentre il nostro cow boy ci spiegava, bontà sua, che si trattava di un grazioso orpello, ricostruito per la proiezione di un film, girato tempo addietro.
All’improvviso i nostri cavalli ebbero un sussulto ed aumentarono, per un tempo purtroppo brevissimo l’andatura: un comando secco del cow boy li calmò perentoriamente. Probabilmente la presenza di un qualche animale nella macchia vicina li aveva innervositi: così almeno ci fu detto. Ne prendemmo atto: questo però era stato almeno un momento genuino, e sinceramente ringraziammo quel piccolo contrattempo.
Tornati al Ranch, scattammo alcune foto di prammatica poi, in un clima di assoluta cordialità, ma anche con un po’ di delusione, salimmo sulla Jeep che, questa volta ad andatura moderata, ci riaccompagnò in città.
Il resto della giornata lo passammo visitando Sedona, girando nelle sue strade, visitando i suoi angoli più nascosti, entrando nei suoi lussuosi negozi per poi uscirne……. un poco alleggeriti.
Per quanto fascinosa, scintillante era comunque una città, con tutte le qualità e le caratteristiche di alcuni centri: meravigliosa tutta la scenografia, ma per le mie personali esigenze del momento, poco originale, troppo edulcorata.
Lasciammo l’indomani Flagstaff per portarci nel territorio degli Hualapai, da dove, il giorno successivo, saremmo discesi, dopo una ulteriore tappa di trasferimento, presso la tribù degli Havasupai, il Popolo delle Acque verdi azzurre, sul fondo del Grand Canyon, ultimo avamposto a salvaguardia della propria identità culturale e della propria autonomia: limitati al minimo, da parte di questa etnia, i contatti con la civiltà dominante.


Nella riserva degli Hualapai

L’albergo era elegante ed estremamente funzionale: vi avremmo però passato solo quella notte. Ci ritirammo con un notevole anticipo rispetto al consueto: l’indomani sarebbe stata una giornata estremamente impegnativa.
La sveglia alle h. 4,30 non era il modo più soddisfacente per iniziare una giornata. Dopo aver formulato questo ovvio pensiero, mi alzai, preparando i bagagli strettamente indispensabili: la permanenza era limitata infatti a soli due giorni.
Caricati rapidamente i furgoni, partimmo per la nostra nuova destinazione.
Diversi erano gli interrogativi che mi attraversavano la mente.
Anzitutto non sapevo come avrei superato una prova, che pur non off limits, rappresentava pur sempre un notevole impegno psico-fisico.
Ci avevano infatti informati che, nella nostra lunga discesa, avremmo attraversato una zona abbastanza pericolosa per la presenza di serpenti a sonagli e altre deliziose creature non esattamente pacifiche (puma).
A ciò aggiungasi che, in caso di emergenza, avremmo potuto contare sul solo intervento di un elicottero, la cui tempestività era però tutta da verificare.
Rimossi questi fastidiosi pensieri e mi concentrai sul paesaggio.
Anche in questa zona colline ondulate, coperte da boschi rigogliosi, accompagnavano la nostra marcia di avvicinamento al Grand Canyon, i cui primi contrafforti stavano lentamente delineandosi all’orizzonte.
Finalmente giungemmo su un piazzale, sul quale erano posteggiati diversi fuoristrada e roulottes.
Da quel punto iniziava il sentiero sterrato, che scendeva lungo il canalone, per poi proseguire nella sottostante ampia vallata fino al villaggio degli Havasupai.
Nonostante l’ora mattutina, il caldo era già abbastanza intenso.
Sistemai lo zaino, mi calcai il cappello sulla fronte ed iniziai la discesa.
Sotto di noi inizialmente si apriva un baratro, che il piccolo ciottolato costeggiava, sviluppandosi in curve strette, degradanti, quasi a spirale verso il fondo della vallata.
Esaurita questa prima parte, il sentiero proseguiva, scendendo più dolcemente, attraverso l’alveo di quello che, in certi periodi dell’anno, doveva trasformarsi in un torrente ampio e vorticoso.
Cambiai passo, cercando di mantenere un’andatura, per quanto possibile, costante.
Il canalone proseguiva tra due sponde di rocce ora levigate ed uniformi ora spezzate in disegni geometrici di rara bellezza. Il colore, di un marrone chiaro, assumeva diverse sfumature, alternandosi in tonalità cromatiche di sfavillante luminosità.
Il fondo sabbioso e ghiaioso non agevolava l’andatura, la quale per forza di cose doveva mantenersi lenta ed omogenea.
Improvvisamente mi si parò davanti un cane che dopo qualche esitazione mi venne incontro. La sua presenza in quella zona deserta mi meravigliò: possibile, pensai, che anche in queste lande solitarie fosse ricorrente il malvezzo di abbandonare gli animali durante l’estate? Esclusi però questa eventualità: chi poteva scendere in una zona tanto remota solo per questo scopo?


