Hugh Glass, tra verità e finzione

A cura di Domenico Rizzi

ZZ30A2B353Il recente film “The Revenant”, diretto nel 2015 da Alejandro González Iñárritu, destinatario di 12 nomination che gli sono valsi 3 premi Oscar (miglior regia, miglior attore protagonista Leonardo di Caprio e miglior fotografia di Emmanuel Lubezki) e 3 Golden Globe (miglior film drammatico, miglior regista e miglior attore protagonista) ha riproposto l’incredibile odissea di Hugh Glass, un avventuroso cacciatore di pellicce che compì un’impresa quasi unica nella storia del West.
Glass, nato in Pennsylvania da genitori scoto-irlandesi nel 1783 (secondo altre fonti, nel 1780) – pochi anni prima del più famoso David Crockett, che come lui sarebbe perito di morte violenta combattendo ad Alamo contro i Messicani del generale Antonio Lopez de Santa Anna – raggiunse le selvagge terre situate fra il corso del fiume Platte e l’alto Missouri per dedicarsi alla professione del trapper, all’epoca assai redditizia. Infatti, dopo avere quasi spopolato la selvaggina delle lussureggianti foreste dell’Est, sfruttate ormai dai tempi di John Smith e Pocahontas, le migliori opportunità erano offerte dalle Montagne Rocciose e dagli innumerevoli corsi d’acqua che da esse scaturivano. Qualsiasi montanaro si fosse avventurato ad occidente del fiume Mississippi ripercorrendo la strada tracciata dagli esploratori Meriwether Lewis e William Clark nel 1804-06, si sarebbe imbattuto in un’incredibile abbondanza di castori, lontre, donnole, orsi, cervi, alci e daini, consentendogli di accumulare in breve tempo notevoli somme di denaro con lo smercio delle pellicce.
Di norma, i cacciatori partivano da Saint Louis, nel Missouri, e si dirigevano verso i territori del Nord-Ovest, spingendosi anche oltre la catena delle Rocciose, fino al lontano Oregon. La via maestra, seguita per diversi anni da tutti, era rappresentata dal fiume Missouri, chiamato comunemente il “Grande Fangoso” per i suoi fondali melmosi, che veniva navigato contro corrente fino al Montana. Lungo il tragitto, i mountain men si imbattevano sovente nelle più diverse tribù indiane, dai Lakota-Sioux, agli Arikara, agli Shoshone, che spesso accettavano di effettuare scambi con essi, barattando pellicce in cambio di coperte, armi da fuoco e polvere da sparo. Poiché la maggior parte degli Indiani erano in lotta fra loro, il contatto con i trapper permetteva di ottenere fucili e pistole che li avrebbero messi in una posizione di supremazia rispetto agli avversari. Così facevano i Crow e gli Shoshone, che dovevano difendersi dalle incursioni dei Piedi Neri, armati e sobillati dagli Inglesi del Canada, ma anche dei Lakota-Sioux, di Cheyenne, Arapaho e Ute.


Un trapper si guarda intorno con circospezione

Nel 1822 Glass, dopo aver letto un avviso di reclutamento sulla “Missouri Gazette and Public Adviser”, entrò a far parte della Compagnia delle Pellicce delle Montagne Rocciose, fondata dal maggiore Andrew Henry e dal suo socio William Ashley. I due imprenditori intendevano ripercorrere i sentieri battuti in precedenza da Manuel Lisa, John Colter e John Potts, costruendo una base commerciale alla confluenza fra i fiumi Yellowstone – all’epoca chiamato anche Roche Jaune o Yallerstone – e Missouri. Sfidando la minacciosa concorrenza della Compagnia della Baia di Hudson, operante sul suolo canadese fin dal XVII secolo, i due soci ingaggiarono 100 cacciatori, fra i quali si sarebbero messi in evidenza, oltre a Glass, Thomas Fitzpatrick, William Sublette, Jim Beckwourth, Jedediah Smith, Jim Bridger e più tardi Kit Carson.

