Esploratori, viaggiatori e mountain-men
A cura di Domenico Rizzi
Mentre erano impegnati a debellare le sacche di resistenza indiana ancora attive negli Stati dell’Est, gli Americani stavano già creando le basi del loro futuro, spingendosi oltre il Mississippi.
Nel 1803 riuscirono ad acquistare la Louisiana – molto più estesa dell’omonimo Stato attuale – che dal delta del grande fiume si estendeva fino ai confini dell’Oregon britannico, delimitata a sud e ad ovest dai possedimenti spagnoli (Texas, Nuovo Messico, Arizona, Colorado meridionale, Utah, Nevada e California). I suoi abitanti erano 400.000 Indiani, in buona parte nomadi che cacciavano il bisonte, e circa 40.000 Bianchi per lo più di origine francese o spagnola, concentrati per l’ottanta per cento nell’area sud-orientale del territorio.
L’affare venne concluso dietro pagamento di 68 milioni di franchi e assicurò agli Stati Uniti un’area di 828.000 miglia quadrate (2.140.000 Kmq., pari a 7 volte la superficie dell’Italia) che dalla Louisiana propriamente detta si estendeva fino al Montana.
Il presidente Thomas Jefferson incaricò il proprio segretario, capitano Meriwether Lewis (1774-1809) e il tenente William Clark (1770-1838) di condurvi un’ampia ricognizione, che li avrebbe portati sulle coste dell’Oceano Pacifico.
I due esploratori partirono con i loro 31 uomini da Saint Louis (Missouri) il 14 maggio 1804, risalendo il fiume Missouri con un barcone di 16 metri e due piroghe a vela e a remi. Attraversando le contrade pressochè disabitate del Nebraska, Dakota e Montana, incontrarono diverse tribù indiane, per la maggior parte di lingua sioux, come gli Yankton, i Mandan, i Minetaree e gli Hidatsa.
In ottobre si fermarono nei pressi dell’odierna città di Bismarck (North Dakota) per svernare. Qui conobbero il cacciatore franco-canadese 37 enne di nome Toussaint Charbonneau, che aveva con sé una giovanissima moglie appartenente alla tribù degli Shoshone. L’aveva riscattata dai Minetaree, una suddivisione degli Hidatsa, dai quali era stata presa prigioniera alcuni anni prima e si chiamava Sacajawea o Sacagawea. Aveva 16 anni, era incinta e seguiva il marito diretto ad occidente in cerca di pellicce.
La ragazza entrò subito nelle grazie del tenente Clark, del quale si sarebbe scritto che ne diventò amante, occupandosi in seguito anche del figlio Jean Baptiste, soprannominato Pomp, avuto da Charbonneau e partorito l’11 febbraio 1805 durante il viaggio. Comunque, Sacajawea diede un contributo inestimabile alla spedizione, perché era sorella di Cameahwait, un capo-guerriero degli Shoshone. Oltre a guidare la spedizione con le sue preziose indicazioni, avrebbe ottenuto consistenti aiuti in provviste e cavalli dalla sua tribù una volta raggiunta la propria terra d’origine. Per contro, Lewis – che Clark definì “un ottimo collega, ma un po’ noioso e assolutamente privo di fantasia” – nonostante nei propri diari riconosca la collaborazione da lei fornita, si mostrò sempre abbastanza freddo nei suoi confronti, ma ciò potrebbe essere dovuto al carattere introverso e tormentato dell’ufficiale, che sarebbe morto nel 1809, all’età di 35 anni, in circostanze misteriose – si parlò di omicidio, ma anche di possibile suicidio – in una remota contrada del Tennessee. Sempre secondo Clark, “Lewis non dimostra mai un grande affetto per Sacajawea. Credo che gli Indiani non gli piacciano.”
La spedizione, costata 2.500 dollari, raggiunse le rive del Pacifico, in territorio britannico, l’8 novembre 1805 e ripartì, dopo avere svernato, per il Missouri, dove fece ritorno il 23 settembre 1806. Come si è detto, Lewis non ebbe molta fortuna in seguito: nominato da Jefferson governatore della Louisiana, dopo aver ricevuto una concessione di 6 chilometri quadrati di terreno coltivabile, si dimostrò un amministratore impreciso e incapace, sperperando del denaro pubblico. Fu inoltre sospettato di un complotto contro l’integrità degli Stati Uniti, architettato dal generale James Wilkinson con la Spagna per creare uno Stato indipendente nell’area sud-orientale. La morte di Lewis avvenne mentre era in viaggio alla volta della capitale per difendersi dalle insinuazioni avanzate sulla sua condotta.