Una splendida cascata nella terra degli Hualapai

Il cane intanto si era parato davanti a me distanziandomi di alcuni metri, iniziando a trotterellare, voltandosi ripetutamente come se volesse invitarmi a seguirlo. Sempre più stupito , ubbidii al suo tacito massaggio.. nel frattempo altri cani si erano radunati lungo il canalone, assumendo lo steso comportamento del mio occasionale amico.
Ci venne poi spiegato che questi animali, appartenenti al villaggio, svolgevano il ruolo di vere guide per quanti scendessero lungo quel sentiero, distogliendo e disturbando con la loro presenza i predatori che si trovavano nella zona.
Spesso mi trovavo ad incrociare altri gruppi di parsone, che stavano risalendo la vallata. Inevitabile la domanda di prammatica sulla distanza, che ancora ci separava dalla meta. Dopo diverse ore, vidi una segnalazione. il villaggio era a poche centinaia di metri, occultato alla mia vista da una folta macchia di alberi.
Stavo ora percorrendo una strada pianeggiante, che dopo una secca curva, mi fece entrare nella piazza principale: poche case in legno vi si affacciavano, dando mi l’impressione di essere calato in un’altra dimensione, che ben poco aveva a che fare con la nostra.
Proseguii fino all’unico albergo. Ero piuttosto accaldato, ma non avvertivo allarmanti segni di stanchezza. Il problema sarebbe stato la risalita, fissata a distanza di due giorni.
Abbandonai subito questo fastidioso pensiero.
Il nostro gruppo si era intanto ricomposto. Scegliemmo le nostre stanze, decisamente ed incredibilmente confortevoli e ci sistemammo per quello che sarebbe stato un breve soggiorno.
Uscito, andai al vicino ristorante, ben diverso dalle linde stanze dell’albergo, dove consumai senza alcun indugio un abbondante pranzo. Francamente in quel momento non mi sentivo di pormi estemporanei interrogativi sull’eventuale rispetto delle norme igieniche più comuni. Il dispendio di energie era stato notevole: era quindi necessario reintegrarle, senza porsi troppe domande.
Come spesso avviene, dopo aver superato un ostacolo o una difficoltà alla quel si è pensato con apprensione, mi ritrovai in uno stato di piena euforia. Decisi allora di scendere alla cascata, descrittaci come un vero gioiello di quella natura incontaminata.
Seguendo alcune indicazioni e chiedendo a persone del villaggio, mi trovai a percorrere un viottolo, in leggera discesa, che costeggiava un torrente, il quale spesso spariva nel bosco vicino, per poi ricomparire in sinuose anse. Dopo circa un’ora di marcia sostenuta, giunsi sulla cresta di un promontorio: sotto di me un lago, copiosamente alimentato da una cascata.
Sceso sul greto di una piccola spiaggia, non potei resistere alla tentazione di un breve bagno ristoratore: la temperatura , a quell’ora pomeridiana, era infatti decisamente salita.
Tuffatomi , mi abbandonai in quel fresco abbraccio cristallino, assaporando quell’aria tersa, pura, del tutto incontaminata.
Tornato a riva mi stesi al sole.
Il cielo era una immensa cupola di un azzurro turchese, la cui uniformità era talvolta interrotta dalle oscillazioni degli alberi circostanti, che protendendo i loro rami, creavano figure sempre nuove e mutevoli.
La parete a perpendicolo sulla spiaggia era abitata da una simpatica colonia di scoiattoli, i quali, per nulla intimoriti, dalla mia presenza, si abbandonavano a vertiginose discese, per carpire qualche frutto o biscotto abbandonato da altro turisti.
Una fitta nebbiolina scendeva dalla cascata, originando fantastici giochi di luce, in alcuni momenti simili ad un piccolo arcobaleno.
La giornata stava ormai volgendo al termine. Ormai completante asciutti, ci rivestimmo, tornando in albergo.
Il giorno successivo, visitammo attentamente la piccola vallata, che si affacciava sulla vallata, scoprendo angoli e anfratti di rara bellezza.
Tutto l’ambiente sprigionava una luce brillante quasi irreale: unica nota non in sintonia con tanta bellezza, gli abitanti del luogo.
Questo è naturalmente soggettivo e come tale discutibile, ma è indubbio che gli esponenti di questa etnia hanno ben poco in comune con le altre etnie da noi visitate.
Caratteri marcati e pesanti su un fisico massiccio, in alcuni casi grasso e cadente, espressioni scostanti, una certa diffidenza ed ostilità nei rapporti col turista, spesso allontanato sgarbatamente.
Ci limitammo quindi ad osservare l’incredibile scenario, che si parava costantemente davanti al nostro sguardo, astenendoci da qualsiasi contatto con la popolazione, se non quando fosse strettamente necessario.