GLI ARIKARA

Da Fort Henry, gruppi di trapper navigavano lungo il Missouri a bordo di canoe e imbarcazioni a fondo piatto per procurare selvaggina, entrando talvolta in conflitto con le tribù rivierasche.
Una di esse, gli Arikara, si dimostrò particolarmente ostile nei confronti dei Bianchi, accettando in molte occasioni di effettuare scambi commerciali, ma derubandoli spesso delle loro mercanzie. Per i cacciatori più esperti della compagnia, questi Pellirosse erano considerati inaffidabili perché troppo volubili nel comportamento, ma gli Americani, come era accaduto ai Francesi, agli Spagnoli ed agli Inglesi prima di loro, non avevano ben chiara l’organizzazione tribale degli Indiani. Benchè tutti avessero dei capi politici e si avvalessero di un consiglio per le decisioni importanti, predominavano specialmente fra le tribù nomadi le “società guerriere”, ciascuna delle quali possedeva un proprio condottiero assurto a tale rango per il coraggio e il valore dimostrati in battaglia. A questi leader di guerra, più che alle direttive dei capi politici, obbedivano solitamente i componenti delle bellicose società, soprattutto quando si presentava l’occasione di combattere.


L’attacco degli Arikara ai trapper

A quell’epoca gli Arikara – derivati dagli Skidi Pawnee del gruppo linguistico Caddo, chiamati Ree o Rickaree dai Sioux, ma anche “Indiani del Mais” perché praticavano una rudimentale agricoltura – costituivano una tribù di circa 2.500 anime, dopo averne comprese quasi 4.000 fino a pochi decenni prima e addirittura un numero assai maggiore nei decenni precedenti. I motivi del vistoso calo demografico erano imputabili a vari fattori, non ultimo l’aspra conflittualità che li aveva opposti ai Lakota-Sioux quando questi si erano appropriati prepotentemente delle Black Hills e delle pianure circostanti agli inizi del secolo, massacrando e scacciando da quelle aree tanto gli Arikara che i Mandan, i Crow, alcune bande di Shoshone, i Cheyenne e i Kiowa. Una tribù affine a questi ultimi, i Kwato, che rifiutava ostinatamente di sgombrare il campo, era stata letteralmente annientata dai nuovi invasori provenienti da oriente. Logico dunque che gli Arikara, così come altre tribù spodestate dalle loro sedi, guardassero con sospetto alla nuova minaccia rappresentata dai cacciatori americani.
Il 2 giugno 1823 Hugh Glass si trovò impegnato nel suo primo combattimento importante contro gli Indiani. Fu uno scontro sanguinoso in cui vennero uccisi 14 cacciatori e lo stesso Glass rimase ferito lievemente ad una gamba, mentre gli altri fuggirono a bordo di un’imbarcazione. Ashley, informato dell’episodio, lo segnalò al comando militare di Fort Atkinson, nel Nebraska, dove il colonnello Henry Leavenworth, al comando del Sesto Reggimento Fanteria, allestì una spedizione di 230 soldati ed esploratori per condurre una rappresaglia. Ad essi si unirono 750 Sioux, che non volevano perdere l’occasione di combattere i loro rivali, e 50 cacciatori. Il contingente di Leavenworth raggiunse gli Arikara il 9 agosto, mandando all’assalto i suoi alleati indiani, che tuttavia vennero respinti dalle frecce e dai fucili nemici. Il giorno successivo i militari piazzarono alcuni pezzi di artiglieria e bombardarono l’accampamento nemico, facendo poi avanzare la fanteria, ma l’operazione non ebbe egualmente il successo sperato, per cui l’ufficiale comandante decise il giorno 11 di negoziare la pace.


Un guerriero Arikara

Gli Arikara accettarono, però, non si fidandosi delle promesse dei militari, evacuarono tutte le capanne, dileguandosi alla svelta. Leavenworth ordinò allora di bruciare l’intero villaggio prima di rientrare a Fort Atkinson il giorno di Ferragosto.

