Arizona 1872, massacro degli Yavapai a Skeleton Cave

A cura di Renato Ruggeri

Questa tragica, ma anche eroica storia, inizia nel 1871. Era un periodo molto pericoloso per le famiglie Yavapai, braccate dall’esercito che stava conducendo spietate campagne militari attraverso l’Arizona centrale.
Con l’aiuto di alleati Pima e Maricopa i soldati attaccavano i villaggi Yavapai senza alcun avvertimento e ne abbattevano gli abitanti mentre fuggivano. Per due secoli i Pima e i Maricopa avevano rapito i bambini Yavapai per poi venderli in schiavitù alle comunità della Nuova Spagna e del Messico. Nel 1871 i Pima catturarono un giovane Kwevkepaya di nome Wassaja e le sue due sorelle.
I Pima vendettero le bambine che furono, poi, portate in Messico, ma il fotografo Italiano Carlo Gentile, impietosito dalle condizioni del piccolo, comprò Wassaja per 30 dollari nello sperduto villaggio di Adamsville, vicino a Florence, e lo chiamò Carlos Montezuma (Carlos il nome di Gentile in lingua spagnola. Montezuma dalla spettacolare rovina chiamata Montezuma Castle vicino a Camp Verde).


Alcuni luoghi degli eventi di Wassaja

Il giovane viaggiò a est con Gentile fino a New York e all’Illinois e fu, poi, affidato a un pastore Battista. Nato Kwevkepaya nelle montagne dell’Arizona, Montezuma crebbe come Battista nella società americana, si laureò all’University of Illinois e alla Chicago Medical School e lavorò come medico per l’US Indian Office in alcune riserve a ovest, in North Dakota, Nevada e Washington.


Wassaja e le sorelle

L’anno dopo il rapimento di Wassaja, un altro giovane Kwevkepaya iniziò un simile e inaspettato viaggio.
Nel dicembre 1872, quando Hoomothya aveva, probabilmente, 7 o 8 anni, la sua famiglia faceva parte di una banda Kwevkepaya che viveva in una caverna vicino al Salt River (Rio Salado). Quell’inverno i soldati stavano setacciando le terre Kwevkepaya e spostarsi era rischioso. Nonostante ciò lo zio di Hoomothya decise di portare il ragazzo con se alla ricerca di un cavallo che si era smarrito.
Trentanove anni dopo, in una lettera scritta a Montezuma, Hoomothya, che ora si chiamava Mike Burns, ricordò vivamente i terrificanti eventi che seguirono.


La campagna del Tonto Basin

“Senza il consenso di mio padre, lasciammo il campo la mattina presto e viaggiammo fino ai piedi dei Four Peaks. La notte ci sorprese proprio in vista di Fort McDowell. Mio zio si addormentò a mezzanotte, io rimasi sveglio. Inprovvisamente udii il rumore di passi sulle rocce nella direzione da cui eravamo venuti e sentii delle voci.


La mappa

Capii che c’era qualcuno vicino a noi e colpii il ginocchio di mio zio svegliandolo. Mi disse che erano nemici e che dovevo fuggire. Subito dopo alcuni colpi furono sparati verso il nostro bivacco. Quando sentii il rumore degli spari fui così spaventato che mi buttai a terra, mi nascosi sotto alcune rocce e passai la notte senza vestiti o coperte”.
Lo zio, ferito, fuggì, ma la mattina dopo, dicembre 22 i soldati trovarono il ragazzo mezzo congelato e terrorizzato.


Old Fort Grant


Fort McDowell

Usando le informazioni di Hoomothya e di altri prigionieri Kwevkepaya potevano, ora localizzare la rancheria Yavapai nel Salt River Canyon.
In particolare Nantaje, uno scout Tonto Apache soprannominato Joe dai soldati, disse di conoscere la posizione di un’oscura caverna conosciuta, in seguito, come Skeleton Cave, Skull Cave o Salt River Cave, annidata all’interno di una parete rocciosa nelle Mazatzal Mountains. Una vera e propria fortezza naturale.


