Il west di Emilio Salgari

A cura di Domenico Rizzi

Emilio Salgari
Anno di ricorrenze importanti, il 2011, quali il 150° anniversario della proclamazione del Regno d’Italia e l’inizio della Guerra Civile Americana, due eventi che ebbero anche qualche personaggio in comune: Giuseppe Garibaldi, il conte Palma di Cesnola e Carlo De Rudio. Ma è anche il centenario della scomparsa di un grande narratore italiano di fama mondiale, che si tolse la vita il 25 aprile 1911. Dalla sua penna erano scaturiti personaggi come Sandokan, Tremal Naik, Kammamuri, la “Perla di Labuan” Lady Marianna, il Corsaro Nero, la sua amata Honorata Van Gould… Si chiamava Emilio Carlo Giuseppe Maria Salgàri ed era nato a Verona il 21 agosto 1862 da padre veronese e madre veneziana. Con il tempo diventò celebre soltanto come Emilio Sàlgari, con questa alterazione di pronuncia nel cognome che pare fosse dovuta ad un errore del re Umberto I, il quale, concedendogli il titolo di Cavaliere della Corona d’Italia, lo salutò “Caro Sàlgari”, con l’accento sulla prima vocale anziché sulla seconda come sarebbe stato corretto.
Fantasioso ed inquieto fin dall’adolescenza, aveva sognato grandi viaggi e prestigiosi traguardi ma, come accadde a Jules Verne, i suoi viaggi sarebbero stati quelli partoriti dalla sua inesauribile inventiva. Iscritto al Regio Istituto Tecnico e Nautico di Venezia nel 1878, non arrivò mai a conseguire il brevetto di capitano di marina, anche se si sarebbe orgogliosamente fregiato di questo titolo per il resto della sua vita. La sua unica escursione fuori dal territorio nazionale si limitò ad una crociera di circa 3 mesi nel Mare Adriatico, fra la Dalmazia e Brindisi, spingendosi forse fino alle isole dell’Egeo. La sua mente raggiunse invece l’India e la Malesia, Sumatra e il Borneo, il Mar dei Caraibi e il Lago di Maracaibo, addentrandosi poi nella fantascienza come H. G. Wells, per scoprire le meraviglie del futuro. Pur essendo un europeo, Salgari riuscì a dare – al pari del tedesco Karl May, dell’irlandese Mayne Reid e del francese Gustave Aimard – il suo significativo contributo alla più eccezionale delle avventure umane, quella della conquista del West. Sebbene abbia scritto più di un romanzo avente come ambientazione le Americhe – “Il re della Prateria” del 1896, “La città dell’oro” del 1898, “I minatori dell’Alaska” del 1900, “I cacciatori del Far-West, continuato e pubblicato postumo nel 1925 da Luigi Motta – la serie western dell’autore si sintetizza nelle trilogia composta da: “Sulle frontiere del Far-West” (1908) “La scotennatrice” (1909) e “Le Selve Ardenti” (1910).