IL GRIZZLY

Nel frattempo, una squadra di 80 trapper era partita al seguito di Henry per raggiungere lo Yellowstone dove intendeva riprendere la caccia. Al quinto giorno di marcia, Glass e altri due uomini si separarono dal gruppo per fare provvista di carne, aggirandosi dalle parti del fiume Grand, affluente del Missouri. Verso sera, dopo avere abbattuto un bisonte che avrebbero dovuto trasportare al campo di Henry, si fermarono per riposare e Hugh andò ad abbeverarsi ad una sorgente. Mentre era chino sul ruscello, vide apparire sulla sponda opposta un gigantesco orso grizzly, l’animale più feroce e pericoloso delle montagne, al quale soltanto il bisonte era talvolta in grado di tenere testa. Secondo una descrizione del generale Philip Saint George Cooke, “l’orso grigio, detto grizzly, è dopo gli Indiani il nemico più temibile che il cacciatore incontri nelle Rocciose: il grizzly è il leone delle nostre foreste, il più forte e formidabile degli animali che vi vivono. Pesa circa 200 chilogrammi e i suoi unghioni misurano fino a 8 centimetri…Il grizzly non fugge mai davanti all’uomo, anzi spesso lo attacca…” (PIERO PIERONI, “Il tesoro del West”, Vallecchi, Firenze, 1959, p. 7). Anche nel romanzo di Frederick Manfred dedicato a Glass, viene sottolineata la pericolosità dell’animale: “I grizzly erano imprevedibili. Un giorno un grizzly poteva allontanarsi da un uomo con aria indifferente, e il giorno dopo poteva d’un tratto attaccarlo con uno spaventoso ruggito”(FREDERICK MANFRED, “Lord Grizzly”, Longanesi & C., Milano, 1977, p. 60).
Lo scontro con il feroce animale era dunque praticamente inevitabile.


L’attacco del grizzly (dal film The Revenant)

Mentre i suoi compagni fuggivano, Glass riuscì probabilmente a ferire l’animale con il suo fucile Hawken, ma dovette poi sostenere un accanito combattimento con il grizzly, che riuscì a dilaniarlo in varie parti del corpo prima di soccombere alle ferite causate anche dal coltello del trapper. Le probabilità di sopravvivenza dell’uomo in simili scontri erano minime e Glass era infine prevalso, con la forza della disperazione, sul temibile avversario, ma le sue condizioni alla fine del combattimento erano quelle di un moribondo. Quando finalmente ricomparvero gli altri cacciatori, lo trovarono coperto di sangue e steso al suolo, in attesa della fine imminente. Il maggiore Henry, rendendosi conto delle sue condizioni, che non ne consentivano il trasporto, dispose che un paio di uomini rimanessero a vegliarlo finchè non avesse esalato l’ultimo respiro, mentre il resto del gruppo sarebbe proseguito verso la sua destinazione. I due volontari, a favore dei quali venne aperta una colletta raccogliendo 80 dollari di premio, furono John S. Fitzgerald e il diciannovenne James Felix Bridger, detto Jim, che era nato il 17 marzo 1804 a Richmond, in Virginia. Henry era convinto che la loro sosta non sarebbe stata troppo lunga, poiché il decesso di Glass era soltanto questione di ore. Si sbagliavano entrambi, sottovalutando l’incredibile fibra della vittima, per nulla rassegnato a lasciare questo mondo anzitempo.
Dopo che i trapper furono ripartiti, i due uomini lasciati di guardia assistettero il ferito per un paio di giorni, augurandosi che il Cielo ponesse fine ai suoi tormenti entro il minor tempo possibile. Aveva una gamba maciullata e la schiena devastata dalle unghie dell’animale e presto sarebbe sopravvenuta la cancrena a stroncare il suo fisico possente. Invece l’agonia si protrasse al di là di ogni aspettativa, lasciando i due cacciatori sempre più sgomenti e disorientati. Ad un certo punto, però, parve che Glass avesse cessato di vivere o stesse per farlo entro pochi minuti. Fitzgerald e Bridger si consultarono e decisero che fosse giunto il momento di andarsene, essendo svanita ogni speranza per il moribondo. Comunque, ciò che accadde veramente rimase sempre un mistero, dal momento che in seguito nessuno dei due ne rivelò i particolari, insistendo sulla tesi che Glass avesse esalato l’ultimo respiro. Convinti di ciò, si impossessarono del fucile del cacciatore e del suo coltello, lasciandogli soltanto una scorta d’acqua e allontanandosi rapidamente da quella pericolosa zona per tentare di ricongiungersi alla spedizione di Henry.