Yavapai Cave

Nantaje promise di condurre i soldati fino a quel luogo remoto e selvaggio ma a una condizione : l’avvicinamento doveva avvenire di notte. Qualunque tentativo durante il giorno contro la quasi imprendibile roccaforte “dove solo le aquile, i falchi, gli avvoltoi e le capre di montagna potevano arrivare”. si sarebbe trasformato, secondo la guida Apache, in un disastro.


L’avanzata dei soldati con le guide Apache

La forza che assalì Skeleton Cave fu composta da 250 uomini, due compagnie del 5th Cavalry, la L e la M, partite da Camp Grant e comandate dal Brevet Major William Henry Brown con le guide Archie McIntosh. Joe Felmer e Antonio Besias e 30 scouts San Carlos e Tonto Apaches che conoscevano bene il territorio Kwevkepaja. e una compagnia del 5th Cavalry, la G, uscita da Fort McDowell e guidata dal Capitano James Burns con 100 guerrieri Pima del capo Antonio.
Gli ufficiali dell’esercito sapevano che molti Kwevkepayas passavano l’inverno in una grotta vicino al Salt River, nelle Mazatzal Mountains o nell’area dei Four Peaks, ma nessuno ne conosceva l’esatta posizione fino a quando i prigionieri parlarono.


Il Maggiore Brown fece distribuire una scatola con 20 cartucce in più che i sodati avvolsero nella coperta portata a tracolla

Il Maggiore Brown, volendo portare con sè solo gli uomini fisicamente più in grado di affrontare il duro e pericoloso cammino, ordinò ai meno abili di rimanere al campo base sul Cottonwood Creek.
I soldati riempirono le cinture di proiettili. Brown fece distribuire una scatola con 20 cartucce in più agli uomini selezionati per la missione e i soldati la avvolsero nella coperta portata a tracolla.


I soldati

Ogni soldato si rifornì, inoltre, di pancetta, pane e caffè e di una borraccia piena d’acqua.
Alle 8 di sera del 27 dicembre 1872 la colonna si mise in cammino. La notte era fredda e senza luna. Nantaje voleva seguire la stella del Nord per meglio localizzare la rancheria. Gli uomini camminano in silenzio, come una fila di fantasmi, nel vento gelido. Il passo è spedito, per meglio combattere il freddo. A mezzanotte circa i soldati, dopo aver scalato la mesa, arrivano in cima al canyon.
La marcia è stata davvero strenua e molti di loro si sdraiano a terra, cercando di riposare. Sotto di loro si apre il crepaccio, un abisso scuro e tenebroso. Il buio è assoluto, o così sembra.
Verso le 2 di notte alcune guide Apache andate in esplorazione tornano da Brown con una buona notizia. Sul fondo del canyon si vedono dei bagliori, forse dei fuochi.
Nonostante l’oscurità Joe Felmer e Nantaje decidono di scendere lungo la parete del precipizio.
Trecento metri più in basso trovano quattro wickiups abbandonati e vicino alle capanne, in una piccola radura con un po’ d’erba e una pozza d’acqua, quindici cavalli Pima, frutto di una recente razzia. I ponies hanno ancora il sudore incrostato sui fianchi, graffi su tutto il corpo e le ginocchia piene di spine di cholla cactus. Il sudore e le ferite fresche fanno capire agli scout che i razziatori non sono lontani e infatti, poco distante, si apre l’entrata di una grotta (dalle foto Skeleton Cave sembra più una cavità o una rientranza semicircolare della parete rocciosa che una vera e propria caverna) protetta da un parapetto naturale formato da grossi massi di arenaria alti 3-4 metri.


