Le ultime ore del Generale Custer
A cura di Gian Mario Mollar
Ultimi istanti di battaglia al Little Big Horn
Potrà starvi simpatico o meno, potrà apparirvi arrogante e smargiasso, ma George Armstrong Custer non era uno sprovveduto. Il giorno della fatidica battaglia lungo il fiume Little Bighorn, il 25 giugno del 1876, Pahuska, Lunghi Capelli – così lo chiamavano usualmente i nativi – aveva 36 anni e un considerevole numero di battaglie alle spalle, che gli avevano conferito una certa notorietà. Sebbene tutti lo chiamassero Generale, Custer era in realtà soltanto un tenente colonnello, cui venne dato un brevet, una disposizione temporanea che lo elevava a tale grado.
Ai tempi della Guerra di Secessione Americana, si distinse per una sua innegabile propensione agli attacchi frontali e per una certa spregiudicatezza nell’affrontare il pericolo, anche a costo di ingenti perdite umane. Nel corso di una successiva spedizione militare contro i Cheyenne, poi, venne addirittura sottoposto a corte marziale per l’eccessivo rigore con cui trattava i suoi uomini: la disciplina cui li sottoponeva era talmente rigorosa e spietata da sconfinare nella crudeltà.
Alcuni soldati del 7° Cavalleria comandato da Custer
Insomma, Custer non era certo un fine stratega né un genio militare, ma, pur essendo ancora giovane, si era costruito una fama di ardito e sprezzante del pericolo, e fu proprio per questo che nel 1875 gli venne affidata una spedizione per accertare la presenza dell’oro sulle Black Hills.
Le Colline Nere, o Paha Sapa, in lingua Lakota, sono un territorio ritenuto sacro dai nativi, che si estende tra il Sud Dakota e il Wyoming. In un primo momento, avendolo giudicato privo di valore, il Governo degli Stati Uniti lo cedette per sempre ai nativi con il Trattato di Fort Laramie del 1868.
Quattro anni dopo, tuttavia, alcuni minatori violarono il trattato e trovarono l’oro su quelle colline, determinando così un insediamento sempre più consistente nel territorio indiano, in piena violazione del trattato stipulato.
La spedizione di Custer confermò la presenza dell’oro e tracciò la strada per un’ulteriore ondata di cercatori, quella che i nativi definirono “la pista dei ladri”. Sebbene il “Grande Padre” Ulysses Grant vietasse formalmente ai coloni di insediarsi sulle Black Hills, di fatto il Governo non attuò contromisure di alcun tipo per arrestare questo esodo, e la situazione non tardò a degenerare. Falliti i primi tentativi di “ricomprare” le Black Hills, fu la guerra.
Il 7° Cavalleria nella spedizione nelle Black Hills
Contro le Giacche Blu, per difendere il suolo sacro, si schierò una coalizione di varie tribù di Nativi delle Grandi Pianure: gli Hunkpapa di Toro Seduto, gli Oglala Lakota di Cavallo Pazzo e Nuvola Rossa, i Cheyenne del Capo Due Lune, i Brulé di Coda Chiazzata, e poi ancora i Sans Arcs, gli Assiniboin, gli Yankton e i Piedi neri, per un totale stimato di circa 2000 guerrieri.
Il giorno della battaglia di Little Bighorn, Lunghi Capelli ha avvistato il grande accampamento in cui si trovano gli indiani e, com’è nel suo stile, conta di conquistarlo con un colpo di mano, spezzando così la resistenza dei nativi e conquistando le Black Hills in un colpo solo.
Dopo aver ordinato al Maggiore Marcus Reno di attaccare un grosso villaggio indiano annidato nella valle del Little Big Horn, Custer nota 50 “ostili” sul suo fianco destro e decide di inseguirli. Quando questi si disperdono, Custer continua ad avanzare, puntando verso nord. A questo punto, mentre sta cavalcando, formula tra sé e sé un nuovo piano di battaglia, senza dire niente agli altri ufficiali. Un errore che gli costerà caro.
Si mette così alla ricerca di un guado per attraversare il fiume, mentre il suo battaglione continua a galoppare verso nord, lungo le aride sponde del fiume Little Bighorn.
