Geronimo, l’Apache che difese la cultura del suo popolo

A cura di Luigi Mascheroni
Nella sua lingua nativa, il chiricahua, fu chiamato Goyaalé, «colui che sbadiglia». Mai nome fu meno appropriato. Geronimo, come lo ribattezzarono suoi avversari e come lo conosce la Storia, fu uno dei più feroci e coraggiosi guerrieri che il continente americano conosca.
E che ancora a un secolo dalla morte non smette di incutere timore. Demonio per alcuni e mistico per altri, il capo Apache che ha difeso la cultura dei pellerossa combattendo contro americani e messicani, continua a far discutere. Martedì, anniversario della morte (il 17 febbraio 1909, in Oklahoma), la tribù di San Carlos Apache dell’Arizona renderà omaggio a Geronimo con l’obiettivo di riscattare la sua eredità spirituale e cancellare l’immagine negativa che ancora circola nella cultura popolare degli Stati Uniti attorno all’antico capo guerriero. Apache Chiricahua, Geronimo era nato il 16 giugno 1829 nella tribu Bedonkohe, vicino al fiume Gila, in Arizona.
James Riding, docente di Studi indiani dell’università locale, sottolinea che da molti bianchi Geronimo venne considerato un terrorista, ma per la sua gente è stato un combattente della libertà. «Divenne leggendario per la sua battaglia contro il colonialismo – ha dichiarato di recente il professore – la sua lotta alla testa di un piccolo gruppo per difendere la cultura Apache rappresenta un lascito di resistenza e tenacia». Anche per Marlon Sherman, specializzato in Studi sui nativi nordamericani dell’università du Humboldt, Geronimo è stato un leader spirituale, uno sciamano con una grande esperienza nel campo della medicina tradizionale. Geronimo scese in campo, con le armi in pugno, dopo che 400 messicani guidati da Josè Maria Carrasco trucidarono sua moglie Alope, i loro tre figli e sua madre, nell’estate del 1858. Nella sua autobiografia, Geronimo racconta che, per vendicare i suoi, chiese aiuto al capo Cochise della tribu Chokonen: «Siamo uomini come i messicani e faremo loro ciò che hanno fatto a noi – scrisse – Combatterò in prima fila; vi chiedo solo di seguirmi per vendicare il male che ci hanno fatto i messicani. La mia gente è stata assassinata e io sono pronto a morire, se necessario». Da qui nasce l’immagine a tinte fosche di Geronimo, considerato da molti «un selvaggio sanguinario, crudele e inumano», sottolinea Sherman. Lo studioso osserva poi di non sapere se siano «vere tutte le atrocità imputate a Geronimo, ma in ogni caso non si è voluto fare luce sulle barbarie commesse dai soldati americani e messicani contro gli Apache». A dare una mano è stata anche l’industria cinematografica, con i tanti film sui pellerossa crudeli e disumani.


Una famosa immagine di Geronimo

Anche in «Ballando coi lupi», il film con Kevin Costner che tenta di riscattarne l’immagine, osserva Sherman, il protagonista è comunque «un uomo bianco che è un pellerossa migliore degli stessi pellerossa». Secondo Sherman, a differenza di quanto Hollywood ha mostrato in tante pellicole, Geronimo è stato un capo tenace e intelligente, valoroso e generoso. «Si è sempre considerato un esperto della medicina e della guerra, ma non un capo assoluto – spiega il professore – Era un uomo molto umile nei confronti dei compagni di battaglia». Nella sua autobiografia Geronimo racconta di aver iniziato gli attacchi nell’estate del 1862. La sua vittoria più grande contro i messicani è stata durante la battaglia di Kaskiyeh. Negli anni successivi Geronimo e i suoi uomini sono diventati l’ultimo baluardo dei guerrieri pellerossa che si rifiutavano di riconoscere il governo degli Stati Uniti. Nel 1886, venuto a sapere che i suoi principali luogotenenti erano stati fatti prigionieri, il capo Apache si è consegnato al generale Nelson Miles nel canyon Skeleton in Arizona ed è stato portato a Fort Pickens, in Florida, come prigioniero di guerra. Nei suoi ultimi anni Geronimo ha goduto di una certa celebrità, arrivando a vendere i suoi autografi alla Fiera mondiale di Saint Louis mentre in Arizona chiedevano la sua esecuzione. Sembra che il capo Apache abbia sfilato davanti al presidente Theodore Roosevelt nella cerimonia dell’investitura del 1905. Quanto alla sua conversione dell’ultima ora al cristianesimo, secondo il professor Sherman si è trattato di «convenienza, per mantenere la pace con la sua gente. In privato – assicura l’esperto – ha continuato a professare la sua religione». E Riding è d’accordo con Sherman: «Era Apache nel profondo del cuore». Nonostante Geronimo avesse abbracciato la fede cristiana, non gli venne permesso di tornare alla sua terra natale e il capo Apache morì di polmonite in prigionia, a Fort Sill, in Oklahoma, cento anni fa esatti. «La seconda battaglia di Geronimo è iniziata dopo morto», rievoca infine Riding. Nel 1918 le sue spoglie vennero rubate dalla tomba. Sembra ad opera di una società segreta dell’università di Yale, la «Skull and Bones» alla quale apparteneva anche Prescott Bush, nonno di George W. Alcune ossa del leader Apache sarebbero state usate nei rituali della società segreta. Successivamente, in una lettera, l’università di Yale ha rivelato che i resti di Geronimo erano custoditi in un edificio dell’ateneo. Gli Apache hanno chiesto di riaverli indietro, affinché al loro antico capo venga restituita dignità e Geronimo, secondo le loro credenze, possa finalmente riposare in pace.

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