L’attacco di Pancho Villa a Columbus

A cura di Francesco Lamendola


Un episodio poco conosciuto in Europa è quello dell’attacco lanciato dal rivoluzionario messicano Francisco Villa contro la cittadina statunitense di Columbus, nel New Mexico, la notte del 9 marzo 1916. Tale incursione, che provocò 16 o, secondo altre fonti, 18 morti fra la guarnigione e la popolazione civile, provocò una spedizione punitiva guidata dal generale Pershing che per mesi setacciò le sierras del Messico settentrionale alla vana ricerca di Villa, sulla cui testa era stata posta una taglia di 5.000 dollari.
Alle origini dell’episodio vi furono le ambiguità della politica del presidente Woodrow Wilson, prima amico e sostenitore di Villa ma che poi, bruscamente, riconobbe quale legittimo presidente messicano il suo acerrimo nemico Venustiano Carranza; e, pare, l’avidità di un mercante d’armi americano che, contrariamente ai patti, pretese di esserre pagato dai villisti in oro, e ciò proprio quando le brucianti vittorie militari del generale Obregon sulla “Division del Norte” di Villa avevano inferto a quest’ultimo un colpo dal quale non si sarebbe mai più ripreso.
Gli amanti del cinema che hanno visto “Cordura”, un film di Robert Rossen girato nel 1959 e interpretato da Gary Cooper e Rita Hayworth – film rudemente maltrattato dalla critica (1) e snobbato dal pubblico, tanto che costò una perdita milionaria alla casa produttrice -, forse ricorderanno che il protagonista, il maggiore Thorn, cerca di riscattarsi da un episodio di viltà: la fuga davanti ai Messicani che avevano compiuto una fulminea incursione sulla cittadina di Columbus, infrangendo il mito dell’inviolabilità militare degli Stati Uniti d’America.


Columbus prima dell’attacco di Villa

L’attacco alla cittadina americana non faceva parte della trama, ma veniva solo rievocato nel racconto del protagonista alla sua inattesa compagna di viaggio, una avventuriera sospettata di fare la spia dei Messicani (anch’ella desiderosa di redenzione) interpretata dalla splendida Hayworth.
Ebbene si trattava di un episodio storico assolutamente vero, anche se pochissimo conosciuto, maturato da un lato nel contesto delle complesse vicende della rivoluzione messicana che divampò fra il 1910 e il 1920 circa; dall’altro in quello delle difficili relazioni diplomatiche fra Messico e Stati Uniti, con un presidente Wilson ondeggiante fra il sostegno ai “convenzionalisti” di Villa e Zapata e quello ai “costituzionalisti” di Carranza e Obregon. (2)
Presuntuoso, arrogante, testardo, Wilson mostrò, come diplomatico, gli stessi difetti che sarebbero emersi alla Conferenza di Versailles quando sederà fra i “quattro grandi” vincitori della prima guerra mondiale. In quel caso si sarebbe reso responsabile di almeno due gravi errori: l’aver voluto distruggere l’Austria-Ungheria, lasciandosi influenzare dal neo-presidente ceco Thomas Masaryk, che chiese e ottenne l’annessione dei Sudeti con 3 milioni di cittadini di lingua tedesca; e l’aver scavalcato il governo italiano quando, durante il ritiro di Orlando e Sonnino da Parigi, decise di rivolgersi direttamente al popolo italiano per spiegare il trattamento riservata all’Italia durante la conferenza (anche in questo sotto l’influenza dei nazionalisti croati, da lui ascoltatissimi).


Columbus durante l’attacco di Villa

Entrambi gli errori avrebbero contribuito in larga misura a creare le premesse della seconda guerra mondiale.
L’ultima invasione militare straniera sul territorio degli Stati Uniti d’America non è stata, pertanto – come molti credono – quella inglese a New York e New Orleans, durante la guerra anglo-americana del 1812-15, bensì – esattamente un secolo dopo – quella di Francisco Villa (noto come “Pancho”), alias Doroteo Arango, nel marzo del 1916. Obiettivo: la modesta cittadina di Columbus, nel sud della Nuovo Messico, sede di una guarnigione dell’esercito americano. Sconfitto dall’esercito di Obregon nelle battaglie campali di Celaya, Leon e Agua Prieta nel corso del 1915 e costretto ad abbandonare, dopo Città del Messico, una dopo l’altra tutte le sue posizioni nel nord del Paese, Villa aveva vissuto come un affronto personale la decisione del presidente americano, Woodrow Wilson, di riconoscere Venustiano Carranza quale nuovo presidente del Messico, dopo che, in un primo tempo, era sembrato intenzionato a riconoscere lui stesso, Villa, quale legittimo erede dell’assassinato presidente Francisco Madero.