Il reggimento si infila in una larga gola ma, subito dopo l’ingresso nella strettoia, alle spalle della truppa di Custer si sentono i primi spari. È Dente di Lupo, un Cheyenne che si trovava in esplorazione con un gruppo di una cinquantina di guerrieri: ha visto che le giacche blu puntano verso il villaggio e ha deciso di aprire il fuoco.
Con gli indiani alle spalle, Custer non può impegnare l’intero comando nell’esplorazione: manda il Tenente Algernon Smith e la Compagnia E a provare il guado. Nel frattempo, Custer e le altre quattro compagnie rimangono indietro, si attestano come retroguardia sul crinale che sovrasta il fiume.
Al ritorno di Smith, Custer riceve una brutta notizia: il guado del Dry Creek (anche noto come Muskrat Creek) è troppo fangoso e pieno di pantani. C’è un pugno di guerrieri, forse soltanto quattro, che difendono questo passaggio dalla parte del villaggio e Smith ha anche notato che gli indiani, in gran parte non combattenti, si stanno disperdendo verso ovest e nordovest. La più grande preoccupazione di Custer è proprio questa, che gli abitanti del campo possano sfuggire. Ciò rende lo rende ancora più determinato a trovare un guado che lo porti dagli indiani, prima che questi riescano a disperdersi.
Dente di Lupo e i suoi guerrieri continuano a bersagliare da lontano le truppe, creando scompiglio, ma Custer non è ancora veramente preoccupato. Ha preso parte a centinaia di scontri nel corso della sua movimentata carriera ai tempi della Guerra Civile, e qualcuno lo considera addirittura il miglior combattente di indiani dell’intero esercito degli Stati Uniti. Decide di lasciare tre delle sue cinque compagnie, la I, la C e la L, a contrastare gli uomini di Dente di Lupo. Nel suo piano, esse serviranno da collegamento per quando arriverà la retroguardia del Capitano Frederick Benteen.
Con le altre due compagnie, la E e la F, Custer punta a nordovest, discendendo il crinale ed entrando in una larga spianata che digrada verso il fiume. Ma, nel momento in cui si avvicinano alla riva del fiume, Custer e i suoi ricevono una grandinata di piombo da un gruppo di guerrieri sull’altra sponda, che protegge la ritirata delle donne e dei bambini.
Rispondere al fuoco da cavallo non è un’impresa semplice: i soldati della Compagnia F scendono di sella e formano una linea difensiva. Anziché seguire le regole classiche della cavalleria, che prescrivevano tre cavalli per ciascun soldato, Custer ordina più potenza di fuoco a terra e assegna a ciascun soldato otto cavalli. Si tratta di una tattica coraggiosa ma piuttosto rischiosa, che il Generale ha già sperimentato in altre occasioni. Gli indiani notano l’assembramento di cavalli senza cavaliere e, sparando e agitando delle coperte, li fanno imbizzarrire e sparpagliare. I guerrieri li catturano velocemente, lasciando così a piedi gran parte della Truppa F. A questo punto, Custer si rende conto che l’intera operazione e il suo stesso comando sono in grave pericolo.
Reno attraversa il fiume
Mentre Custer sta tentando questo secondo attraversamento, ai guerrieri impegnati contro le truppe del Maggiore Reno giunge voce che i soldati stanno cercando di catturare le donne e i bambini. Praticamente tutti i guerrieri impegnati nel settore di Reno abbandonano lo scontro all’improvviso e si lanciano alla rinfusa verso i pendii situati all’estremità settentrionale del villaggio.
Nel frattempo, la Compagnia F si sta ritirando, ritorna indietro verso il crinale che sovrasta il fiume, dove si è riunito il resto del comando, mentre la compagnia E, che ha ancora i cavalli, la protegge con un fuoco di copertura. Con una corsa di un chilometro e mezzo, la compagnia F finalmente riguadagna la cresta. La Compagnia E smonta da cavallo a sua volta e crea una linea difensiva per coprire i compagni appiedati. Sono quasi le cinque del pomeriggio. Seguono venti minuti di sparatoria, con i quali Custer cerca disperatamente di temporeggiare fino all’arrivo della retroguardia e dei rinforzi. Suo fratello Boston gli ha detto che entrambi distano soltanto una decina di chilometri.