L’incredibile avventura di Hugh Glass

Da quel momento, l’irriducibile Hugh dovette fare tutto da solo, contando esclusivamente sulla propria determinazione, che lo avrebbe spinto a compiere un’impresa ai limiti delle possibilità umane.

IL REDIVIVO

Resosi conto di essere stato definitivamente abbandonato al suo destino, l’uomo fece ogni sforzo per risollevarsi dalla posizione sdraiata, finché non vi riuscì al prezzo di atroci sofferenze. L’orso gli aveva dilaniato una spalla e una coscia e la schiena stava andando letteralmente in putrefazione, tuttavia Glass rimase tenacemente aggrappato alla vita. Strisciando sulla parte del suo corpo rimasta sana, si allontanò da quella zona, riuscendo a percorrere finanche un miglio al giorno. Non appena trovò sul suo cammino un tronco marcescente infestato dalle formiche, vi si stese sopra, lasciando che gli insetti divorassero le sua carne in decomposizione per arrestare la cancrena. Quindi si fabbricò una rudimentale gruccia con dei bastoni e cominciò a muoversi in posizione eretta, dirigendosi verso il villaggio arikara che le truppe di Leavenworth avevano distrutto e incendiato. Riuscì nel suo tentativo dopo 40 giorni, cibandosi lungo il tragitto di tutto ciò che riusciva a trovare, dalle bacche commestibili alle radici, e abbeverandosi alle pozze d’acqua che trovava. In un’occasione, sorprese due lupi che stavano sbranando la carcassa di un bisonte, li mise in fuga con urla disumane agitando un bastone e si cibò della carne del bovide.
Nell’accampamento evacuato, Glass trovò soltanto un cane di razza Hare, che non aveva seguito gli Indiani nella loro fuga. Il cacciatore cercò di guadagnarsi la sua amicizia per avvicinarlo a sé e poi lo uccise, procurandosi per alcuni giorni la carne con cui sfamarsi. Riprendendo la sua marcia verso il fiume Missouri, incontrò una banda di Sioux che, proprio per l’imprevedibilità del carattere dei Pellirosse, gli diedero ospitalità e lo curarono. La sua schiena era tanto malridotta che brulicava di vermi e il pericolo di cancrena era di nuovo molto elevato. I Sioux, dopo avergli lavato le ferite, gli spalmarono un unguento con proprietà astringenti, poi lo tennero presso di loro, nutrendolo fino a quando non si rimise in forze. Infine lo accompagnarono fino alla foce del Little Missouri, 80 miglia più a valle del loro villaggio.
L’obiettivo del cacciatore era di raggiungere il fiume Missouri, che avrebbe navigato seguendo la corrente fino a raggiungere l’avamposto di Fort Kiowa, che sorgeva a nord del punto di confluenza del fiume White, nell’attuale Stato del South Dakota. Raggiunto il traguardo, Glass lavorò febbrilmente per fabbricare una zattera e quando fu sicuro che potesse trasportarlo senza sfasciarsi, vi salì ed iniziò a discendere il Missouri, procurandosi di tanto in tanto del pesce crudo per sostentarsi. Quando approdò nelle vicinanze di Fort Kiowa, aveva percorso 200 miglia (320 chilometri) impiegando alcuni mesi. Il suo racconto suscitò molte perplessità, ma dopo che Fitzgerald e Bridger se ne furono andati via, non vi erano altri testimoni di razza bianca che potessero smentirlo.


