La questione Custer

Giudizi affrettati
Le considerazioni dei paragrafi precedenti non tolgono nulla alla capacità, all’abilità tattica ed allo spirito combattivo degli Indiani, sebbene essi fossero in numero superiore rispetto agli avversari. La loro vittoria è incontestabile, così come lo sono gli errori tattici commessi sia da Custer che dai suoi ufficiali.
Ad un attento esame, il comportamento del maggiore Reno e del capitano Benteen non sembrano infatti esenti da critiche, anche perché la loro versione dei fatti contrasta a volte con le dichiarazioni rese da altri testimoni.
Custer sui giornali del west
Una delle preoccupazioni maggiori di storici e giornalisti – a dimostrazione di come l’evento interessasse più sotto l’aspetto suggestivo, che nella sua reale drammaticità e portata storica – è stata quella di scoprire quale guerriero avesse ucciso George Armstrong Custer. Naturalmente questo merito è stato rivendicato da molti capi e semplici combattenti, senza che nessuno ne abbia mai fornito una prova decisiva. In verità, come asserisce la quasi totalità degli Indiani, nessuno conosceva personalmente il “generale” e coloro che lo avevano visto almeno una volta non lo ricordavano così bene. Lapidariamente, Toro Seduto dichiarò, dal suo esilio canadese: “Non sapevamo nemmeno chi fosse Custer” e diversi altri la pensavano come lui. Sul “New York Herald” del 16 novembre 1877 precisò comunque: “La mia gente non volle il suo scalpo…Perché era un grande capo”. Riferisce Gambe di Legno che soltanto dopo il massacro, alcuni Cheyenne sostennero di avere saputo dai loro contribali del Sud presenti alla battaglia, che si trattava dello stesso uomo che aveva conquistato il loro accampamento sul Washita, otto anni prima, uccidendo Pentola Nera e Piccola Roccia.
Un altro mistero è che il corpo di Custer, per quanto deturpato dalle ferite, non venne scotennato, né mutilato come toccò alla maggior parte dei caduti. La spiegazione offerta dagli studiosi del Little Big Horn – che gli Indiani, ammirati dal suo valore, lo avessero risparmiato – non è convincente ed è sconfessata dalle abitudini stesse dei Pellirosse che, come sostiene Toro Bianco, “facevano a pezzi più volentieri i capi avversari, perché erano quelli che seminavano maggiori guai”. Cavallo Pazzo raccontò all’agente della sua riserva, Valentine Mc Gillycuddy, dopo l’internamento a Fort Robinson, che soltanto 3 cadaveri erano stati risparmiati dallo scempio: quelli di Custer, del capitano Myles Keogh e dell’interprete negro Isaiah Dorman. Su quest’ultimo vi è la conferma di Gambe di Legno, ma anche la smentita di altri guerrieri. Ad ogni modo, secondo Cavallo Pazzo, Dorman fu risparmiato dalle donne, “alle quali spettava il rituale della mutilazione” poichè lo conoscevano come un amico, Keogh perché portava una medaglietta al collo che i Sioux “ritennero sacra” e Custer perché egli stesso “aveva dato ordine che il suo corpo non venisse toccato, essendo il soldato-capo”.