Salt River Cave

Yavapai Cave!
La notizia della scoperta della grotta viene, subito, riportata al Maggiore Brown che decide il piano d’azione.
I soldati cambiano i loro stivali con mocassini riempiti di erba secca e tutti gli oggetti in metallo sono lasciati al bivacco. Il silenzio deve essere assoluto. Poi, alle prime luci dell’alba, scendono in fila indiana lungo il canyon seguendo un sentiero stretto e pericoloso. Basterebbe mettere un piede in dallo o scivolare su un sasso umido per cadere nel vuoto e compromettere la missione.
Brown manda in avanscoperta un gruppo formato da 12 tiratori, i migliori tra i soldati, le guide e i conducenti di muli, guidati dal Lt William Ross, con il compito di presidiare l’ingresso della caverna.


La mappa degli eventi

Quando gli uomini dell’avanguardia giungono vicino all’entrata della grotta, vedono un gruppo di Yavapais che cantano e danzano intorno a un fuoco, forse per scaldarsi, o per celebrare la razzia fortunata del giorno precedente, mentre alcune donne preparano il cibo.
Invece di aspettare Brown e il resto della truppa, i tiratori scelti decidono di passare all’azione.
La difesa
Ogni uomo sceglie il proprio bersaglio e, a un segnale convenuto, tutti fanno fuoco contemporaneamente. Sei Yavapais cadono a terra morti, mentre gli altri fuggono al riparo.
Sentendo la sparatoria Brown manda il Lt John Bourke con 40 uomini, i primi della fila, a rinforzare il distaccamento di Ross.
Quando Bourke arriva nei pressi della caverna, invia alcuni uomini vicino all’entrata,
mentre gli altri sparano contro la grotta.
Improvvisamente un guerriero esce correndo dalla caverna e scende lungo la parete del precipizio per cercare aiuto nei villaggi vicini. Riesce a raggiungere alcune rocce sul fondo del canyon e, credendo di essere ormai al sicuro, si volta verso i soldati lanciando un grido di sfida e poi mostra loro le natiche.
Un fabbro di nome John Cahill, con il suo Sharps, lo fulmina con un tiro mortalmente preciso.
Poi arrivano anche gli uomini di Brown.


I momenti concitati dell’assalto

Il Maggiore, presa visione della situazione, divide i soldati in due linee di combattimento.
La prima, più avanzata, una “ skirmish line”, viene disposta a semicerchio con i fianchi appoggiati alla parete del canyon, a una trentina di metri dall’entrata, la seconda, una “ reserve line”più arretrata, per fronteggiare una sortita improvvisa degli Yavapais.
Inizia l’assedio. I soldati sparano contro la grotta (Bourke paragonerà, in seguito, i proiettili che colpiscono l’entrata della caverna a gocce di pioggia che sferzano la superficie di un lago). ma gli Yavapais sono ben asserragliati dietro il parapetto di rocce, la fitta fucileria sembra inefficace e un assalto frontale comporta molti rischi.
A questo punto Brown ha un’idea. Ordina ai suoi uomini di sparare contro il tetto della caverna in modo che i proiettili di rimbalzo possano colpire gli occupanti.
Le grida di dolore e di terrore delle donne e dei bambini indicano che il fuoco indiretto sta producendo risultati.