In viaggio verso la salvezza

Rimessosi sufficientemente in forze, il redivivo trapper accettò di unirsi ad una spedizione di cacciatori francesi guidata da un certo Longevan, che intendeva risalire il Missouri con un barcone del tipo Mackinaw per commerciare in pellicce con i Mandan Sioux, ignorando che questi avessero dato ospitalità agli Arikara assaliti dall’esercito. Dopo circa un mese, alla fine di ottobre, i cacciatori erano giunti vicino alla confluenza del Little Missouri, a circa 20 miglia dal villaggio dei Mandan e imprudentemente si accamparono sulla riva. Glass si allontanò dal gruppo, fermandosi in un boschetto di salici e per la seconda volta ebbe una grande fortuna. Infatti, un centinaio di Arikara assalirono di sorpresa i trapper, uccidendoli uno dopo l’altro con frecce, lance e fucili. “Gli Indiani” scrive ancora Cooke “balzarono sulle loro vittime e le mazze e i tomahawk finirono un lavoro che era stato così spaventosamente incominciato. Gli Arickara si tuffarono nel sangue; con gesti orribili e movimenti convulsi fecero a pezzi i corpi senza vita dei Bianchi; poi ritornarono al loro campo, saltando come neri demoni eccitati dalla vendetta, inzuppati di sangue e portando ciascuno, come trofei di un brutale successo, pezzi di carne umana.” (PIERONI, op. cit., p. 13). Ma anche per Glass non fu facile allontanarsi da quel luogo di morte, perché, quando credeva che gli Arikara fossero ormai lontani, fu intercettato da una loro vedetta. Il cacciatore sparò all’Indiano, che tuttavia riuscì a balzargli addosso, lottando avvinghiato con lui fino a quando le forze lo sorressero. Il colpo di Glass era infatti andato a segno e dopo qualche istante di lotta, il trapper si ritrovò addosso il corpo dell’avversario ormai inerte.
Dopo aver ripreso il viaggio a piedi, il sopravvissuto venne avvistato da un Mandan a cavallo, diretto verso l’accampamento degli Arikara. Con una decisione che sembrava incomprensibile, il Pellerossa si avvicinò ed invitò Glass a salire in groppa dietro di lui, conducendolo al proprio accampamento anziché consegnarlo ai suoi nemici.
I Mandan accolsero il cacciatore come un ospite, trattandolo con riguardo e offrendogli cibo e acqua. Dopo una sosta di qualche giorno, Glass decise di rimettersi in marcia per raggiungere Fort Henry, situato 300 miglia più a nord vicino alla foce del fiume Yellowstone. Nonostante i rischi che, essendo da solo, avrebbe corso, si era probabilmente convinto di essere protetto da una buona stella e non esitò ad affrontare la nuova impresa. “Come armi” racconta Cooke “aveva il fucile, una piccola scure e il coltello; l’abito era composto da una coperta, da una camicia di lana, da calzoni e mocassini di cuoio e da un berretto di pelliccia; completavano il suo equipaggiamento un’altra coperta, un paio di mocassini di ricambio e una pentola, il tutto sospeso sulle spalle. Avrebbe dovuto attraversare una regione infestata dagli indiani Piedi Neri” (PIERONI, op. cit., p. 16)

Cooke considera erroneamente questo gruppo di tribù – composta da Siksika, Kainah e Piegan – composta da 8.000 guerrieri, il che fece pensare, ai suoi tempi, che i Piedi Neri comprendessero una popolazione di 40.000 persone. In realtà la loro consistenza numerica era assai inferiore, perché, secondo l’esploratore Alexander Henry, che aveva visitato i loro villaggi nel 1809, i tre raggruppamenti insieme possedevano a malapena 700 tende, con un numero complessivo di 5.400 abitanti, dei quali i guerrieri non erano più di 1.500 (JOHN C. EWERS, “I Piedi Neri”, Milano, 1997, p. 41). Ciò non toglie che si trattasse di uno dei popoli più agguerriti del Nord-Ovest, nemici giurati tanto dei Lakota-Sioux quanto di Crow, Shoshone e Testa Piatta e fieri avversari degli Americani, in quanto, come sostiene ancora Cooke, venivano “incitati dai trafficanti inglesi” (PIERONI op. cit., p. 16) del Canada. Della loro ferocia aveva fatto le spese per due volte John Colter, salvandosi per un pelo e decidendo saggiamente di lasciare per sempre quel “maledetto West”.
Tuttavia, la buona sorte fu ancora una volta con l’intrepido cacciatore.