Nel corso della serata facemmo amicizia con un giovane insegnante di violino, di razza bianca, il quale aveva scelto questa insolita destinazione, mal sopportando la vita convulsa di Phoenix.
La cosa ci meravigliò non poco: mai infatti avremmo immaginato che nelle profondità del Canyon vi fosse spazio anche per le note delicate di un simile strumento.
La sera ci ritirammo, con un ragionevole anticipo rispetto al consueto: l’indomani, di buon’ora, ci aspettava la risalita, con tutte le relative incognite ed i più inquietanti interrogativi.
Alle h. 5,30 del mattino successivo, insieme ad altre quattro persone del gruppo, lasciavo il villaggio, entrando nel bosco e cominciando la risalita: avevamo preferito anticipare i tempi per evitare il caldo della tarda mattinata.
L’oscurità si stava diradando, lasciando spazio alle prime luci dell’alba.
Cupi tramestii nella macchia vicina ci avvertivano della presenza di qualche animale: speravamo vivamente che non si trattasse di qualche predatore.
Alla iniziale titubanza subentrò una sicura determinazione accompagnato da una sana incoscienza, che in certe situazioni decisamente non guasta.
Il nostro passo procedeva piuttosto spedito nonostante la strada stesse ora salendo. Una volta rotto il fiato cominciammo a scambiarci le nostre impressioni su questa parte del viaggio, abbandonandoci anche a battute allegre su certi episodi appena passati.
Dimenticavo un particolare: la nostra piccola comitiva era anche in questa occasione scortata da alcuni cani del villaggio, i quali ci avevano silenziosamente prima raggiunto e poi superato per porsi nella loro abituale posizione di guide “patentate”.
Sarà per la loro presenza o anche per la serenità e la tranquillità di quell’ambiente, ma avvertivo in me una euforia ed una forza inimmaginabile.
Questa sensazione di profondo e totale benessere mi spinse, quasi inconsciamente ad affrettare il passo, per cui ben presto mi trovai solo.
Per nulla intimorito proseguii, sentendomi leggero come mai mi era capitato.
Percorrevo una zona già vista pochi giorni prima, ma mi sembrava di scoprirla per la prima volta.
Imprevedibilmente mi ritrovai sotto il costone che mi avrebbe portato alla sommità del sentiero. Non riuscivo a raccapezzarmi: avevo impiegato un tempo inferiore a quello della discesa.
Attaccai quindi l’ultima rampa in piena tranquillità, giungendo infine alla piazzuola, dove avevamo lasciato le vetture: se non mi fossi controllato, me ne sarei uscito con un prolungato urlo di soddisfazione, che avrebbe sicuramente impensierito le persone presenti.
Tutto era andato bene.
Un naso umido e tiepido mi sfiorò la mano: nella fase finale dell’ascesa era rimasto con me soltanto un cane e questi stava ora ricordandomi della sua presenza. Mi chinai, presi la sua testa tra le mani e lo guardai intensamente: ricambiò il mio sguardo con una espressione di dolce dedizione.
Frugai nel mio zaino, trovando qualche biscotto che gli diedi: non sembrava fosse di suo gradimento. Alla fine compresi: aveva solo sete e d’altra parte ne aveva tutte le ragioni.
Avvicinai la bottiglia dell’acqua alla sua bocca, rovesciandone delicatamente il fresco contenuto, così da permettergli di dissetarsi. Dopo lunghi avidi sorsi, si scostò accucciandosi all’ombra di un furgone.
Mi ritrovai a pensare al rapporto che lega indissolubilmente l’uomo agli animali in genere e, in particolare, ad alcuni di questi, come i cani o altri animali domestici: purtroppo di queste meravigliose creature ci si ricorda solo nei momenti di solitudine e bisogno, dimenticandoci del loro affetto incondizionato.
Poco mi importa delle teorie sulla scala gerarchica degli esseri viventi, al culmine della quale si trova, – chi l’avrebbe mai detto? -, l’uomo: personalmente percepisco nello sguardo di queste creature maggior profondità di quanto non abbia mai trovato in quello di tante persone.
Lo accarezzai ancora una volta, ringraziandolo in silenzio: era inutile qualsiasi parola. Poi mi allontanai: girato lo sguardo non lo vidi più. Aveva sicuramente ripreso la via di casa, dopo aver assolto al suo compito.
Mi sedetti sul furgone. la fatica cominciava a farsi sentire.
Gli altri componenti della nostra comitiva stavano arrivando: nel giro di poco tempo il gruppo si era ricomposto. Caricati tutti i sacchi e gli zaini, riprendemmo la strada per il ritorno all’albergo, da dove eravamo partiti e dove avevamo lasciato la parte prevalente del nostro bagaglio.