Un tentativo di fuga

All’interno della grotta i guerrieri intrappolati tentano di allontanare il fuoco nemico dal tetto della grotta mettendo dei cappelli in cima agli archi. Poi gli Yavapais iniziano a scagliare frecce verso l’alto in modo che ricadano a parabola sui soldati. Ma anche questo tentativo si rivela un fallimento.
La situazione degli Yavapais si fa disperata.
Brown ordina il cessate il fuoco e poi, per due volte, dice agli interpreti di chiedere, in Spagnolo, la resa incondizionata. Le guide Apache ripetono l’appello. Ma gli Yavapais rispondono con insulti, gesti e grida di sfida “Non abbiamo paura. Morirete tutti voi, cani bianchi, e voi, ladri di mocassini di squaw (gli Apaches). Non vivrete fino al tramonto, la nostra gente sta arrivando e sarete, presto, cibo per gli avvoltoi”.
Allora Brown prega gli Indiani di far uscire tutte le donne e i bambini, ma non ottiene risposta.
Subito dopo si leva, dalla caverna, una nenia che Bourke descriverà “come un suono strano e ossessionante, mezzo gemito e mezza esultanza, un misto tra un lamento disperato e un selvaggio grido di esultanza”
Gli Yavapais hanno iniziato il loro canto di morte.
Poi, improvvisamente un soldato grida “Attenti, stanno arrivando!”
Una ventina di guerrieri praticamente nudi e con le pitture di guerra escono dalla grotta sparando. Si gettano contro il fianco destro cercando di sfondarlo, ma vengono respinti e sei guerrieri rimangono sul terreno. I superstiti rientrano nella caverna.
Uno Yavapai riesce, miracolosamente, a oltrepassare la prima linea e, non vedendo la seconda, si volta per lanciare un grido di sfida e di incoraggiamento. Quando si accorge dei fucili che lo stanno prendendo di mira, il guerriero grida qualcosa “No, no soldados”…forse, ma 20 fucili sparano simultaneamente e il corpo dello Yavapai viene maciullato dalla scarica. La forza dei proiettili lo solleva da terra e lo butta indietro.
Bourke racconterà di non aver mai più visto un corpo così fatto a pezzi dai proiettili come questo.


I resti umani

La mossa successiva di Brown è muovere la linea di riserva più vicina alla caverna per aumentare la potenza di fuoco. Nel mezzo della carneficina un bambino di circa quattro anni esce dalla grotta, si guarda intorno stupito e viene colpito di striscio, alla testa, da un proiettile che rimbalza su una roccia. Nantaje esce dal suo nascondiglio, afferra il bambino e lo porta in salvo dietro la linea dei soldati, che avevano, intanto, cessato il fuoco e che lo acclamano con grida di giubilo “Hurrah. Hurrah for Joe!”
“Questa è l’incongruenza della natura umana”, osserverà Bourke.
Nel frattempo il Capitano James Burns che, con i suoi uomini, era stato inviato a seguire, a ritroso, la pista che i cavalli Pima avevano tracciato scendendo nel canyon, sentendo gli spari, ritorna verso il precipizio e arriva sulla cresta rocciosa sopra la caverna.
Burns vede i Kwevkepaias che si affollano dietro il parapetto di rocce tentando di sfuggire ai proiettili di rimbalzo. Ordina, allora, a quattro uomini di preparare un’imbracatura con le loro bretelle e due soldati vengono sospesi sopra l’entrata e iniziano a sparare contro gli Indiani.
Quando i due restano senza munizioni, Burns ordina di gettare verso la caverna alcuni grossi massi, in modo da costringere gli Yavapais o a restare dietro il parapetto, con il rischio di essere schiacciati, o a rientrare nella caverna. con la possibilità di essere colpiti dai proiettili di rimbalzo.
L’effetto della frana è, però, devastante.