William Clark fece invece una brillante carriera, che lo innalzò fino al grado di brigadier generale e gli fece ottenere la nomina a governatore del Territorio del Missouri. Partecipò anche alla Guerra Anglo-Americana, distinguendosi in numerose operazioni militari. Clark si sposò due volte ed ebbe 8 figli, l’ultimo dei quali, chiamato Jefferson Kearny, si spense nel 1900. L’antico compagno di Lewis morì nel 1838, all’età di 68 anni. Quanto a Sacajawea, la data ufficiale della sua scomparsa è il 20 dicembre 1812, quando aveva soltanto 24 anni. Altre notizie un po’ meno probabili sostengono invece che l’Indiana sia vissuta fino al 1884.
Dopo la missione di Lewis e Clark, la grande via del West era stata aperta e nonostante le deludenti conclusioni di alcune esplorazioni successive – fra le quali quella del tenente Zebulon Montgomery Pike (1779-1813) per il quale le praterie non avrebbero offerto alcun vantaggio all’America: “Queste vaste pianure dell’emisfero occidentale diventeranno come i sabbiosi deserti dell’Africa” – e del maggiore Stephen Harriman Long (1784-1864) che definì l’area della pianure “Gran Deserto Americano” – centinaia di cacciatori di pellicce vi si riversarono per dare la caccia ai castori, alle lontre e agli altri animali dalla pelliccia pregiata, impoverendo in pochi anni l’immenso patrimonio faunistico delle Montagne Rocciose. La gente li chiamò mountain men, uomini delle montagne e alcuni di essi si fecero un nome per le stranezze che raccontarono al ritorno dalle loro ricognizioni.
John Colter (1774-1812) un virginiano membro della spedizione di Lewis e Clark che nel 1808 era sfuggito miracolosamente ai Piedi Neri, narrò di avere visto, nella zona che oggi appartiene al Parco Nazionale dello Yellowstone, delle autentiche diavolerie: si trattava dei geyser in eruzione, che eruttavano colonne d’acqua calda alte fino a 50 piedi, ma la stampa le ribattezzò come “Inferno di Colter”, dando del bugiardo all’avventuroso trappolatore.
La vita del trapper sulle montagne nel primo Ottocento era quanto di più difficile e pericoloso si potesse supporre. Colter sfuggì per due volte agli agguati dei feroci Piedi Neri e alla fine decise di abbandonare le sue rischiose imprese, tornandosene nel Midwest, ma altri percorsero le sue tracce.
Hugh Glass (1780-1833) fu abbandonato moribondo dai suoi compagni dopo essere stato ridotto a mal partito da un feroce orso grizzly nell’agosto 1823, ma con un’incredibile forza di volontà riuscì a cavarsela, trascinandosi per centinaia di miglia attraverso le selvagge regioni del Dakota. La sua sorte venne però decisa anni più tardi da una banda di Arikara che lo sorprese lungo il fiume Yellowstone, uccidendolo.
Jim Bridger – vissuto fra il 1804 e il 1881 – beneficiò di un’esistenza molto più lunga, sebbene costantemente minacciata dagli Indiani. Spirito indomito e fortemente attratto dalle prospettive offerte dalle nuove terre occidentali, fu per molti anni esploratore – scoprì il Gran Lago Salato nell’Utah e capitò di nuovo fra i geyser del Wyoming dov’era stato Colter – guida, commerciante e protagonista di combattimenti contro gli Indiani delle Pianure. Nel 1847, quando incontrò i Mormoni diretti verso il Gran Lago Salato, li consigliò di abbandonare il loro progetto, considerando assurda la prospettiva di fondare una colonia nel deserto. Questa volta ebbe torto, perché i coraggiosi emigranti fondarono nell’Utah e nelle regioni confinanti a sud e ad ovest il prospero territorio di Deseret, il cui significato biblico era quello di “ape operaia”. Dalle prime baracche erette vicino al lago, sarebbe sorto il grande centro urbano di Salt Lake City.
Negli anni fra il 1810 e il 1835 le spedizioni esplorative verso il West e il Sud-Ovest si susseguirono.
Nel 1823 fu l’Italiano Giacomo Costantino Beltrami (1779-1855) ex magistrato sotto la dominazione napoleonica, a compiere una lunga missione navigando a ritroso il fiume Mississippi fino alla confluenza del fiume Minnesota, nell’odierno Stato omonimo. Il viaggiatore avrebbe lasciato un prezioso volume di testimonianze (“La decouverte des sources du Misssissippi et de la Rivière Sanglante”, New Orlèans, 1824) con diversi approfondimenti sulla consistenza demografica, gli usi e i costumi di alcune tribù indiane, quali i Sioux e i Chippewa. Qualche anno dopo lo scrittore americano Washington Irving (1783-1859) celebre autore de “La leggenda di Sleepy Hollow”, si unì ad un’altra spedizione che dall’Arkansas lo portò fino alle propaggini delle Montagne Rocciose, permettendogli di avere contatti con le tribù degli Osage e dei Pawnee. Il suo libro “A Tour on the Prairies”, pubblicato nel 1835, suscitò un vivo interesse fra la gente dell’Est, che guardava al West come ad una terra misteriosa e incantata.