Gli indiani, però, si fanno sempre più audaci. A mano a mano che si avvicinano, sempre più cavalli si imbizzarriscono e vengono catturati. La compagnia C tenta una carica, per respingere una parte degli indiani sopraggiunti, ma la scaramuccia ha un esito tragico: i soldati vengono tagliati fuori e circondati. Ne muoiono soltanto tre, ma tra le Giacche Blu si scatena il panico. I soldati si raggruppano e cominciano a correre, rompendo così la linea difensiva.
La fuga verso il “last stand”
Con metà dei suoi uomini senza cavalcatura, Custer si rende conto che la sua unica speranza è che il Capitano Benteen e il Maggiore Reno vengano a salvarlo. Assistendo impotente al collasso della propria guarnigione, Custer e i suoi assistenti uccidono dei cavalli, usando le carcasse per creare dei ripari sulla sommità di una collinetta. I soldati terrorizzati si mettono a correre nella sua direzione, mentre gli attacchi suicidi degli indiani si fanno sempre più frequenti ed efficaci.
La situazione, già critica, peggiora ulteriormente quando gran parte dei guerrieri impegnati contro il maggiore Reno, circa 1.500 uomini, si riversa sul campo di battaglia, arrivando da sud. Hanno disceso la scarpata, attraversato il fiume e risalito l’altra riva lungo i rigagnoli per difendere le loro famiglie.
La Compagnia E mantiene la posizione a ovest, al di sotto del poggio dove si è attestato Custer, per proteggere il fianco della truppa dai guerrieri che sopraggiungono da nordovest. Malgrado questa difesa, un gruppo di intrepidi guerrieri riesce a scavalcare la Compagnia E e a far scappare gli ultimi cavalli rimasti ai soldati.
Lo scontro a fuoco si protrae da due ore, ma raggiunge un’intensità spaventosa nel momento in cui ondate di guerrieri, a cavallo e a piedi, riescono a sopraffare i pochi soldati rimasti sulla collina con Custer e a sterminarli tutti.
Sul terreno di battaglia, nel raggio di centinaia di metri, giacciono circa 190 soldati morti e feriti. I guerrieri possono ora concentrarsi su quello che rimane della Compagnia E, una ventina di soldati circondati, appiedati e a corto di munizioni. Coraggiosamente, questi superstiti corrono verso lo scontro finale: molti di loro stringono in mano i fucili scarichi per usarli come mazze. Vengono spinti verso una gola profonda, dove vengono massacrati.
L’annientamento degli uomini di George Armstrong Custer non pose fine al combattimento. I guerrieri sioux e cheyenne che si trovavano su quella che sarebbe poi diventata Custer Hill, si rivolsero immediatamente contro le posizioni del Maggiore Marcus Reno e del Capitano Frederick Benteen, attaccandoli con tutto quello che avevano a disposizione. “Le pallottole cadevano proprio come in una grandinata”, ricordava il Tenente Francis Gibson. Benteen prese il controllo e intimò ai soldati di formare una linea difensiva improvvisata a ferro di cavallo. Malgrado le severe perdite subite da Reno – 13 morti e 60 feriti – quello che rimaneva del Settimo Cavalleria riuscì a resistere agli indiani per quasi due giorni. Il 26 giugno gli Sioux e i Cheyenne si dileguarono e uno strano silenzio scese sulla Little Bighorn Valley.
Gli indiani si separarono: Toro Seduto e la sua banda si rifugiarono in Canada, mentre Cavallo Pazzo e gli altri si diressero verso la vicina contea di Rosebud, o dovunque riuscissero a trovare dei bisonti.
L’esercito degli Stati Uniti, sotto il comando del Generale Philip Sheridan, cercò di lavare l’onta raddoppiando gli sforzi per trovare e catturare gli indiani, ma, in genere, i soldati non ebbero successo, a parte una vittoria del Generale George Crook a Slim Buttes, su Capo Cavallo Americano e i Brule Sioux.
