La questione Custer

Errori di valutazione
Custer è stato più volte criticato per avere frazionato il suo reggimento in quattro battaglioni distinti, diminuendo presumibilmente la forza d’urto della formazione. Il maggiore Marcus Reno dovette lottare diversi anni per allontanare da sé i sospetti di codardia, per non avere soccorso il suo superiore, mentre il capitano Frederick Benteen lasciò il Little Big Horn come l’eroe che aveva impedito la completa distruzione del Settimo Cavalleria.
Si tratta di giudizi emotivi ed affrettati, spesso influenzati dalla pessima immagine che i politici e la stampa presentarono del “generale” Custer.
Non è infatti esatto che egli sia stato osannato per molto tempo come un eroe. Fin da quando la notizia del massacro si diffuse in tutta la nazione, al comandante del Settimo Cavalleria non vennero risparmiate critiche feroci. Ulysses Grant dichiarò sul “New York Herald” di ritenere la sconfitta “un inutile sacrificio di uomini, del quale considero responsabile lo stesso Custer”. Altre voci si associarono all’opinione del presidente degli Stati Uniti e Alfred Terry, diretto superiore del “generale”, scrisse a Sheridan che “Custer agì in maniera errata” attaccando gli Indiani “senza che i suoi uomini fossero pronti”.
Invece Frederick Benteen, come si è detto, era uscito dalla vicenda come un eroe, nonostante che sul suo comportamento permangano alcune grosse perplessità, evidenziate anche dall’autrice Louise Barnett (“Custer. L’ultimo eroe”).
Custer e la moglie nel 1860
Il capitano aveva effettivamente eseguito gli ordini di Custer, compiendo una ricognizione sulla sinistra della sua colonna, tornando poi alla direttiva di marcia principale, ma la sua manovra era stata effettuata, secondo alcuni dei suoi subordinati, con eccessiva lentezza. Inoltre, dopo avere ricevuto il trafelato trombettiere John Martini, latore del messaggio di aiuto scritto dal tenente Cooke (“Benteen, venite subito. Grosso villaggio. Fate presto. Portate le munizioni”) l’ufficiale preferì aspettare di riunirsi al reparto di Reno in ritirata, per poi attendere insieme il ricongiungimento alle salmerie di Mc Dougall.
Martini riferì più tardi che, dalla posizione in cui si trovavano i due battaglioni riunificati “si sentivano molti spari lungo il fiume” per “mezz’ora e forse di più”, che “sembrava una grande battaglia e gli uomini pensarono che fosse il generale Custer che stesse annientando gli Indiani” aggiungendo che “avremmo tutti voluto correre in suo aiuto, ma non ci lasciarono andare…Il capitano Weir ebbe un colloquio con il colonnello Reno e, da come si muoveva, si capiva che era inquieto ed arrabbiato. Agitava le braccia, gesticolava e indicava il fiume”.
Chiaramente, Thomas Weir, comandante della compagnia D, intendeva soccorrere Custer e dopo il rifiuto di Reno, prese con sé i propri uomini e partì per portare aiuto al battaglione del “generale”. A questo punto, tardivamente, Reno e Benteen decisero di seguirlo, ma dopo un po’ tutti i reparti si trovarono la strada sbarrata dal fuoco avversario e dovettero ripiegare. Anche su questo episodio Benteen diede una versione in netto contrasto con quella di Martini, scrivendo, in una lettera alla moglie che la compagnia di Weir “fu mandata avanti per comunicare con Custer, ma venne respinta”. Un’altra affermazione che il trombettiere napoletano smentì anni dopo è quella resa da Benteen davanti al tribunale militare, di avere interpretato le parole di Martini nel senso che gli uomini di Custer “si fossero impadroniti del villaggio” e che “gli Indiani fossero scappati tutti a gambe levate” (Barnett, op. cit.,). Per questo la Barnett, alludendo a Benteen, sostiene che “la sua testimonianza su questo punto alla commissione d’inchiesta dev’essere stata una menzogna” ritenendo altresì improbabile che un uomo come Martini, che conosceva approssimativamente l’inglese, avesse usato un’espressione come “skedaddling”, significante appunto “a gambe levate”. Lo stesso trombettiere dichiarò in seguito, in un’intervista apparsa sul “Cavalry Journal” del 1923, che la commissione inquirente aveva verbalizzato altre sue dichiarazioni in maniera inesatta o addirittura infedele. E’ comunque certo che Reno e Benteen attesero “per oltre un’ora” l’arrivo della colonna dei rifornimenti, prima di fare qualsiasi mossa in direzione di Custer (dichiarazione di Martini) e che, durante tale lasso di tempo, il battaglione del “generale” era ancora in una fase di resistenza attiva, perché il tenente Francis Gibson scrisse, in una lettera alla propria moglie datata 4 luglio 1876: ”Sentimmo l’unità di Custer battersi a circa cinque chilometri di distanza, davanti a noi, ma era impossibile raggiungerla dal momento che non potevamo abbandonare i feriti né gli approvvigionamenti dell’intera unità” (Barnett, op. cit., p. 332).
Risulta anche difficile credere a questa giustificazione, perché in quel momento i feriti erano suppergiù una quarantina, su un totale di quasi 400 uomini dei tre battaglioni superstiti. L’unica domanda da porsi è se fosse tanto impossibile che metà di tale forza – circa 200 soldati – tentasse di portare soccorso a Custer.
Il mancato o intempestivo soccorso derivò dunque da una decisione presa da Reno insieme al suo stato maggiore. Eppure è probabile che, se gli Indiani impegnati contro le compagnie di Custer si fossero visti giungere alle spalle un altro contingente militare – anche composto soltanto da un centinaio di uomini – avrebbero battuto in ritirata, o quantomeno alleggerito la loro pressione su Custer. Il fatto è che neppure i loro capi sapevano quanti soldati vi fossero nei dintorni e avrebbero potuto aspettarsene molti di più di quelli che componevano il Settimo Cavalleria. Ne è una prova la loro precipitosa ritirata la mattina del 27 giugno, quando i loro esploratori segnalarono l’avvicinamento della colonna del colonnello Gibbon, senza conoscerne l’effettiva consistenza. Infatti, le vedette pellirosse avevano avvistato soltanto il distaccamento d’avanguardia del tenente Bradley, ma tanto bastò ai loro leader per decidere di ritirarsi e lo fecero tanto precipitosamente da abbandonare 60 cadaveri di guerrieri in alcune tende.


