La questione Custer

La carriera
La carriera di Custer è stata una delle più discusse della storia.
Iniziata, secondo una prassi comune a quasi tutti i cadetti, con una raccomandazione ed un pessimo esordio all’accademia militare d West Point, proseguì, grazie al conflitto antischiavista, con una serie ininterrotta di successi che portarono il giovane ed oscuro tenente – promosso nel ruolino regolare fino al grado di capitano – a ricoprire gli incarichi dapprima di brigadier generale (comandante di brigata) e poi di maggior generale (comandante di divisione). Terminate le ostilità, su 135 generali che avevano ottenuto queste promozioni per meriti o esigenze operative, il Dipartimento della Guerra ne mantenne in servizio effettivo soltanto 3, riconoscendo a tutti gli altri un “brevetto” che dava diritto a firmarsi con il grado divenuto onorario.


Custer accanto ad un prigioniero sudista

Quindi, nessuna degradazione, come letteratura e cinema hanno spesso fatto intendere, ma un ridimensionamento della funzione dettata da esigenze oggettive, perché l’esercito dell’Unione venne ridotto, al termine delle ostilità con i Sudisti, da 2.800.000 a 56.000 uomini, numero che non giustificava certo il mantenimento in servizio effettivo di tanti generali.
Come Custer, anche tanti altri ufficiali dovettero accettare, seppure “obtorto collo”, tale retrocessione di fatto. E’ il caso di Nelson Miles, di George Crook, di John Gibbon e Alfred H. Terry, che opereranno insieme a lui alla Frontiera, anch’essi insigniti del titolo onorario di “general”, ma con una qualifica funzionale più bassa.
Dunque, alla fine della guerra di secessione Custer era tornato ad essere, come molti suoi colleghi, un ufficiale di rango inferiore, ricoprendo la posizione di capitano. Il suo avanzamento a luogotenente colonnello, deciso nel 1866, fu dovuto alla necessità di assegnare un comandante effettivo, benchè interinale, al Settimo Reggimento Cavalleria di nuova costituzione.
Ancora una volta, dunque, l’incarico affidato a Custer garantiva l’operatività di una formazione inviata nella zona “calda” delle pianure, permettendo al suo comandante effettivo di rimanersene in un’altra sede meno scomoda, mentre il Settimo contrastava, dal 1866 al 1868, le scorribande dei Cheyenne, degli Arapaho, dei Comanche e dei Kiowa nella fase più cruenta della guerriglia nelle Central e South Plains.
La prima, ma non ultima tegola sulla testa del “generale”, arrivò proprio con il fallimento della spedizione di Winfield Scott Hancock, che aveva richiesto l’impiego di 1.400 uomini ed un costo esorbitante per l’erario.


Un momento di relax al campo

L’insuccesso era dovuto al comportamento presuntuoso ed arrogante di un comandante che nutriva grandi ambizioni politiche – sarà infatti candidato alla presidenza degli Stati Uniti con i Democratici nel 1880, battuto di strettissima misura dal rivale repubblicano James A. Garfield – ma non conosceva a sufficienza gli Indiani per potersi misurare con essi.
In simili frangenti, cercare un capro espiatorio costituisce sempre la regola e Custer aveva tutti i requisiti per diventarlo. Era estroso, anticonformista, indisciplinato e irriverente quanto basta per urtare la sensibilità dei superiori e accendere l’invidia dei colleghi. Inoltre, aveva effettivamente commesso alcune mancanze che richiedevano il giudizio del tribunale militare. Se da un lato non poteva dichiararsi “non colpevole” – come invece fece, scegliendo orgogliosamente l’autodifesa – dall’altro le sue azioni erano scaturite dall’esigenza di dover prendere delle decisioni rapide e indifferibili. L’indisciplina regnava sovrana nell’esercito, nonostante l’impegno di molti ufficiali e le severe direttive impartite da Washington. L’ubriachezza durante il servizio aveva condotto migliaia di militari davanti alla corte marziale, le diserzioni superarono, in un certo periodo, il livello massimo immaginabile per un esercito organizzato, raggiungendo addirittura le 8.800 unità su una forza permanente di 25.000 uomini dislocati all’Ovest.
Custer, lo ripetiamo, non era affatto esente da colpe anche di una certa gravità, ma i giudici militari insistettero particolarmente sulla sua figura emblematica, risparmiandogli la radiazione soltanto per i suoi gloriosi trascorsi di guerra. E’ fuori di dubbio, in ogni caso, che egli non avrebbe dovuto essere l’unico a pagare, ma ricercare le effettive responsabilità, anche politiche, sarebbe stata un’impresa davvero ardua. Perciò il “generale ragazzo” se ne tornò a Monroe, profondamente ferito nell’orgoglio e deciso ad abbandonare la carriera militare, scelta che avrebbe certamente imboccato se la moglie Elizabeth Bacon, tanto dolce nei modi quanto caparbia nel carattere, non gliel’avesse impedito.
Poi, quando l’opinione pubblica cominciò ad invocare un intervento più deciso per pacificare le pianure, le autorità militari non intravidero alternativa migliore del suo richiamo in servizio per affrontare la nuova campagna invernale contro gli Indiani. Custer si rimise in viaggio verso il Kansas, riassunse il comando del Settimo Cavalleria – sempre interinalmente – e portò a termine l’operazione che doveva segnare l’inevitabile declino delle tribù stanziate a sud del fiume Arkansas. Infatti, dopo la distruzione del villaggio cheyenne sul fiume Washita, il “generale” condusse varie spedizioni contro i Kiowa, gli Arapaho, i Cheyenne ed i Comanche, ottenendone la sottomissione in pochi mesi, grazie anche all’aiuto prestatogli dalla fedele Monahseetah, divenuta la sua amante.