Nel 1830 toccò all’intrepido pittore George Catlin (1796-1872) tentare l’avventura partendo da Saint Louis, armato soltanto dei suoi pennelli e dal grande desiderio di ritrarre luoghi e personaggi che lo avrebbero immortalato con le sue tele, esposte più tardi in una Indian Gallery allestita nel 1837 a Buffalo e a New York, ma in seguito anche a Londra. Il suo lungo resoconto di viaggio, attraverso la conoscenza diretta di decine di tribù pellirosse – Iowa, Piedi Neri, Cheyenne, Arapaho, Crow, Assiniboine, ecc. – avrebbe formato la raccolta “Letters and Notes on the Manners, Customs and Condition of the North American Indians. In two volumes, with four hundred illustrations”. Fra i suoi ritratti più apprezzati, quello che lasciò del capo Osceola dei Seminole.
Nel 1837 un altro artista del pennello, Alfred Jacob Miller (1810-1874) spinse la sua curiosità fino alle Montagne Rocciose, insieme al nobile scozzese sir William Drummond Stewart (1795-1871) che dal 1838 al 1842 avrebbe girovagato per il West conoscendo molti dei più famosi trappolatori ed esploratori, da Jim Bridger a Thomas Fitzpatrick.
Fra le tante opere tramandate ai posteri – in cui figurano capi indiani, accampamenti di trapper e Pellirosse, scene di vita nella prateria e carovane in movimento – il suggestivo dipinto di Fort Laramie al tempo in cui era ancora un posto di scambio dei cacciatori e luogo di sosta per le carovane dirette all’Ovest.
Ma non furono soltanto personaggi di sesso maschile a spingersi oltre il fiume Mississippi.
Susan Shelby (1827-1855) proveniente da un’agiata famiglia di piantatori del Kentucky, fu la prima donna di lingua inglese a percorrere l’arida e pericolosa Pista di Santa Fè, aperta nel 1822 dal mercante William Becknell per sviluppare i traffici fra il Missouri e il New Mexico. Sposa a 18 anni di Samuel Magoffin, che intendeva commerciare con i Messicani, partì insieme alla sua carovana da Independence, Missouri, nell’estate 1846 per raggiungere Santa Fè, pur essendo già incinta. Durante il viaggio abortì, ma il 31 agosto riuscì a toccare il capoluogo del Nuovo Messico, dove le truppe del colonnello Stephen W. Kearny si preparavano a fronteggiare i Messicani, essendo scoppiato un conflitto fra le due nazioni. In seguito Susan visitò altre località del Texas e del New Mexico, fra le quali El Paso, Chihuahua, Matamoros e Saltillo. Il suo libro di memorie, intitolato “Down the Santa Fè Trail and into New Mexico” diede ampi ragguagli sull’esistenza delle popolazioni del Sud-Ovest di quell’epoca. La sua vita fu abbastanza breve, ma intensa: la ragazza morì per le conseguenze del secondo parto all’età di 28 anni, dopo avere suscitato ammirazione fra gli uomini della Frontiera per il coraggio e l’intraprendenza dimostrati.
L’orda selvaggia dei cacciatori di pellicce si scatenò poco tempo dopo la spedizione di Lewis e Clark, soprattutto dopo che le compagnie per lo sfruttamento degli animali di pelliccia crearono postazioni in diversi punti strategici, facendosi una serrata concorrenza.
Manuel Lisa aveva fissato la sua base sul fiume Bighorn del Montana nel 1807 e per un ventennio operò come Missouri Fur Company nell’area intorno allo Yellowstone e ai suoi affluenti, ma già dal 1808 si erano fatti vivi i trapper di David Thompson, della Canadian North West Company, che fondarono, per iniziativa di Finan Mc Donald, il centro commerciale di Salish House vicino alle cascate del fiume Clark Fork. Nel 1821 i Canadesi, che avevano acquistato l’emporio di Astoria – stabilito dal tedesco John Jacob Astor tredici anni prima – si fusero con la potente Hudson’s Bay Company, ponendo un avamposto vicino all’isola di Vancouver, nell’Oregon. La nuova base, sorta sulle rive del fiume Columbia, diventò, sotto la gestione del dottor John Mc Loughlin, un importantissimo posto di scambio dei cacciatori sia americani che canadesi.