Un paesaggio mozzafiato nel Grand Canyon

Dopo una brave sosta indispensabile per rifocillarci e recuperare, sia pure in parte le forze, nuovo trasferimento verso il Grand Canyon , nel punto già da noi visitato giorni addietro, dove avremmo pernottato per riprendere, da una località più vicina e quindi con la dovuta calma, il nostro itinerario verso la riserva degli Hopi.
Quella notte caddi quasi immediatamente in un sonno profondo e ristoratore. La mattina mi svegliai perfettamente riposato.
Giungemmo nella Riserva nelle ore tarde della mattinata, incappando in un caldo afoso.
Sostammo quindi in un piccolo villaggio, che ad una prima impressione sembrava abbandonato: il viso allegro e sorridente di una bambina fece capolino da una casetta in legno. Al nostro approssimarsi, un uomo robusto, dai baffi folti e spioventi, si materializzò sul vano d’ingresso: sorridendo ci invitò ad entrare.
L’interno era costituto da un unico vano, ricolmo di una infinità indescrivibile di varia mercanzia. Piatti colorati, variopinta oggettistica, pitture raffiguranti scene domestiche o di caccia facevano bella mostra alle pareti: non sembravano in vendita o per lo meno questa non era l’intenzione del padrone di casa, il quale passò invece a descriverci la vita semplice che si conduceva al villaggio, tra modeste attività agricole ed artigianali.
Ci accomiatammo dopo aver visitato l’unico negozio, dove erano esposti alcuni lavori artigianali: i prezzi non riflettevano la semplicità del villaggio.
Tornati sulla strada principale, percorremmo alcuni chilometri e quindi ci fermammo per il pranzo.
Stavamo entrando in quella che, almeno dal mio punto di vista, era la parte più significativa dell’intero programma: nei prossimi giorni avremmo visitato il Canyon de Chelly, la Monument Valley e Mesa Verde.
Punto di partenza verso i primi due obbiettivi, la città di Cortez, che, abbandonato il territorio degli Hopi, raggiungemmo verso sera.