“Devil’s in details”, sostiene un vecchio proverbio, intendendo che, grazie all’analisi di particolari apparentemente senza importanza, si possono fare scoperte interessanti. Ecco, dunque, alcune curiosità sulla Battaglia di Little Bighorn.
Prima della battaglia, Custer e i suoi ufficiali riuscirono ad avere una buona visuale sull’accampamento, da un punto sopraelevato, su una cresta lontana. L’accampamento è grande, ma non così vasto come molti riferiranno in seguito. Sebbene Alce Nero dirà che fosse il più grande villaggio indiano che abbia mai visto, la stima del Capitano Benteen di 10.000 indiani nell’accampamento appare come un’esagerazione piuttosto grossolana, volta a giustificare la disfatta subita. In effetti, Benteen aveva le sue buone ragioni per indorare la pillola: un enorme assembramento di nativi contribuiva a giustificare la sua mancanza di azione, e i numeri “gonfiati” avrebbero convinto il Congresso a non tagliare i fondi per finanziare l’esercito.
Una vista parziale sul grande campo indiano del Little Big Horn
La difficoltà nel determinare le dimensioni dell’accampamento risiede nel fatto che, al momento dello scontro, molti nativi iniziarono a fuggire con i loro tepee. Dopo la battaglia, i guerrieri spostarono il campo a due chilometri e mezzo dal luogo in cui si trovava prima. Le truppe che arrivarono in seguito alla disfatta e cercarono di capire cos’era successo analizzando il campo di battaglia, pensarono che il villaggio si estendesse per tre miglia, mentre, in realtà, vedevano i resti di due diversi accampamenti.
La maggior parte degli storici, oggi, ritiene che i guerrieri nativi impegnati nella battaglia fossero 2.000, il che significa comunque una proporzione di dieci a uno rispetto ai 210 soldati di Custer.
Perché Custer pensava che nell’accampamento non ci fossero guerrieri?
John Martin, Alias Giovanni Martini, il trombettiere italiano che fu l’ultimo soldato a vedere Custer vivo, dichiarò: “ Poi Custer fermò i suoi uomini sulla cresta per una decina di minuti, e gli ufficiali guardarono l’accampamento con i cannocchiali. Videro dei bambini che giocavano con i cani tra i tepee, ma nessun guerriero o cavallo, a parte qualche pony che pascolava nei dintorni. Ci fu una discussione tra gli ufficiali per stabilire dove potessero essere i guerrieri, e qualcuno ipotizzò che fossero andati a caccia di bisonti, ricordando che erano stati visti intenti a scuoiare un bisonte lungo la pista, il 24 giugno. Custer fece un discorso ai suoi uomini e disse: “Scenderemo, guaderemo il fiume e prenderemo il villaggio”. A quelle parole, tutti i soldati si tolsero il cappello ed esultarono. Anche tra gli ufficiali sembrava ci fosse la convinzione che, se si fosse riusciti a compiere quella cattura, gli indiani si sarebbero dovuti arrendere al loro ritorno, per non sparare sulle loro donne e bambini”.
Mary Crawler, una dei testimoni nativi, raccontò: “Gli uomini di Custer arrivarono al fiume a monte della diga dei castori, dove l’acqua era profonda”. Spiegò che il guado di Dry Creek si era allagato a causa di una diga di castori, e che gli Indiani sapevano come attraversare il fiume, passando più a valle della diga.
Se non ci fossero stati i castori, dunque, Custer e le sue truppe avrebbero potuto guadare il fiume prima e la battaglia avrebbe potuto, forse, avere un esito diverso.
Le tattiche e strategie di Cavalleria del 1876.
Nel 1874, Emory Upton codificò le nuove tattiche di cavalleria in un manuale che descriveva l’unità base di cavalleria, o squadra, come un “insieme di quattro”.