Una foto del 1862

Ma esistono altri motivi per far dubitare che la resistenza del gruppo superstite sia stata un’impresa eccezionale, come alcuni autori vorrebbero dimostrare. Questo, naturalmente, senza nulla togliere al valore delle truppe di Reno, Benteen e Mc Dougall.
Innanzitutto, l’annientamento completo del Settimo sarebbe stato un obiettivo, se non del tutto impossibile, alquanto improbabile. Infatti gli Indiani avrebbero potuto ottenerla ad una sola condizione: quella di subire a loro volta la perdita di tutti o quasi tutti i loro combattenti, follia che nessun condottiero pellerossa, né Sioux, né Cheyenne, né di qualsiasi altra tribù, sarebbe stato disposto a commettere.
Allorchè il reparto di Reno si congiunse a quello di Benteen e fu raggiunto poi dalla colonna del capitano Thomas Mc Dougall, recante rifornimenti e munizioni, sulle colline dove si erano trincerati i soldati si concentrò una forza di oltre 350 uomini, aumentata poi a 369 dopo il fortunoso rientro del plotone del tenente italiano, conte Carlo Camillo De Rudio, rimasto tagliato fuori durante la precipitosa ritirata di Reno.
Su queste alture – che hanno “la cima piatta”, secondo un’annotazione di Benteen e come posso confermare io stesso, per averle visitate pochi anni orsono – sulle quali si disposero ordinatamente le truppe delle compagnie A, B, D, G, H, K ed M, che possedevano ancora 25.000 colpi da sparare, sono piuttosto brulle, perché quasi tutto il territorio delle praterie ha tale conformazione, determinata da un clima ventoso e spesso arido, con escursioni termiche che oscillano dai 42 gradi estivi ai 35-40 sotto lo zero d’inverno. Tale caratteristica favorisce la crescita di una vegetazione costituita prevalentemente di cespugliati ed arbusti bassi e particolarmente resistenti, con pochi alberi di medio ed alto fusto. La collina di Reno e Benteen appare anche piuttosto scoscesa da entrambi i lati, quindi senz’altro più difendibile di quella su cui si ritirò il battaglione di Custer per l’ultima resistenza.
Ciò premesso, la distruzione dei reparti riunificati sotto il comando del maggiore Reno non si sarebbe potuta ottenere, da parte degli Indiani, se non con il sacrificio di almeno 1.000 guerrieri, che avrebbero dovuto attaccare ripetutamente, pressochè allo scoperto, esponendosi al micidiale fuoco degli “Springfield”, fucili con una gittata effettiva di oltre 300 metri, armi robuste e molto meno soggette all’inceppamento rispetto ad altre. Quanto alle munizioni, si è già detto che abbondavano.
Infine, Sioux e Cheyenne, dopo avere sterminato i reparti di Custer, disponevano a malapena di 1.000-1.200 guerrieri validi, perché tra morti e feriti ne avevano almeno 300 fuori combattimento. Anzi, prestando fede alla testimonianza di Aquila Assassina, pubblicata il 24 settembre 1876 sul “New York Herald”, sembrava addirittura che gli Indiani “fossero tutti feriti e che erano almeno seicento”.
Condividendo l’ottimo lavoro di ricostruzione effettuato da Raffaele D’Aniello nel libro “Little Big Horn”, pubblicato nel 1995, è quasi certo che inizialmente la coalizione pellerossa potesse contare su oltre 1.700 combattenti potenziali – stima che io ritenni di poco superiore nella mia opera “Tremila cavalieri indiani”, stampata il medesimo anno e ne “Il giorno di Custer”, edito nel 1999 – dei quali però solo 450 erano i guerrieri effettivi. Del resto, autorevoli fonti indiane smentirono le ipotesi che Toro Seduto disponesse di 4.000, 5.000 o addirittura 7.000 uomini, come avevano sostenuto sia Cavallo Pazzo che una certa stampa. Toro Seduto dichiarò, in un’intervista concessa in Canada nel 1877, che al Little Big Horn “non ce n’erano più di 2000” mentre lo storico sioux Ohiyesa dimezzò addirittura tale numero, sostenendo che “non vi erano più di 1.000 guerrieri in battaglia”. Al riguardo è opportuno far notare che l’intera nazione Lakota (i Sioux occidentali) comprendeva a quel tempo circa 14.000 persone, delle quali la metà erano rimaste nelle riserve del Dakota e diverse altre circolavano altrove in bande autonome. Quanto ai Cheyenne settentrionali – che erano 2.000 – al Little Big Horn non potevano essercene più di un migliaio, con circa 200-250 combattenti. Infatti, quando Mano Gialla lasciò la riserva nel successivo mese di luglio, portò con sé 700-800 seguaci, scontrandosi poi con la colonna del colonnello Wesley Merritt al War Bonnet Creek, dove Buffalo Bill gli avrebbe preso lo scalpo. Il numero di Santee, Yankton e Assiniboin Sioux, aggregati alle forze di Toro Seduto era invece del tutto trascurabile, mentre gli Arapaho presenti alla battaglia risultano 6 o 7 persone.