Il Canyon de Chelly

Il Canyon de Chelly, si parò quasi all’improvviso davanti ai nostri occhi i: ci eravamo alzati di buon mattino proprio per disporre di quanto più tempo fosse possibile.
Questa zona è tristemente passata alla storia per il massacro compiuto dalle truppe Governative, guidate da Kit Carson, le quali annientarono i Navajos, soffocando nel sangue qualsiasi tentativo di reazione ed infliggendo loro una sconfitta che segnò la fine di ogni resistenza.
Contrariamente a quanto era però avvenuto per altre etnie, i Navajos seppero capire il cambiamento dei tempi, adeguandosi alle nuove esigenze e cercando di convivere col potere dominante, in modo accettabile e costruttivo.
Nel volgere di qualche decennio, questa grande riserva si è trasformata in un territorio gradevole e ricco, con un Governo tribale riconosciuto, ed un potere autonomo sempre in grado di far fronte alle molteplici esigenze di una popolazione numerosa, sparsa su un territorio davvero esteso.


Un hogan nel Canyon de Chelly

Dall’alto si potevano vedere sul fondovalle casupole, dal tetto chiaro, ed orti curati con meticolosità e raffinata geometria.
Le rocce di colore bruno-rossastro creavano strapiombi vertiginosi, attraverso crepe frastagliate ed impossibili angolazioni.
All’ingresso un Ranger Navajo ci aveva mostrato la tipica abitazione circolare della sua gente, l’hogan, fatta di argilla e fango pressati, al cui interno si accedeva procedendo da sinistra per poi ruotare a destra., lungo la circonferenza interna, verso l’uscita. Si seguiva, con questo rito, il percorso del sole, punto di riferimento importantissimo per questo popolo, il quale, in molte espressioni, lo definisce Padre, così come, rivolgendosi alla Terra, la chiama, analogamente ad altre popolazioni native, con l’appellativo di Madre.
Mentre ascoltavo queste spiegazioni, non potei fare a meno di rilevare come la cultura di questi popoli, pur con qualche differenza, sia comunque sempre improntata ad una profonda e viva spiritualità: la meraviglia del giorno nascente, la calma oscurità della notte, l’improvvisa violenza degli elementi, i fenomeni atmosferici, tutto viene vissuto con serena accettazione, come se la vita, nel suo continuo perpetuarsi e nelle sua vicende, anche oscure, altro non fosse che la manifestazione perenne di un miracolo, del quale dover essere comunque grati, senza alcuna riserva.
Quando scesi nel Canyon, avvertii l’imponenza, al severa maestosità di queste rocce, incombenti sopra di noi. Osservai le antiche abitazioni degli Anasazi, che in questa zona avevano abitato a lungo, prima della grande siccità, e ai quali queste enormi opere della natura avevano offerto un confortevole riparo: costruzioni di dimensioni modeste, che tuttora si fondono mirabilmente col paesaggio, quasi sparendovi.
Pittografie appena accennate sulle pareti, raffiguranti scene di diverso genere, ma appena impresse nella roccia, come a non volerne scalfire l’integrità.
La Jeep, che ci stava accompagnando nella nostra visita, procedeva lentamente, affondando nel terreno morbido. Non era possibile e neppure necessario affrettarsi: il tempo rispettava le proprie cadenze, l’uomo poteva solo uniformarvisi.
Tornai a Cortez sentendo crescere dentro di me un sempre più pressante coinvolgimento: ero finalmente in perfetta e crescente sintonia con la parte più rappresentativa, almeno per me, del viaggio.
Ho già detto cosa riservava il programma per l’indomani.