Una delle immagini di Columbus dopo il passaggio dei guerriglieri

Maturò in questo modo, nell’animo fiero del rivoluzionario messicano e comandante dell’ormai distrutta “Division del Norte”, l’idea di vendicarsi del governo di Washington e, al tempo stesso, di un fornitore d’armi statunitense che non aveva rispettato i patti, negandogli quanto promesso proprio nel momento più critico, e che risiedeva proprio a Columbus, vicino all’incandescente frontiera tra i due Stati. L’attacco durò poche ore ma causò notevoli danni e, soprattutto, provocò una fortissima impressione nell’opinione pubblica americana, che si chiese come fosse stato possibile che un “mexican bandit” (così viene definito, ancor oggi, nella «The American Peolple’s Encyclopedia» potesse impunemente attraversate la frontiera con alcune centinaia di ‘bandidos’, incendiare e saccheggiare una cittadina statunitense presidiata dall’esercito, uccidere poco meno di venti cittadini e poi ritirarsi indisturbato, sparendo altrettanto velocemente di come era apparso.


I morti di Columbus lungo le strade

L’orgoglio nazionale ferito reclamava vendetta. Così il governo americano, col consenso del neo-presidente Carranza, varcò la frontiera con un massiccio corpo di spedizione, formato da 6 squadroni di cavalleria, quattro reggimenti di fanteria e un distaccamento d’artiglieria, al comando del generale Pershing: lo stesso che, l’anno dopo, sarebbe stato incaricato di guidare il corpo di spedizione in Francia, per partecipare alla prima guerra mondiale contro la Germania.
Per settimane le truppe statunitensi, ben 15.000 uomini in tutto, percorsero vallate e deserti, valicarono montagne e setacciarono villaggi e rifugi naturali, con l’ordine di trovare e catturare, vivo o morto, il famoso capo guerrigliero. Una formidabile taglia di 5.000 dollari venne posta sul suo capo. Ma nessuno riuscì mai a intascarla.
Rimasto praticamente solo, ferito, Pancho Villa non fu tradito dai suoi” peones” e sfuggì alla cattura, tanto che alla fine l’esercito americano, umiliato e sempre più in difficoltà col governo di Carranza, dovette ripassare la frontiera senza nulla avere concluso. L’autore del raid su Columbus rimase impunito. Del resto, ormai gli Stati Uniti avevano ben altro a cui pensare: dopo la decrittazione del famoso “telegramma Zimmermann”, in cui l’ambasciatore tedesco riceveva istruzioni da Berlino di offrire a Carranza armi e denari per cercare di riprendersi le terre perdute del Texas, nel 1836, e dell’Arizona e del Nuovo Messico, nel 1848, con il trattato di Guadalupe-Hidalgo (3), la guerra con la Germania e l’Austria-Ungheria pareva ormai inevitabile. (4)


Le macerie di Columbus

E un milione di soldati americani sarebbero stati gettati sui campi di battaglia francesi per assicurare la vittoria all’Intesa. Anche in questo caso, la storia si ripete: come accadrà di nuovo nel 1941, la finanza americana non poteva certo permettere, nel 1917, che una eventuale sconfitta della Gran Bretagna rendesse inesigibili i cospicui prestiti che Wall Street aveva fatto ai colleghi della City londinese. E ciò a dispetto del fatto che Wilson avesse impostato la campagna elettorale per la sua rielezione alla presidenza sul motivo di un categorico rifiuto a portare gli Stati Uniti nella prima guerra mondiale. (5)