IL PERDONO

Nella sua avanzata verso Fort Henry, egli incontrò soltanto un’immensa mandria di bisonti, che impiegò un paio di giorni a transitare obbligandolo a fermarsi per un tempo equivalente, perché “durante certi periodi dell’anno” afferma Cooke “è possibile vedere, con un solo sguardo, anche centomila di questi animali.” (PIERONI, op. cit., p. 16).
Attraversato il Missouri con una zattera da lui costruita con tronchi d’albero legati insieme e corteccia, Glass arrivò finalmente al forte, ma lo trovò deserto, perché Henry e i suoi uomini avevano risalito lo Yellowstone fino al punto di confluenza con il Big Horn, per creare un nuovo avamposto. Ancora una volta il cacciatore non si diede per vinto, seguendo a ritroso il corso dello Yellowstone fino a trovare la postazione, dove nessuno si aspettava più di ritrovarlo vivo. Il più sbigottito fu ovviamente Jim Bridger, che si preparò a subire la sua vendetta, ma Glass si dimostrò più umano di quanto temesse il giovane trapper, perdonandolo. In realtà, l’uomo che maggiormente egli desiderava ritrovare era Fitzgerald, ritenuto il maggior responsabile del suo abbandono e del furto delle sue armi. Lo avrebbe ritrovato più tardi durante una sosta a Fort Atkinson, dopo avere saputo che il cacciatore si era arruolato nell’esercito. Anche in questa circostanza, Glass rinunciò ad ucciderlo, ottenendo, in presenza di un capitano della guarnigione, la restituzione del suo Hawken. A Fitzgerald diede tuttavia un severo avvertimento, dicendogli che se si fosse congedato, l’avrebbe cercato, scovato e ucciso.


Una replica del fucile di Hugh Glass

Mentre di quest’ultimo trapper le cronache della Frontiera non lasciano che scarni riferimenti, Bridger diventò in seguito un esperto esploratore, commerciante e guida dell’esercito, partecipando ad una spedizione al Gran Lago Salato nel 1824-25 e ad altre sulle Montagne Rocciose, visitando fra l’altro la zona che corrisponde oggi al Parco Nazionale dello Yellowstone, già scoperta da John Colter ai primi dell’Ottocento. Audace, abile ed anche un po’ spaccone – si era creato una fama di bugiardo incallito per alcune storie che raccontava a cacciatori ed emigranti – nonché inviso ai Mormoni che emigravano verso lo Utah, si sarebbe ritirato dalla vita attiva nel 1868 dopo avere servito come capo-scout alle truppe del colonnello Henry B. Carrington a Fort Philip Kearny, spegnendosi di malattia il 17 luglio 1881 nei pressi di Kansas City, nel Missouri, all’età di 81 anni.

LA MORTE

Le successive vicende riguardanti Hugh Glass lo videro nuovamente impegnato nel 1824 in una missione ricognitiva, insieme ad altri cacciatori di Ashley, lungo il fiume Powder, affluente dello Yellowstone e successivamente sul fiume Platte, che il gruppo navigò a bordo di un bull boat – un’imbarcazione simile ad una canoa di larghezza maggiore, costituita da un’intelaiatura di legno rivestita di pelli di bisonte – fino alla confluenza del fiume Laramie. In questa regione i cacciatori incontrarono un villaggio di 38 capanne, che ritennero erroneamente appartenenti ai Pawnee, mentre si trattava ancora degli Arikara, che li assalirono uccidendone due e mettendo in fuga gli altri. La spedizione riuscì a ritornare più tardi a Fort Kiowa.
Non ancora pago di quanto aveva dovuto affrontare e dei pericoli scampati, qualche anno dopo Glass, che si diceva avesse sposato una donna dei Mandan, si mise a disposizione di Fort Union, costruito nel 1828 dalla compagnia di John Jacob Astor alla confluenza dei fiumi Yellowstone e Missouri, nella fascia di confine fra gli odierni Stati del North Dakota e del Montana. Per alcuni anni l’uomo continuò a svolgere più o meno tranquillamente la propria attività venatoria, ma un giorno la fortuna che gli aveva arriso tante volte lo abbandonò completamente durante la sua ultima arrischiata impresa.
Nella primavera 1833, mentre si aggirava con due compagni fra la natura ancora gelata intorno allo Yellowstone, dovette fronteggiare un improvviso attacco degli Arikara, che questa volta ebbero ragione del gruppo, sterminandolo. Glass aveva 50 anni (53 secondo altri biografi) e la sua avventurosa esistenza si concludeva tragicamente, dopo essere riuscito a salvarsi più di una volta per il rotto della cuffia. Alla fine, furono proprio i suoi nemici giurati, gli Arikara, a prendergli lo scalpo dopo avergli tolto la vita, ma anche la storia di questa tribù, vessata dai Sioux e più volte colpita da epidemie, volgeva verso un tragico epilogo. Nel 1837 il dilagante contagio del vaiolo nelle Grandi Pianure la falcidiò implacabilmente, riducendola entro l’anno a soli 616 individui.