La maestosa Monument Valley

Monument Valley.
Il ricordo andava ai tanti film girati in questa zona, ai tanti sogni, che questi paesaggi avevano suscitato un me. Poterli ora vivere direttamente, rappresentava la realizzazione di passate fantasie, che finalmente si trasformavano in realtà.
Superati i primi momenti di emozione, mi affacciai alla balaustra, che delimitava la zona riservata ai tanti turisti appena giunti: l’ingresso nella pianura sottostante era consentito ai veicoli , i quali dovevano però procedere ad andatura moderata e nel pieno rispetto della zona.
Non appena superata quella linea di demarcazione, che per me rappresentava l’ideale divisione tra la fantasia e la realtà, mi trovai immerso in uno scenario dalle tonalità rosso-acceso, che ben presto, in eteree volute di povere, avvolsero la nostra comitiva.
Le vetture procedevano lentamente sul fondo sterrato, rivestendosi di quel nuovo colore, che uniformemente ricopriva la loro carrozzeria.
In certi momenti preferivamo sostare temporaneamente, per godere appieno di quella fantasmagorica alternanza cromatica: alcuni scattavano fotografie, altri si limitavano ad osservare nel più assoluto e rapito silenzio.
Inevitabile chiedere di essere immortalati sotto torrioni, tante volte ricordati nei films di John Ford, come Ombre Rosse o, il più recente, Sentieri Selvaggi: per qualche breve momento ci siamo sentiti improvvisati pionieri, calati in quella dimensione straordinaria, in una immaginaria rappresentazione dove, come tutto il paesaggio circostante, appare esattamente definita la divisione tra l’azzurro del cielo ed il rosso della terra, tra il bene, riferito all’eroe, ed il male rappresentato dal cattivo.
La nostra marcia poi riprendeva, attraversando luoghi di incantevole bellezza, dove spesso si percepiva il ritmico battito di un tamburo, che accompagnava un lontano canto indiano.
Ci fermammo in prossimità di un grande campo: a poca distanza una semplice costruzione, con un recinto attiguo.


John Ford nella Monument Valley

Alle nostre spalle massicci contrafforti rocciosi proiettavano la loro ombra sulla pianura, mentre il ronzio di tante piccole creature volanti si spandeva nell’aria.
Tanto valeva fermarsi e non muoversi mai più. Cosa si poteva chiedere ancora? La calma, il silenzio, l’ordine armonico di questo grande scenario, l’impressione di poter accarezzare quella brezza leggera, che discretamente ci scivolava addosso, avvertire sopra di sé la cupola di quell’incredibile cielo azzurro, con la sensazione di poterla toccare, se solo lo si fosse desiderato: il piacere di far parte di questo “tutto”, senza prevaricarlo, ma solo immedesimandovisi.
Cose semplici, ma emozioni da far sussultare gradevolmente il cuore.
Tra pochi giorni mi sarei nuovamente calato nelle mie consuete attività: non avrei però mai dimenticato queste sensazioni.
Proprio per non negare alcunché alle mie fantasie, decisi di concedermi una cavalcata , a condizione però che mi si consentisse di galoppare.
Nessun problema, erano diversi i punti dove si potevano affittare i cavalli. Alla richiesta mia e di alcuni altri del gruppo, il Navajo, che ci avrebbe condotto nella nostra escursione, non batté ciglio: dovevamo soltanto firmare una dichiarazione con la quale assumevamo a nostro carico ogni rischio.
Dopo aver coperto al passo il percorso d’andata, sulla via del ritorno ottenemmo il sospirato permesso: davanti a noi un giovane indiano, che ci aveva seguito, incitò la propria cavalcatura, invitandoci a seguirlo.
Serrai le gambe , allentai le briglie e… il mondo intero mi sembrò meraviglioso. Dimenticai in quei momenti timori, preoccupazioni, remore di ogni tipo.
Percepivo l’ansimare della mia cavalcatura, gli scatti della sua muscolatura, il soffocato battito degli zoccoli sul terreno morbido, dove le zampe, in alcuni tratti, affondavano.
La testa protesa in avanti, si alzava alcune volte con movimenti laterali, come se volesse suggerirmi di modificare certi mie movimenti, allentando maggiormente le briglie, per consentire la massima apertura delle potenti zampe anteriori.
In cima ad una bassa collina , il cavallo rallentò spontaneamente l’andatura: lo assecondai, lasciando che si calmasse.
Proseguii poi al passo, accarezzandogli il collo e la folta criniera.
Coperto ancora un breve tratto di terreno, giungemmo infine al recinto da dove eravamo partiti.
E a questo punto il mio nobile destriero, avvertendo odore di casa, reagì, come era prevedibile, partendo al galoppo.
La spinta delle zampe posteriori fu tanto forte che , per un attimo, mi aggrappai al pomo della sella: poi recuperato il mio assetto, allentai le briglie, mi sistemai in modo da aderire il più possibile alla groppa del cavallo, assecondandone il movimento e lasciandogli la più assoluta libertà. Lo meritava.
Giunto davanti al recinto, smontai, affidando le redini ad un ragazzo indiano, che mi era venuto incontro.
Guardai la mia cavalcatura , mentre veniva liberata dai finimenti: il mantello lucido di sudore scintillava al sole.
Mi avvicinai e la testa ruotò verso di me: lo sguardo aveva assunto una espressione di vigile attesa. Lo tranquillizzai, non volevo sottoporlo ad una ulteriore fatica.
A poco a poco i suoi muscoli ancora in tensione, si rilassarono, mentre il muso si chinava verso l’abbeveratoio.
Continuavo a guardarlo e alla mente mi tornò il passaggio di un libro “Il dono del potere”, Edizioni Amrita, scritto ad un autore indiano, Lakota, Archie Fire.
A pag.142 si riporta un dialogo tra un sacerdote ed il padre dell’autore: cito testualmente questo passo-” Padre (riferito al sacerdote), secondo la sua religione, gli animali hanno un’anima? ” Risposta “Capo , mi mette con le spalle al muro”, disse il sacerdote. Non poteva ammettere che gli animali avessero un’anima…….si sarebbe trattato di un’eresia, il suo vescovo lo avrebbe redarguito immediatamente-.
Durante questo viaggio mi ero posto anch’io spesse volte questa domanda: la risposta che preferirei, mi sembra ovvia e scontata, ma con questo non voglio assolutamente addentrarmi in indagini di carattere filosofico o teologico.
La mia è solo una speranza, nulla di più.