Ancora una vista di Skeleton Cave

Dal basso il Lt Bourke vede le rocce che precipitano sugli Indiani. Il rumore è terribile e l’aria si riempie subito di centinaia di frammenti di roccia.
“Le urla dei morti hanno trafitto la polvere salendo in alto nel cielo, solo echi hanno risposto. Il canto della morte è cessato, nessun fucile parlava più, la grotta era, ormai, la casa dei morti”.
Quando i rumori tacciono, una calma irreale cala sulla scena.
Brown aspetta che la nuvola di polvere si depositi al suolo, poi ordina ai soldati e alle guide di avvicinarsi, con prudenza, alla grotta. È mezzogiorno del 28 dicembre 1872.
Tra i primi a entrare nella caverna ci sono i Pima che fracassano la testa dei feriti con le pietre e il calcio dei fucili.
Le donne e i bambini che sopravvivono sono salvati dai soldati e dagli scout Apache.
All’interno della grotta i soldati trovano agave arrostita, carne di cavallo e di mulo. semi di tutti i tipi, cestini, pelli, oggetti per il wickiup, archi, frecce, lance, mazze da guerra, fucili di vario tipo e munizioni.
Le guide Apache e i Pima prendono le armi più recenti e in buono stato e un po’ di cibo, tutto il resto viene dato alle fiamme.
Uno solo tra i guerrieri è ancora in vita, un vecchio medicine man che però, ferito gravemente, spira poco dopo.
Burns in uniforme
Si salvano dalla carneficina alcune donne che avevano lasciato la grotta prima dell’attacco per arrostire l‘agave.
Sopravvive, anche, un guerriero Yavapai. Ferito a una gamba, si era nascosto sotto i cadaveri. Usando due lance come stampelle l’uomo riesce a raggiungere la banda Yavapai che sarà. poi, assalita a Turret Peak.
Poi i soldati caricano sui cavalli le donne e i bambini prigionieri e la lunga colonna si mette in marcia verso Fort McDowell.
Una squaw ferita gravemente viene lasciata nella grotta con cibo e acqua. Alcuni Pima tornano indietro e le schiacciano la testa come gelatina.
Tra i soldati, i Pima e le guide Apache vi è una sola vittima, un Pima colpito da un proiettile.
Il numero degli Yavapais uccisi non è, invece, certo.
Il Lt Bourke, il principale testimone oculare della vicenda, nel primo dei suoi numerosi diari scrisse che i morti furono 57 e i prigionieri 20. Nel libro che raccoglie le sue memorie, ”On The Border With Crook”, Bourke corresse la cifra. I prigionieri erano stati 18 e i morti, secondo fonti indiane, 76 e questa è la cifra accettata dalla maggior parte degli storici.
Ma Hoomothya, che fu trascinato nella grotta alla fine del massacro e vide i cadaveri di tutti i suoi familiari tra cui il padre, il nonno e due fratelli più giovani, in una lettera a Carlos Montezuma datata 1912 scrisse “È impossibile stabilire l’esatto numero, dal momento che molti corpi erano ammucchiati gli uni sugli altri e erano stati così schiacciati dalle rocce che era difficile distinguere un intero corpo umano da pezzi di carne”. Non erano riconoscibili come esseri umani.
Per gli Yavapais i morti furono più di 100.


Carlos Montezuma,il primo a destra,a Skeleton Cave

I morti furono lasciati insepolti nella caverna dove le ossa rimasero a sbiancarsi indisturbate per molti anni.
Trentaquattro anni dopo, nel 1906, un allevatore di nome Jeff Adams entrò nella grotta e trovò le ossa e alcuni oggetti e due anni dopo, nel 1908, un fotografo del Bureau of Reclamation, Walter Lubken, immortalò in alcuni scatti le ossa disposte in modo artistico.
Da allora l’anonima caverna prese il nome di Skeleton o Skull Cave.
Skeleton Cave non portò fortuna ai due comandanti della spedizione
Il Capitano James Burns che aveva adottato, nel frattempo, Hoomothya chiamandolo Mike Burns, morì due anni dopo, il 15 agosto 1874, a Navajo Springs, Arizona, per una malattia ai polmoni.
Il Maggiore William Henry Brown si suicidò l’anno seguente, il 4 giugno 1875, il giorno dopo il matrimonio tra Irene Rucker, con cui aveva avuto una relazione, e il Gen. Phil Sheridan.
Nel 1875 Hoomothya, ora Mike Burns, seguì il 5th Cavalry che era stato trasferito nelle pianure settentrionali a combattere Sioux e Cheyennes. Nei primi anni 80 frequentò la Carlisle Indian School in Pennsylvania e passò un’estate a lavorare in una fattoria vicino a New York.
Ma non si integrò nel sistema di vita orientale e nel 1885 tornò in Arizona, a San Carlos. Burns Si trovò, però, preso tra due mondi che non lo accettavano. Per i bianchi era un Indiano e gli Yavapais lo guardavano con sospetto. Visse per un certo periodo con una cugina che era sopravvissuta a Skeleton Cave (era tra le donne che erano uscite dalla caverna prima dell’attacco). Come altri Yavapais della sua età si arruolò tra gli scouts durante la campagna contro Geronimo nel 1886.