Nel 1822 William Henry Ashley e Andrew Henry costituirono un gruppo di caccia inizialmente denominato “I 100 di Ashley”, trasformatosi poi nella Rocky Mountains Fur Company per esercitare l’attività lungo il medio corso del fiume Missouri. La spedizione, a cui dovettero in seguito la loro fama personaggi come Hugh Glass, Jim Bridger e Jedediah Smith, saccheggiò il paese e si scontrò con gli Arikara, incendiandone un villaggio nell’agosto 1823 e coinvolgendo l’esercito americano, che mosse con 230 soldati del Sesto Reggimento Fanteria al comando del tenente colonnello Henry Leavenworth. La truppa e i cacciatori furono appoggiati da 750 Sioux che odiavano gli “Indiani del Mais”, nome con cui erano noti gli Arikara perché coltivavano il granturco. Fu probabilmente questa la prima di una lunga serie di “guerre indiane” nei territori occidentali, ma non certamente l’ultima occasione in cui i Pellirosse diedero prova, come molte altre volte nel loro passato remoto e recente, di assoluta miopia politica e totale assenza di lungimiranza. Infatti, con le loro faide intestine essi spalancavano ai Bianchi la via d’accesso ai loro territori.
Verso la metà degli Anni Venti il commercio prosperava quasi dovunque, gli Indiani accettavano di fornire pellicce alle compagnie e queste ultime portavano avanti un massacro indiscriminato di castori, lontre, volpi, orsi, donnole ed altri animali lungo tutti i corsi d’acqua delle montagne. La Rocky Mountains Fur Company affermò la propria influenza in un grande rendez vous tenutosi alla confluenza dei fiumi Ogden e Weber, nelle vicinanze del Gran Lago Salato, nel maggio 1826.
Terminato il raduno dopo due mesi, Jed Smith si mise a percorrere la pista di San Diego verso Los Angeles, deviando a nord per cacciare lungo il Rio de Los Americanos, nella vallata del Sacramento, per tutto l’inverno.
Nel West c’erano prospettive e lavoro per tutti, le società delle pellicce incrementavano i loro affari e la fauna delle montagne veniva sempre più impoverita. Nel 1829 Kenneth McKenzie dell’American Fur Company costruì Fort Union alla confluenza del fiume Yellowstone con il Missouri.
La cuccagna poteva durare ancora qualche anno, ma qualcuno cominciava a rendersi conto che non sarebbe stata illimitata. Nell’estate del 1839, Jim Bridger ed altri cacciatori tennero un ultimo, malinconico raduno sulle rive del fiume Green, constatando quanto i tempi stessero cambiando. Molti cacciatori – come Jed Smith – erano stati uccisi o avevano cambiato mestiere; altri si erano messi al servizio delle carovane di emigranti per guidarle verso l’Oregon.
Di lì a qualche anno, la febbre dell’oro californiana avrebbe radicalmente trasformato il West, lasciando sopravvivere sulle montagne un numero molto più esiguo di trapper e mountain men.
L’epoca d’oro dei mountain men si era protratta fino al 1840, vedendo protagonisti molti intrepidi cacciatori – Jedediah Smith, William e Milton Sublette, Jim Baker, Jim Beckwourth – dei quali la letteratura si occupò poco, mentre spesso il cinema li ignorò. Alcuni, come Kit Carson, acquistarono fama nazionale e mondiale con imprese di diverso genere: altri, quale il famoso Buffalo Bill Cody, lo fecero sterminando bisonti nelle pianure per conto delle ferrovie, quando ormai la caccia al castoro veniva praticata in misura assai ridotta. Ma le loro gesta eclatanti si legarono soprattutto alle campagne contro i Pellirosse, nelle quali ebbero spesso modo di mettersi in evidenza per coraggio, abilità e un’inevitabile dose di spregiudicatezza.
John Garrison, conosciuto come John Johnson, nativo del New Jersey intorno al 1824, impressionò le cronache del suo tempo a causa di una spietata vendetta da lui condotta per anni contro i Crow, che gli avevano ucciso la moglie, un’indiana dei Flathead, nel 1847.
Poiché in una o due occasioni aveva strappato ai nemici uccisi il fegato per divorarlo, venne soprannominato “Mangiafegato” Johnson. La leggenda ha peraltro alterato e a volte nobilitato molti tratti della biografia di questo trapper, così come il cinema (“Corvo Rosso non avrai il mio scalpo”, diretto da Sydney Pollack nel 1972) non ha contribuito a fare chiarezza.
Alto quasi due metri e corpulento, possedeva audacia da vendere e fece, oltre al cacciatore, altri lavori, fra cui il cercatore d’oro nel selvaggio Montana. Disertore dell’esercito durante la Guerra Messicana del 1846, si distinse anni dopo militando nelle file dell’Unione sui campi di battaglia del conflitto antischiavista.
La sua fine un po’ ingloriosa sopravvenne in un ospizio di Los Angeles, dove l’avevano fatto ricoverare alcuni amici impietositi della sua misera sorte. Trasferito in un ospedale nel dicembre 1899, morì nel gennaio successivo alla presunta età di 75 anni.