La croce di legno nel punto in cui cadde Custer

E’ inutile sottolineare che tutte queste spiegazioni, spesso in contrasto con altre, si prestano a discussioni.
Un’altra ipotesi è quella del suicidio di Custer, che sarebbe stato un valido motivo per risparmiarne i resti, in quanto gli Indiani avevano timore di chi si dava la morte da sé, ma neppure ciò trova conferma, perché la ferita decisiva inferta al “generale” fu aperta su di un fianco. Il foro scoperto nella testa era inoltre localizzato nella parte sinistra, poco dietro la tempia e non risulta che Custer fosse mancino.
Comunque sia, allorchè vennero esumati alcuni cadaveri dalle fosse del Little Big Horn per trasferirli altrove, l’esploratore Thomas H. Le Forge osservò che il corpo del “generale” si presentava “meno a pezzi di quello di ogni altro ufficiale”. Resta ovviamente da individuare il motivo per cui Custer non subì la macabra sorte di tanti altri suoi compagni.
Nel mio libro “Monahseetah e il generale Custer”, pubblicato nel 2005, ho avanzato un’altra possibilità che, per quanto possa sembrare ispirata dal romanticismo, non è da considerarsi del tutto assurda.
Forse fu proprio la ragazza cheyenne ad impedire che il grottesco rito venisse compiuto. E’ certo che Monahseetah conosceva Custer molto bene, come pure Mahwissa, sua zia, anch’essa presente sul luogo della battaglia. Entrambe lo conoscevano molto meglio di Toro Seduto, di Cavallo Pazzo e di tutti gli altri guerrieri che ne parlarono pur non avendolo mai visto di persona. Probabilmente, soltanto loro due ne rammentavano la figura, l’espressione, lo sguardo di ghiaccio che indicava un uomo indomito e risoluto ed è sostenuto da testimoni che furono due donne a salire sul colle dell’ultima difesa di Custer, sostando per un po’ davanti ai corpi dei caduti.
Quanto al dubbio che la figlia di Piccola Roccia fosse presente o meno al Little Big Horn, diversi guerrieri cheyenne e sioux asseriscono che ella si trovasse lì, accompagnata dal giovane figlio Rondine Gialla (o Uccello Giallo) avuto dalla passata relazione con il “generale”. In una intervista concessa allo scrittore David Humphreys Miller nel 1937, il guerriero oglala White Cow Bull sostenne addirirttura di averla inutilmente corteggiata, mentre lei si trovava al campo insieme ai Cheyenne, proprio sulla direttiva d’attacco del battaglione di Custer. Altri combattenti, come Orso Coraggioso, affermarono la medesima cosa.
Se vi possa essere un’altra spiegazione, gli storici non l’hanno mai trovata, anche perché quasi certamente, fidandosi delle dichiarazioni degli Indiani, non l’hanno neppure cercata.
Ma la questione di Custer, con le sue decine di interrogativi rimasti senza una risposta esauriente, non è certo conclusa.
Il fatto stesso che il “dossier” relativo a questo evento sia rimasto archiviato come “top secret” al Dipartimento della Guerra per oltre settant’anni – fu il colonnello Walther Alexander Graham ad accedere, nel 1952, al polveroso incartamento contenente anche gli esiti dell’inchiesta condotta dopo la battaglia – la dice assai lunga. Anche la definitiva riabilitazione di Reno, ottenuta dai pronipoti del maggiore nel 1967, oltre novant’anni dopo la tragedia, dimostra quanta incertezza sia rimasta intorno all’episodio anche in tempi moderni.
La verità completa, a tutt’oggi, non la conosce sicuramente nessuno.
Continuare a discutere della battaglia e del personaggio con il solo scopo di dimostrare da quale parte fosse la ragione – come si fatto spesso nei processi storici – non recherebbe certamente un contributo alla chiarificazione dell’evento, né ad una conoscenza più approfondita del suo protagonista.
Sorprende pure che molti giudizi negativi, di incapacità ed ottusità dimostrate da Custer, siano stati espressi da personaggi che non avevano mai dovuto misurarsi sul campo né con i Confederati, né con gli Indiani. Il “generale”, quali che siano stati i suoi difetti, si trovò sempre a cavalcare in prima fila davanti alla sua cavalleria, tanto nella guerra di secessione, quanto nelle battaglie contro Cheyenne, Comanche, Kiowa, Sioux e Arapaho, mentre altri militari se ne stavano forse al sicuro nelle retrovie, oppure dietro una scrivania.


Il funerale del generale

Al di là del fatto contingente del Little Big Horn e dell’estrosità della figura di Custer, la disfatta militare subita nel Montana e la morte di tanti uomini vanno ricercate in un contesto di responsabilità e di manchevolezze assai più ampio.
La spedizione del 1876 era stata organizzata in maniera frettolosa e avventata, sottovalutando la minaccia costituita dalla coalizione indiana. La previsione di una campagna lunga e difficoltosa non rientrava assolutamente nei piani del Dipartimento della Guerra, né della Divisione Militare del Missouri. La precipitosa ritirata del generale Crook, che aveva ai suoi ordini oltre il cinquanta per cento delle forze impegnate contro Sioux e Cheyenne e l’improvvisato piano di Terry, che non conteneva veri e propri ordini, ma solo indicazioni vaghe, si aggiunsero alla catena delle cause di un insuccesso annunciato. Infine, non può sfuggire che il Settimo Cavalleria, composto da 45 ufficiali e 718 uomini prima della partenza da Fort Lincoln, nel Dakota, si trovasse privo, in zona d’operazioni, di ben 14 ufficiali e 152 sottufficiali, graduati di truppa e soldati, quasi un quarto della sua forza. Qualche ufficiale presente in organico, non aveva mai effettivamente militato nel reggimento neppure per un giorno.
Volendo concludere con amara ironia, ci sarebbe da fare una seria riflessione sul titolo di un famoso libro di Vine Deloria: “Custer è morto per i vostri peccati”.

Si può leggere sull’argomento:

Raffaele D’Aniello, “Little Big Horn. Il popolo dei Sioux contro Custer”
Domenico Rizzi, “Il giorno di Custer”
Domenico Rizzi, “Monahseetah e il generale Custer”
John G. Neihardt, “Alce Nero parla”
Thomas B. Marquis, “Gambe di Legno. La lunga marcia verso l’esilio”
Louise Barnett, “Custer. L’ultimo eroe”

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