Note

  1. Paolo Mereghetti, lapidariamente, parla di “smitizzazione della retorica militare in un film verboso e con poca azione” (Il Mereghetti, ed. 2.000, Milano, baldini & Castoldi, ) p. 434, giudizio col quale non concordiamo perché l’opera, a nostro avviso, pur con taluni innegabili difetti, svolge una riflessione di ruvida sincerità sul binomio eroismo/vigliaccheria, e sia la sceneggiatura che gli interpreti sono all’altezza del compito che il regista si è dato.
  2. Cfr. Lamendola, Francesco, Un’infamia operaia: i «battaglioni rossi» antizapatisti, 1915-16, in Umanità Nova del 23 aprile 1989; e Lamendola, Francesco, Messico 1915: e se il popolo non ci segue, in Umanità Nova, del 6 maggio 1989.
  3. Sulla vicenda diplomatica del “telegramma di Zimmermann” si veda Silvestri, Mario, La decadenza dell’Europa occidentale, Milano, Rizzoli, 2002 (2 voll.), I, pp. 313-17. Riportiamo qui il testo completo del dispaccio: “Da Berlino a Wahington. W 158, 16 gennaio 1917. Segretissimo. Per informazione personale di vostra Eccellenza [Bernstorff, ambasciatore tedesco a Washington] e per essere trasmesso per la via più sicura al rappresentante imperiale a Mexico [von Eckhardt]. Il 1° febbraio abbiamo intenzione di scatenare la guerra sottomarina a oltranza. Tenteremo, ciò malgrado, di mantenere gli Stati Uniti nella neutralità. In caso contrario, facciamo al Messico una proposta di alleanza sulle basi seguenti: fare insieme la guerra, fare insieme la pace, generoso appoggio finanziario, restando inteso che il Messico debba recuperare i territori perduti del Texas, del Nuovo Messico e dell’Arizona. La definizione dei particolari è lasciata alla sua iniziativa. Lei informerà di quanto sopra il presidente del Messico con la massima segretezza, non appena l’entrata in guerra degli Stati Uniti sarà certa e gli suggerirà inoltre di invitare di sua iniziativa il Giappone a dare la sua adesione, opponendo nel frattempo la sua mediazione fra il Giappone e noi. Voglia attirare l’attenzione del Presidente sul fatto che l’impiego a oltranza dei nostri sottomarini offre ora la possibilità di obbligare l’Inghilterra a deporre le armi in pochi mesi. Accusi ricevuta. (Firmato:) Zimmermann [il ministro degli Esteri tedesco].”
  4. Scrive, un po’ ingenuamente, Renato Rinaldi in Storia degli Stati Uniti d’America, Roma, Armando Curcio Editore, 1963 (2 voll.), I, p. 438: “Il 1° marzo [1917] l’affare era di pubblico dominio. La Germania per suo conto confermò la notizia e non si curò di attutirne gli effetti. L’insidia tedesca scosse profondamente l’opinione pubblica: le reazioni furono tali da travolgere ogni programma prudenziale di Wilson. Il pericolo del militarismo prussiano apparve da vicino nei suoi foschi colori: la Germania era deliberata a reprimere con la forza la libertà dei mari e, in previsione delle naturali reazioni americane, essa preparava l’insidia, la minaccia, profittando di ogni focolaio di discordia per far divampare la guerra. L’ostilità tedesca era rivolta contro i punti più delicati della politica degli Stati Uniti: la libertà dei mari, la Dottrina di Monroe, tradizionalmente contraria a ogni ingerenza europea nel continente americano.” Il minimo che si possa dire di questa prosa è che essa presenta le ragioni particolari dell’imperialismo americano come “verità” storica assolutamente obiettiva. Non si dice che quella famosa “libertà dei mari” significava, in pratica, la libertà della flotta britannica di ridurre alla fame le popolazioni dell’Europa centrale, mediante il blocco marittimo; né che la ‘dottrina di Monroe’ esigeva che solo gli Stati Uniti potessero interferire e spadroneggiare negli affari interni dei Paesi latino-americani. E infatti già nel 1914, durante il breve e sanguinario regime di Victoriano Huerta (succeduto a Madero dopo gli intrighi dell’ambasciatore americano, che ne avevano provocato l’assassinio) l’esercito statunitense era sbarcato a Veracruz, violando la sovranità del Messico.
  5. Perfino gli storici S. E. Morison e H. S. Commager, nella loro tendenziosa Storia degli Stati Uniti d’America (Firenze, La Nuova Italia, 1974, 2 voll., II, p. 629, ammettono che la campagna presidenziale del 1916 fu giocata da Wilson al motto: “è lui che ci ha mantenuti fuori della guerra”, per poi rovesciare tale indirizzo neutralista non appena rieletto.

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