Scout Apache

Tornato a San Carlos dopo essersi congedato, aiutò a riparare la scuola della riserva e reclutò ragazzi Yavapai per le classi con insegnamento in Inglese.
In seguito l’agente indiano lo assunse come assistente di un funzionario del governo che insegnava tecniche agricole agli Yavapais.
Gli ci vollero due anni per reimparare la lingua Kwevkepaya.
La conoscenza di due lingue, l’Inglese e lo Yuman, furono, per Burns, di grande aiuto.
Gli Yavapais a San Carlos volevano ritornare nella loro terra natale, ai canyons, alle montagne e ai fiumi che consideravano casa. Con la sua capacità di comprendere i dialetti Yavapais e la sua educazione in lingua Inglese, Burns agì come interprete per gli Yavapais che negoziarono con gli ufficiali dell’esercito il permesso di lasciare San Carlos.
Nel 1887 l’agente indiano l’assunse come interprete per l’agenzia. Nel giugno di quell’anno il Generale Nelson Miles arrivò a San Carlos e incontrò un gruppo di capi.
Gli Yavapais avevano già compreso che un certo grado di integrazione era necessario se volevano far valere i loro diritti e la conoscenza di Burns della società americana servì allo scopo.
Durante il meeting del 1887 Miles chiese a alcuni leaders Yavapai di viaggiare attraverso le loro vecchie terre e poi di raggiungerlo a Los Angeles per ulteriori discussioni. Burns andò con la delegazione, via Yuma, e fu l’interprete di questa seconda conferenza.
Miles non aveva l’autorità per permettere agli Yavapais di lasciare San Carlos, ma i suoi resoconti, le sue raccomandazioni e le sue amicizie portarono dalla parte degli Yavapais alcuni ufficiali e membri del governo. Fu un lungo percorso, ma nel 1902 molti Yavapais erano già tornati nella loro terra natia e nel 1903, 28 anni dopo il trasferimento forzato, il Presidente Theodore Roosevelt istituì la Riserva Yavapai di Fort McDowell.
All’inizio del ventesimo secolo Hoomothya e Wassaja, Mike Burns e Carlos Montezuma. i due più istruiti tra i Kwevkepayas, giocarono un ruolo fondamentale nella resistenza Yavapai contro i soprusi dei bianchi.
Nel 1901 e nel 1903 Montezuma viaggiò in Arizona, incontrò alcuni suoi parenti e Mike Burns, che chiamò cugino.
Nel 1910 nuvole nere si addensarono sul destino della riserva di Fort McDowell.
L’Office of Indian Affairs, in combutta con alcuni speculatori di Phoenix, voleva trasferire gli Yavapais per rendere disponibili ai bianchi gli acri e i diritti sull’acqua della riserva.
Sebbene risiedesse a Chicago, Montezuma divenne l’uomo di punta della resistenza al trasferimento.
Era il solo Kwevkepaya che sapeva come muoversi nel sistema politico e legale degli Stati Uniti.
Montezuma scrisse a ufficiali dell’esercito e esortò i residenti di Fort McDowell a combattere.
Nel 1911 portò una delegazione a Washington davanti a una commissione del Congresso e assunse un avvocato. Tutti questi sforzi ebbero successo e gli Yavapais riuscirono a rimanere nella riserva.
Montezuma divenne un simbolo a livello nazionale. Fu tra i fondatori della Society of American Indians nel 1911 e, tra il 1916 e il 1922, pubblicò una newsletter mensile intitolata Wassaja, in cui chiedeva l’abolizione dell’Indian Office.
Nel dicembre 1922, gravemente malato di tubercolosi, lasciò Chicago e tornò per l’ultima volta a Fort McDowell. Aveva deciso di completare il cerchio della sua vita. Morì il 31 gennaio 1923 in una capanna simile a quella dove era nato più di 55 anni prima.
Mike Burns non volle essere da meno del suo illustre amico.