In missione nelle grandi pianure

Le critiche della stampa e le polemiche sollevate dal capitano Frederick Benteen, colonnello onorario e suo subordinato, non tolgono niente alla efficacia dell’azione di Custer contro il villaggio di Pentola Nera in Oklahoma. I Cheyenne non immaginavano che un uomo potesse condurre un reggimento di 800 uomini attraverso le praterie innevate, con temperature polari, assalendo il loro accampamento. Dal canto suo il generale Sherman, comandante del Dipartimento del Missouri, poteva solo complimentarsi con “l’unico uomo che non lo avesse mai deluso”. Quanto al presunto massacro di donne e bambini, l’azione di Custer non aveva nulla n comune con l’eccidio commesso quattro anni prima al Sand Creek dal colonnello John M. Chivington, dove la milizia del Colorado aveva dato sfogo ai più bassi istinti umani.
Al Washita, i soldati catturarono 53 donne e bambini scampati al combattimento e li scortarono poi verso Camp Supply e di lì alla riserva di Fort Sill.
E’ quasi inutile sottolineare le vessazioni a cui gli Indiani avevano sottoposto le donne catturate tempo prima, da Clara Blinn, ad Anna Brewster Morgan, a Sarah C. White, a Susannah Allerdice e Maria Weichell e molte altre, alcune delle quali furono uccise in maniera atroce per impedirne la liberazione da parte dei soldati. Queste vicende vere, che riassunsi anni fa nel mio libro “Le schiave della Frontiera”, trovarono sempre scarsa attenzione da parte degli storiografi che preferivano puntare il dito sulle atrocità commesse dai Bianchi.
Tatticamente l’operazione del Washita fu condotta in modo ineccepibile e compensò ampiamente i precedenti insuccessi di Hancock. Da un lato sgominò infatti una banda sospettata, a ragione, di avere commesso parecchie incursioni a danno di inermi coloni ed emigranti; dall’altro rappresentò un forte deterrente verso le bande ostili, molte delle quali deposero le armi nel giro di pochi mesi. Le critiche rivolte a Custer di avere assalito proditoriamente un villaggio indifeso, furono stroncate dallo stesso ministro della Guerra, John M. Schofield, che in un dispaccio inviato al luogotenente generale William T. Sherman, scrisse: “Mi congratulo con voi, con Sheridan e Custer per lo splendido successo con cui è iniziata la vostra campagna. Chiedete a Sheridan di mandarmi i nomi degli ufficiali meritevoli di particolare menzione”. Quanto all’accusa di avere piantato in asso il maggiore Joel Elliott, rimasto isolato ed accerchiato dagli Indiani durante la battaglia, si era trattato di un’imprudente sortita dell’ambizioso ufficiale, che di sua iniziativa e senza un ordine specifico, si era allontanato dal reparto con soli 15 uomini gridando: “Sarà la promozione o la bara!”.


Custer, suo fratello e Libbie

In pratica Elliott, desideroso di mettersi in luce per ottenere un avanzamento di grado, cadde in una “wickmunke”, la classica trappola indiana, esattamente com’era accaduto al tenente colonnello Fetterman due anni prima. La speculazione che venne alimentata intorno a questo caso portò soprattutto la firma del capitano Benteen, i cui rapporti con Custer si erano già guastati, non soltanto per le divergenze riguardo alla battaglia del Washita, ma anche per una questione legata a debiti di gioco. Forse, anche per una punta di invidia verso il focoso “generale”, che aveva aggiunto un’altra prestigiosa vittoria al proprio curriculum, assicurandosi inoltre le simpatie della bellissima Monahseetah.

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