Custer circondato dai suoi fedeli scout

Dunque è corretto pensare che la forza complessiva di guerra degli Indiani oscillasse fra 1.500 e 1.800 guerrieri, che però non presero tutti parte attiva al combattimento, anche perché, dopo l’assalto di Reno, era sorto il problema di proteggere adeguatamente le donne, i bambini e gli anziani.
Con simili premesse e conoscendo la tradizionale prudenza dei Pellirosse, è impensabile che Toro Seduto o qualcuno dei suoi focosi capi di guerra, come Cavallo Pazzo e Gall – intendessero rischiare, nel tentativo di spazzare via Reno e Benteen, perdite tanto elevate da azzerare praticamente la loro forza da combattimento.
Verosimilmente, dopo avere sbaragliato Custer, miravano a tenere il raggruppamento di Reno-Benteen-McDougall in stato d’assedio fino all’esaurimento delle provviste e delle scorte d’acqua – come conferma in una testimonianza anche il capo guerriero cheyenne Orso dei Ghiacci – progetto che venne vanificato dall’approssimarsi della colonna di Gibbon.
Un’ulteriore dimostrazione che la loro consistenza numerica si era sensibilmente ridotta dopo la battaglia principale è l’atteggiamento delle varie bande nelle settimane successive.
Al termine del grande scontro, gli Indiani erano venuti in possesso di alcune centinaia di fucili “Springfield 45/70”, di pistole “Colt 45” e di un’ingente scorta di munizioni, soprattutto di calibro 45, quindi utilizzabili per entrambe le armi, essendo accertato che, fra i caduti di Custer, quasi nessuno riuscì ad esaurire tutti i colpi assegnati e che diversi soldati morirono dopo avere sparato pochissimi proiettili. Se a ciò aggiungiamo che i Sioux disponevano, già prima del combattimento, di circa 300 fucili di vario tipo – “Henry”, “Sharp”, “Winchester”, “Spencer” e moltissimi “Springfield” presi alle truppe del generale Crook otto giorni prima nella battaglia sul fiume Rosebud – e di una settantina di pistole, soprattutto “Colt” a sei colpi, il loro armamento sarebbe salito ora ad oltre 600 armi da fuoco, con una congrua scorta di munizioni. Difatti, al momento della sua definitiva resa a Fort Robinson, la sola banda di Cavallo Pazzo, composta da 889 persone, compresi anziani, donne e bambini, consegnò all’esercito 117 tra fucili e pistole.
Perché dunque la poderosa coalizione indiana si frantumò dopo il 26 giugno, Toro Seduto cercò scampo in Canada e le varie bande presero direzioni diverse, arrendendosi separatamente in pochi mesi? Probabilmente perché Little Big Horn, che pure aveva rappresentato la più gloriosa pagina di storia degli Indiani delle Pianure, era stata per loro una vittoria troppo sanguinosa, nella quale Sioux e Cheyenne avevano perso la maggior parte dei loro migliori guerrieri.

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