Una lapide ricorda il grande mountain man

La vita di molti altri cacciatori di pellicce ed esploratori si interruppe, come quella di Glass, in maniera drammatica.
Meno di due anni prima, il 27 maggio 1831, i Comanche avevano ucciso un suo antico compagno di caccia, il trentaduenne Jedediah Smith, mentre guidava una spedizione lungo il fiume Cimarron, nel territorio che oggi fa parte del Kansas. Anche l’afro-americano Jim Beckwourth, originario delle piantagioni della Virginia dove pare fosse nato alla fine del Settecento, venne ucciso dai Crow nel 1866. Infine John Bozeman, ideatore dell’omonima pista che dal Colorado conduceva alle miniere d’oro del Montana, perì per mano dei Piedi Neri il 20 aprile 1867, all’età di 30 anni, mentre si trovava nella regione dello Yellowstone.

LA FICTION

La storia di Hugh Glass si conclude qui, ma la leggenda l’avrebbe alimentata per decenni, facendone uno dei protagonisti di maggior spicco della scoperta, esplorazione e conquista del selvaggio West.
A parte il racconto di Philip Saint George Cooke – che servì l’esercito dal 1827 al 1873, raggiungendo il brevetto di maggior generale – la letteratura si occupò del personaggio soprattutto con l’opera citata di Frederick Manfred, “Lord Grizzly”, pubblicata negli Stati Uniti nel 1954 e edita in Italia nel 1977 a cura di Longanesi & C. nella celebre collana “I classici del West super”. Essendo un romanzo, non sfugge naturalmente alle fantasiose elaborazioni dell’autore, ma rimane tutt’oggi uno dei maggiori riferimenti per chi intenda conoscere l’impresa di Glass.
Il cinema affrontò l’argomento nel 1971 con una produzione inglese, diretta dal regista armeno-americano Richard C. Sarafian, su soggetto di Jack DeWitt, nel film “Man in the Wilderness”, distribuito in Italia con il suggestivo titolo di “Uomo Bianco, và col tuo dio!”. Non è un’opera biografica, dal momento che il protagonista – interpretato dal bravissimo Richard Harris – risponde al nome inventato di Zachary Bass, ma per chi abbia dimestichezza con la storia del West non sussistono dubbi che si tratti di Hugh Glass. Anche gli altri protagonisti assumono nomi di fantasia – tranne John Huston, che impersona il “capitano” Henry – tuttavia le varie fasi della tragedia toccata al cacciatore, dall’assalto dell’orso alla lunga lotta per la sopravvivenza, rispecchiano abbastanza verosimilmente la vicenda. Il film, di 104 minuti, venne girato in parte – evidentemente per ragioni di costi – nella provincia di Soria, in Spagna, in un’epoca in cui imperava ancora lo spaghetti-western che aveva fatto dell’Andalusia il proprio ideale proscenio. Harris è particolarmente convincente nella parte di Bass-Hugh Glass e la sua azione si svolge in un contesto selvaggio che ricorda da vicino quello reale. Purtroppo, il cinema ha esigenze che spesso non consentono di rispettare fedelmente la storia e l’intera vicenda finisce con avere poca attinenza con il reale, pur rimanendo fino ai giorni nostri l’unica opera cinematografica imperniata sulla rocambolesca avventura del famoso cacciatore.
The Revenant” (“Revenant. Il redivivo” nella versione italiana) del 2015 rappresenta il solo remake che sia stato prodotto in tempi moderni del lavoro di Sarafian, questa volta riferendosi ai personaggi storici con i loro nomi autentici. Il regista messicano Iñárritu affida la parte di Glass ad un ambizioso Leonardo Di Caprio, quella del maggiore Henry a Domhnall Gleeson, di Fitzgerald a John Hardy e di Jim Bridger a Will Poulter. La sceneggiatura è dello stesso Iñárritu insieme a Mark L. Smith, la stupenda fotografia di Emmanuel Lubezki e la scenografia di Jack Fisk. Inutile sottolineare che la parte del leone viene assunta dallo stesso Di Caprio che non nasconde di mirare all’Oscar dopo che il prezioso riconoscimento gli è sfuggito in precedenza varie volte.