A differenza di quello che si vede nei film, i cavalleggeri del 1870 raramente sparavano da cavallo. Al contrario, le compagnie di cavalleria (da 38 a 44 uomini nel caso di Custer), smontavano da cavallo e si allargavano per formare una linea di difesa. Un uomo per ogni squadriglia radunava i cavalli abbandonati dai soldati e li teneva indietro. Quelli che erano scesi da cavallo, invece, si inginocchiavano a terra per avere una posizione di tiro più stabile.
Nel caso della battaglia di Little Bighorn, solo una compagnia alla volta si era disposta a formare una linea difensiva, mentre gli altri rimanevano di riserva. Per la prima ora di combattimento, una sola compagnia schierata, la I, riuscì a tenere sotto scacco gli indiani. Fu solo quando i guerrieri reduci dallo scontro con il Maggiore Reno sopraggiunsero sul campo di battaglia di Custer, nascosti dall’erba alta, che la compagine nativa riuscì a isolare i soldati della compagnia I e a sopraffarli.
Due giorni dopo lo scontro, il 27 giugno, le truppe di rinforzo riuscirono finalmente a scorgere il campo dell’ultima battaglia di Custer. Guardando con il binocolo dal fondo della valle del Little Bighorn, il Tenente James Bradley pensò di aver visto un bufalo scuoiato. Più tardi, il Capitano Thomas Weir commentò: “Mio Dio, quanto sono bianchi!”. Ovviamente, le macchie bianche che tutti intravedevano in lontananza erano i corpi spogliati e mutilati di Custer e di tutto il suo battaglione.
Il corpo del Generale Custer venne ritrovato in un groviglio di cavalli e di soldati caduti, appena al di sotto della sommità di una piccola collina. Il Tenente Edward Godfrey e un altro soldato contarono 42 corpi sparsi sulla china.
A proposito del cadavere di Custer, Godfrey dichiarò: “Non abbiamo trovato bruciature di polvere da sparo”, intendendo che il Generale non si era suicidato, perché, quando un’arma da fuoco viene azionata vicino al corpo, lascia delle bruciature sulla pelle. Godfrey e gli altri dichiararono che, a parte due pallottole, il corpo di Custer “non era stato toccato”. Si trattava di una spudorata menzogna, come in seguito confessò Godfrey in una lettera indirizzata a un amico. Il motivo per cui mentì, disse, era quello di risparmiare un ulteriore dolore alla moglie di Custer, Elizabeth.
Custer venne ritrovato anche con una ferita alla tempia sinistra
Nella sua lettera, Godfrey raccontò che la coscia sinistra di Custer era stata tagliata fino all’osso, perché gli Indiani credevano che ciò gli avrebbe impedito montare a cavallo nella vita ultraterrena. Non solo: gli era stato amputato un dito e gli avevano infilato l’asta di una freccia nel pene.
Se Godfrey ha mentito a proposito delle mutilazioni sul corpo di Custer, è possibile fare affidamento sulla sua dichiarazione a proposito delle bruciature di polvere da sparo? O si può pensare che stesse, anche in questo caso, cercando di risparmiare alla moglie e alla nazione il trauma di un avvenuto suicidio?
Il corpo di Custer riportava due ferite da pallottola. Una di queste era in prossimità della tempia sinistra, mentre l’altra era nelle costole, vicino al cuore. Le ferite al costato e alla coscia non avevano traccia di sangue, mentre quella alla tempia era insanguinata. Ciò indica che lo sparo in testa precedette le altre due ferite, perché in quel momento il cuore stava ancora pompando sangue. Quando qualcuno gli sparò al costato e gli tagliò la coscia, il Generale era già morto.
Le immagini eroiche di un Custer che si tiene il fianco nello strenuo sforzo di combattere i suoi nemici rossi, quindi, possono tranquillamente venire archiviate come falsi storici.
Chiunque abbia avuto qualche esperienza di guerra può tranquillamente testimoniare che le probabilità di venire colpiti esattamente alla tempia nel corso di una battaglia sono davvero minime.