Un Navajo e la Monument Valley

Ero visibilmente soddisfatto: non avrei potuto pretendere nulla di più di quello che avevo acquisito in questo viaggio.
Il programma prevedeva ora la visita di Mesa Verde, poi successivamente avremmo proseguito per le città di Taos e Santa Fé’, per concludere ad Albuquerque.
La sera tornammo a Cortez, recandoci poi a cena nel ristorante vicino all’albergo.
Come già era avvenuto a Flagstaff, la cena ci venne servita da una inserviente, molto simile alla sua precedente collega, ma con una ulteriore carica di aperta disinvoltura e sicura determinazione, che la rendevano molto simile alle tipiche donne di frontiera del passato.
Non mi sarei stupito se, all’occorrenza, questa rappresentante del gentil sesso avesse alzato le mani contro un qualsiasi eventuale importuno.
Una accattivante simpatia abbinata ad una efficienza di prim’ordine facevano passare in secondo piano certe spigolosità ed una notevole ruvidità dell’atteggiamento.
Come sempre apprezzai i diversi piatti che ci venivano serviti: c’era poi una graditissima sorpresa, il buffet libero. Inutile descrivere quali sviluppi abbia sortito questa piacevole variante.
I boschi di Mesa Verde apparivano in diversi tratti bruciati dagli incendi che, come avevano sottolineato anche i giornali italiani, avevano devastato parte di questa impagabile ricchezza naturale.
Fortunatamente il fuoco era stato circoscritto, per cui i danni si rivelarono inferiori a quanto inizialmente si era ipotizzato.
Una fitta macchia boschiva copriva i fianchi di coline ondulate, dai profili dolci, gradevoli.