Di Caprio impersona Hugh Glass in The Revenant

Il progetto è rimasto in incubazione per anni, dopo che nel 2001 il produttore Akiva Goldsman aveva acquistato i diritti del romanzo inedito “The Revenant” di Michael Punke. Nell’arco di un decennio, si sono susseguite proposte alternative rivolte ad attori diversi, sia per la parte principale quanto per i caratteristi, fino a quando Mark Smith non ha scritto nel 2010 la propria sceneggiatura per il film che avrebbe dovuto essere diretto da John Hillcoat, con Christian Bale nella parte di Glass. Infine, nell’estate 2011 è stato Iñárritu ad assumersi il compito della regia, scegliendo Di Caprio per il ruolo del trapper. Il risultato è un film di durata forse un po’ eccessiva – 2 ore e 35 minuti – ma decisamente avvincente e spettacolare, che non risparmia sequenze di crudo realismo avvicinando molto la fiction allo svolgimento storico degli eventi, che pure viene alterato in diversi passaggi e inserendovi qualche personaggio di fantasia. Premi ottenuti a parte, la risposta del pubblico è stata entusiastica, fruttando alla produzione 523 milioni di dollari in pochi mesi, contro i 135 spesi dalla produzione.
Nonostante alcune licenze, quali la vendetta di Glass contro Fitzgerald, che non ha riscontri storici, “The Revenant” rappresenta l’unico vero esperimento di portare sullo schermo la straordinaria avventura, ricostruendone con dovizia di particolari sia l’habitat naturale attraverso le superbe riprese effettuate in Argentina e in diverse località degli Stati Uniti, che l’aspra realtà in cui maturò la sua vicenda. I personaggi sono tutti perfettamente aderenti ai loro clichè quali ci sono stati tramandati dalle testimonianze storiche e possiedono il carattere, l’ostinata determinazione e spesso la crudeltà delle figure di cui sono interpreti. Si ha la sensazione, assistendo alla proiezione, di essere catapultati nello spietato mondo dei mountain men del primo Ottocento, come soltanto A.B. Guthrie li seppe ritrarre nel romanzo “Il grande cielo” del 1947, trasformato in una pellicola di successo mondiale dal regista Howard Hawks nel 1952.


Una curiosa scultura che ricorda Hugh Glass

Gli Indiani del film – gli Arikara, come nella vicenda reale – hanno da tempo abbandonato la veste romantica costruita, sulla scia di “Balla Coi Lupi”, dal cinema western della revisione alcuni decenni fa. Sono esseri selvaggi e minacciosi, che lottano nel loro ambiente minacciato dai cacciatori dalla pelle bianca, così come i trapper, spinti dalla prospettiva del guadagno, risultano poco inclini a comprendere le ragioni delle tribù pellirosse.
Ma i western che si fondano sul realismo, a differenza di molti film classificati come revisionisti e spesso troppo sbilanciati a favore di una parte, prescindono da suggestioni sentimentali e cedimenti emotivi.
Un sacrificio spesso indispensabile a garantire un elevato livello di credibilità della vicenda narrata.

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