Aveva viaggiato da New York alla California, aveva accompagnato l’esercito nelle pianure settentrionali e ai confini messicani, ma gli eventi dominanti nella sua memoria rimanevano la sua cattura e il massacro di Skeleton Cave.
Dopo essersi incontrati a Fort McDowell, Burns e Montezuma iniziarono una fitta corrispondenza. Nelle sue lettere Burns ritornava, spesso, ai tragici eventi del dicembre 1872. Nel 1912 credeva di essere “ l’unica anima vivente che apparteneva, una volta, alla banda sterminata nella grotta“.
Sia Burns che Montezuma scrivevano e leggevano l’Inglese ma, a differenza del medico di Chicago, Burns aveva passato buona parte della sua vita tra i Kwevkepayas e, conversando con gli anziani, aveva appreso molto della storia Yavapai, fin dai tempi remoti.
Divenne così il depositario delle conoscenze del suo popolo, un individuo singolare agli inizi del ventesimo secolo.
Mettendo le parole su carta, Burns era sicuro che i suoi familiari morti nella grotta non sarebbero stati dimenticati e che la cultura Yavapai, di tutte quattro le genti Yavapai, si sarebbe preservata e tramandata. Nel luglio 1913 scrisse a Montezuma “ Voglio trovare il tempo di scrivere come il nostro popolo venne trattato, e voglio farlo in forma di libro”.
A quel tempo Burns aveva già scritto 125 pagine e sperava che Montezuma gli potesse spedire una macchina fotografica.
Nel secolo passato i coloni e i soldati avevano invaso la terra Yavapai e trasferito, con la violenza, le famiglie, giustificando le operazioni sanguinose con l’ostilità degli Yavapais e dei Western Apaches.
Anche dopo che furono conquistati e portati via dalla loro terra, gli Yavapais erano stati etichettati come “selvaggi” o “incivili”.
I vincitori avevano scritto la loro versione della storia.
Burns voleva correggere questi preconcetti e questi fraintendimenti, voleva mostrare il lato indiano della vicenda, raccontando all’uomo bianco di come gli Yavapais erano stati costretti a combattere per difendere la terra, le famiglie e le case.
Burns raccolse una gran quantità di materiale che gli permise di ricostruire molti eventi del passato. Queste storie divennero parte di un copioso manoscritto. Era la storia Yavapai scritta in Inglese, così che gli Americani potessero comprendere
Nel 1916 Burns aveva già scritto circa 300 pagine e pensava che il suo lavoro fosse, per metà, completo.
Il Generale Crook sul mulo
Conteneva descrizioni della vita Yavapai prima della conquista, e la conquista americana delle terre vista con gli occhi degli Yavapais.
Thomas Farish, il primo storico a leggere il manoscritto, disse che “gettava una nuova luce sui rapporti di frontiera, in Arizona, tra i bianchi e i nativi”.
Burns stava ancora lavorando alla sua opera quando morì nel 1934.
I parenti bruciarono gli oggetti che gli appartenevano, secondo l’usanza Kwevkepaya, ma Burns aveva già trasmesso molte delle sue conoscenze storiche.
Burns diede una copia del suo manoscritto a Farish, che ne incluse parti nella sua storia in più volumi dell’Arizona.
Nel 1927 un editore di Phoenix, Truman Helm, pubblicò “ The Legend of Superstition Mountain “ di Mike Burns, un pamphlet in cui Burns raccontava di una razzia Pima e Maricopa e del devastante contrattacco Kwevkepaya.
Nel dicembre 1929 Burns passò 15 giorni con un professore dell’Università della California, Edward Gifford. Usando anche le descrizioni e i racconti di Burns, Gifford pubblicò uno studio etnografico intitolato “The Southeastern Yavapai”.