La Mesa Verde

Mentre ci stavamo accingendo a scendere nel Canyon, dove avremmo visitato, anche in questa occasione, le antiche costruzioni degli Anasazi, mi guardai intorno: lo scenario era molto simile ad altri visti in precedenza, ma con un qualcosa di più raffinato.
La discesa nel canalone ci riservò anche attimi di brivido, quando ci trovammo ad affrontare la verticale di scale a pioli, infisse nella roccia, a perpendicolo sullo strapiombo sottostante o anche nel momento in cui ci trovammo a strisciare in un cunicolo basso e stretto, che, amala pena, consentiva il, passaggio di una persona di taglia media.
Affrontammo e superammo questi imprevisti con lo stesso spirito dimostrato in altre precedenti, anche se più facili, situazioni, senza timori, ma anzi pregustando il sapore di certe esperienze.
Continuavo a chiedermi a quale tipo di etnia avessero appartenuto gli Anasazi, visto che le loro costruzioni, ricavate nella roccia, apparivano completamente diverse da quelle di altre popolazioni vicine. Mi ripromisi di consultare, appena possibile, qualche attendibile documentazione, anche se sapevo che l’impresa non sarebbe stata delle più semplici.
Un fresco bagno ristoratore nella piscina dell’albergo eliminò le scorie della nostra ultima fatica Quella sera non tardai ad addormentarmi.
Diretti verso Taos, attraversammo prima Durango, piacevole e caratteristica città, ricordata in tanti films e resoconti sulla frontiera, per poi proseguire verso Pagosa, circondata da boschi e colline di incontaminata bellezza, ed infine giungere nella Riserva degli Apache Jicarilla, popolazione questa, che, anche nel secolo scorso, si era distinta per una certa mitezza del carattere: caratteristica davvero inconsueta in una etnia, il cui più conosciuto esponente Geronimo, degli Apache Chiricahua, aveva dato notevole filo da torcere alle truppe governative.
Poche persone nel villaggio principale dove ci eravamo fermati per il pranzo ed una certa riservatezza nei rapporti col turista: questo almeno avvertii, mentre sedevo nella sala-ristorante. Le portate si rivelarono piuttosto scarse come quantità : nulla da eccepire invece sulla qualità.
Ripreso il cammino raggiungemmo Taos: l’intenzione era quella di visitare Taos Pueblo, ma questo non ci fu consentito per la concomitanza di una cerimonia sacra, preclusa ai turisti e, penso, alla stessa comunità bianca.
Questo contrattempo probabilmente rovinò il nostro impatto con questa cittadina, pulita, gradevole ed elegante: non a caso molti artisti, pittori e letterati, vi soggiornano quando addirittura non vi risiedono stabilmente.
L’atmosfera si era però guastata, per cui decidemmo di proseguire per Santa Fe’, descritta come la vera perla del New Mexico: anche in questo caso, le nostre aspettative vennero, se non disattese, almeno in parte ridimensionate.
Per obiettività, mi sembra però doverosa una precisazione.
Finora avevamo visitato posti e località, dove la natura si era presentata in tutta la sua magnificenza.


Il pueblo di Taos

Le popolazioni, anche quelle maggiormente integrate, denotavano ancora una certa appartenenza alla cultura tradizionale, pur mitigata da influssi esterni: nessun dubbio infatti che l’anima del nativo americano non si trovi in queste zone, anche se comunque ne è facilmente individuabile il retaggio ed un indiscusso sostrato di base.
Niente di tutto questo si avvertiva a Santa Fé, città, come Taos, raffinata, con, in aggiunta, un qualcosa di sofisticato. Adagiata su una superficie molto ampia, aveva mantenuta immutata la antica struttura architettonica, sulla quale erano stati apportati semplici interventi di solo ammodernamento.
Indubbiamente la città merita di essere visitata e, non è escluso che, con un altro stato d’animo, io stesso l’avrei maggiormente apprezzata: ora però vedevo soltanto un elegante centro cittadino, magari adatto per un lungo soggiorno, ma privo di quelle atmosfere, che avevo respirato in altre passate occasioni.
Il ritorno ad Albuquerque pose fino al nostro viaggio.
La sera antecedente la partenza, alcuni giovani del nostro gruppo stavano indugiando sul piazzale antistante l’albergo, giocando con un pallone, trovato qualche giorno prima.
Un tiro più violento dei precedenti lo fece finire in un punto dove era impossibile recuperarlo.
Anche il mio sogno stava ormai volgendo al termine.
Ci ritirammo nelle nostre stanze, in silenzio,
Spenta la luce , guardai il soffitto: attraverso il cono di luce di un invisibile proiettore, tanti piccoli fotogrammi stavano riproducendo, in un fantastica carrellata, tutte le fasi ed i momenti della nostra avventura.

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