Le fasi finali della battaglia
Ciononostante, molti degli storici di Custer non ammettono l’ipotesi del suicidio, perché sarebbe troppo incompatibile con il suo temperamento. Come spiega Michael Donahue, Custer “era un soldato che aveva visto la morte in faccia in varie occasioni e il suicidio gli sarebbe parso un atto di codardia. Inoltre, la pallottola era penetrata nella sua tempia sinistra e lui era destrorso. Godfrey cercò delle tracce del suicidio, ma non ne trovò alcuna. Inoltre, il fratello minore di Custer, Boston, e suo nipote Harry erano sotto la sua responsabilità. Vennero trovati 100 iarde al di sotto della collina, morti e mutilati. Se Custer fosse stato vivo, non lo avrebbe mai permesso, e non avrebbe mai potuto uccidersi di fronte a loro.”
Sul fronte avversario furono molti i guerrieri a vantarsi di aver ucciso Lunghi Capelli: Toro Bianco, Pioggia- in-Faccia, Fianchi Bassi e Orso Coraggiosa. C’è chi dice che a ucciderlo sia stato un guerriero santee non identificato. Del resto, è difficile avere testimonianze native attendibili a tal proposito, perché fino alla fine della battaglia i guerrieri non sapevano di stare affrontando Custer in persona.
Una cosa è certa: ai tempi della frontiera, praticamente tutti i soldati – compreso Custer – avevano un profondo terrore di venire catturati vivi dai nativi, che erano considerati maestri della tortura.
Prima della sua morte, Custer aveva parlato di torture indiane nella sua autobiografia, in cui ripeteva la formula ricorrente per cui gli ufficiali “giuravano di non farsi mai prendere vivi dagli indiani”.
Questa paura della cattura, ritenuta peggiore della stessa morte, ebbe senz’altro un’influenza sul collasso e la disfatta degli uomini di Custer: se la si somma alle condizioni estreme in cui si trovavano in quel caldo giorno d’estate, non è difficile immaginare che i soldati caddero in preda a un vero e proprio panico.
Da questa prospettiva, non sembra così difficile pensare che Custer si sparò in testa, o che avesse chiesto a qualcuno a lui vicino, magari al fratello Tom, di tirare il grilletto.
In ogni caso, a ben vedere, non è certo il suicidio, una decisione estrema presa in un momento disperato, a determinare un criterio fondamentale per giudicare l’”uomo” Custer, quanto, piuttosto, i feroci massacri di cui si macchiò in precedenza. Custer fu uno degli esecutori di un genocidio e nell’attuarlo fu spietato tanto verso i nativi quanto verso i suoi stessi uomini, che, in questa e in altre occasioni, aveva guidato al massacro senza la minima esitazione. Certo, non fu il primo e neanche l’ultimo, senz’altro era un soldato che stava obbedendo a ordini superiori, ma tutte queste attenuanti non bastano, agli occhi di chi scrive, a fare di lui un eroe.
Nel 1879, il Capitano George Sanderson venne inviato con il suo 11° di fanteria sul campo di battaglia per ripulirlo. Erano accompagnati dal fotografo Stanley Monroe, che immortalò la macabra scena di ossa ed equipaggiamenti ancora sparsi sulle colline e nei burroni.
I poveri resti
In primo piano ci sono le suole degli stivali di un soldato. Gli indiani non sapevano cosa farsene delle suole, e avevano recuperato la parte superiore degli stivali per ricavarci delle sacche o per altri usi. A quanto si sa, esiste solo un’altra foto anteriore a questa, scattata a Last Stand Hill nel 1877 da Fouch. In questa foto, i teschi dei cavalli hanno ancora il pelame. La foto fa parte di una collezione privata.
Durante la campagna, Custer aveva due cavalli: Vic (Victory) e Dandy. In battaglia cavalcava Vic, che aveva una stella bianca sul muso e tre garretti bianchi. Secondo lo storico Michael Donahue, gli indiani portarono Vic con loro in Canada.
Al contrario, una relazione sul campo riferisce che Vic venne ritrovato morto, a circa 30 metri da Custer, mentre un’altra testimonianza dice che Vic era uno dei cavalli morti che costituivano il riparo, vicino al luogo in cui morì Custer.
Dandy, invece, era più indietro e non solo sopravvisse allo scontro, ma fu anche restituito alla famiglia di Custer.