Indiani Yavapai

Cosa più importante, una copia del manoscritto sopravvisse alla sua morte.
Con l’aiuto del Dott. William Corbusier, un chirurgo dell’esercito in pensione, Burns aveva cercato di contattare editori a New York e Boston. Quando vide che a est vi era poco interesse per la storia Yavapai, cercò uno sbocco locale.
Nel 1910 aveva scritto a Sharlot Hall, una poetessa, giornalista e storica dell’Arizona.
Nel 1923 la contattò ancora chiedendole come poteva pubblicare il suo libro. In una terza lettera la ringraziò per la gentile risposta e le espresse il desiderio di incontrarla a Prescott. Il risultato di questa corrispondenza fu che Burns diede a Hall le sue pagine battute a macchina, che sono ancora conservate negli archivi dello Sharlot Hall Museum.
Nel 1970 ci fu un’altra sollevazione contro la proposta di costruire Orme Dam, una diga che avrebbe sommerso parte della riserva di Fort McDowell.


Il cippo che ricorda il massacro

Tra i portavoce della protesta ci fu John Williams, un Kwevkepaya nato a Fort McDowell nel 1904.
Williams scrisse al Congresso e si fece intervistare da giornali e dalla CBS e parlò con un’antropologa dell’Arizona State University, Sigrid Khera, raccontandole episodi di storia Yavapai.
Williams descrisse a Khera anche una sua visita a Skeleton Cave.
“Nel 1923 andammo con Carlos Montezuma a raccogliere le ossa nella caverna.
In quella grotta, sulle pareti, vi era qualcosa che sembrava olio e anche sul pavimento, vi era questo olio dappertutto. Era sangue. Quando i proiettili colpirono i corpi il sangue si distribuì tutt’intorno. Trovammo molte ossa, anche ossa molto piccole. Quando iniziammo a raccogliere le ossa, Montezuma era in piedi e piangeva. Tutti noi iniziammo a piangere. Vedemmo il sangue sulle pareti. Fu troppo per noi. Era qui che il nostro popolo morì. Per niente”.

Nel gennaio 1923 Montezuma era già troppo malato per riuscire a compiere l’impervio cammino fino alla grotta. È possibile che Williams si sia sbagliato sulla data, o che confuse Montezuma con Burns.


Il ritrovamento e riodino degli scheletri degli uccisi

Nel 1925 Mike Burns insieme a uno sceriffo della Maricopa County e a alcuni Yavapais raccolse le ossa rimaste nella caverna e le seppellì nel cimitero di Fort McDowell.
Cinquantatre anni dopo i tragici eventi, le ossa di Skeleton Cave trovarono il loro definitivo e meritato riposo.

NOTE CONCLUSIVE:

Ho ricavato molte informazioni per questo articolo da “Surviving Conquest, A History of the Yavapais People” di Timothy Braatz (2003) e dall’autobiografia di Mike Burns
“The Only One Living to tell” (2012). Per raccontare l’attacco a Skeleton Cave mi sono affidato a due articoli.

Il primo pubblicato su Wild West Magazine del dicembre 1998, a firma John Wukovits, dal titolo “General Crook’s Tonto Basin Campaign”, e l’altro, di Jim Schreier, apparso sul numero di maggio 1991 della rivista Arizona Highways “The Skeleton Cave Incident”. E da due libri. ”On the Border with Crook” di John Gregory Bourke (1971) e “General Crook and the Fighting Apaches” di Edwin Sabin (1918).
Ho tratto ulteriori informazioni da “Once They Moved Like the Wind” di David Roberts (1993), ”Apache Wars” di Lisle Reedstrom (1990), ”Conquest of Apacheria” di Dan Thrapp (1967) e da “They Would Not Be Conquered. The History of the Tonto Apache Tribe” di Stanley Brown (2015)

Su youtube vi sono alcuni documentari e filmati su Skeleton Cave e alcuni protagonisti della vicenda.
Quello che mi è più piaciuto è un documentario dell’Università dell’Illinois intitolato “Carlos Montezuma: changing is not vanishing” in cui appare anche lo storico italiano Cesare Marino autore della biografia sul fotografo napoletano Carlo Gentile.

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