Sulle frontiere del Far West
Salgari si accinse alla loro stesura spinto dallo stesso ardore con cui aveva descritto le imprese del “ciclo malese” e dei Corsari, nonostante che la sua vita, sempre più frenetica e disperata, stesse volgendo verso un tragico epilogo. Annotava infatti il padre di Sandokan di essere ossessionato dalla “febbre dell’oriente che ritorna e dalla cecità”, ma non erano soltanto queste le angustie che lo affliggevano. Dai suoi esordi con “I selvaggi della Papuasia”, pubblicato a puntate quando aveva solo 20 anni, aveva completato 84 romanzi – secondo qualche fonte addirittura 88 – e moltissimi racconti, imponendosi ritmi incessanti e trascorrendo le notti a scrivere al lume di candela. Negli anni della sua maturità era costantemente afflitto dai problemi familiari – aveva 4 figli e la seconda moglie, Ida Peruzzi, un’attrice di teatro, dal 1893 cominciò a dare segni di squilibrio mentale, che l’avrebbero condotta nel 1910 alla completa follia, seguita dall’internamento in un manicomio – e oppresso dai debiti. Inoltre Salgari era rimasto fortemente scosso dal suicidio del padre Luigi, gettatosi dalla finestra nel 1889. Le notevoli difficoltà in cui si dibatteva – soprattutto per le costose cure prestate alla consorte – lo spinsero a sfornare romanzi uno dopo l’altro, che solitamente gli editori gli pagavano anticipatamente come egli stesso richiedeva. Ma i compensi, sebbene ritenuti a volte troppo bassi dallo scrittore, erano di tutto rispetto e gli avrebbero consentito di vivere agiatamente se non si fosse dovuto sobbarcare i problemi di cui si è detto. Piuttosto, i suoi scritti non erano molto condivisi da critici, insegnanti e genitori, che li ritenevano diseducativi, spesso violenti e infarciti di sentimenti poco nobili, quali la vendetta. Un’altra questione, che poco garbava agli ecclesiastici, era il sostanziale laicismo di Salgari, mentre urtavano le coscienze dei perbenisti conservatori – rivelando il loro sottinteso razzismo – le mescolanze etniche presenti nei suoi romanzi: Sandokan, originario del Borneo, sposa Lady Marianna Gullonk, una donna bianca; Yanez de Gomera, un nobile portoghese, è “fratello” dell’eroe, che è di razza asiatica. Fra l’altro, per questo suo eccentrico personaggio, sempre inquadrato mentre fuma “l’ennesima sigaretta”, oggi Salgari sarebbe stato inviso anche agli anti-tabagisti! Nonostante i numerosi detrattori delle sue opere, l’autore appassionò migliaia di lettori che sognavano di imbarcarsi per i Mari del Sud o di esplorare le intricate foreste dell’India misteriosa. Erano gli anni in cui anche l’Italia, dopo l’unificazione, cercava il suo “posto al sole” in Africa e la gente amava immaginare avventure nel Continente Nero, nelle intricate foreste dell’India misteriosa e nelle immense praterie del West americano.
Avventure tra i pellirossa
La molla che spostò l’interesse dello scrittore – sebbene non avesse mai abbandonato gli altri generi – verso le grandi pianure del Nord America, un tempo regno incontrastato dei Pellirosse, fu probabilmente la conoscenza che egli fece di William Cody, “Buffalo Bill”, allorchè venne in visita a Verona nel corso della sua lunga tournèe italiana del 1890. Per l’occasione, in alcuni articoli pubblicati su “L’Arena” di Verona il 14 e 15 aprile, egli criticò duramente lo scarso entusiasmo dimostrato dai suoi concittadini verso l’eroe della Frontiera e il suo Wild West Show, rammaricandosi che: “una parte del pubblico non lo abbia ben compreso, né bene osservato nei suoi particolari” giacchè si trattava, secondo lui “di uno spettacolo reale, vero della prateria americana, raffigurante tutti i quadri più importanti della vita selvaggia del Grande Ovest cogli usi e costumi di quelle popolazioni.”
Fu certamente con l’immagine di quel colonnello “di alta statura, di forme sviluppatissime, con lungo pizzo e lunghi capelli brizzolati” ancora nella memoria che Salgari si accinse, nel 1908, a dar vita al primo romanzo della sua trilogia western, intitolato “Sulle frontiere del Far West”. I personaggi che animano il racconto sono il colonnello Giorgio Devandel, la moglie indiana ripudiata Yalla e la giovane Minnehaha, figlia di quest’ultima e di Nuvola Rossa, capo dei Sioux. Entrambe sono spinte da zelo vendicatore, ma Devandel, pur accoltellato alla schiena da Minnehaha, non sarà facile a morire. La vicenda si trascina nel tempo e forma la trama de “La scotennatrice”, pubblicato nel 1909, nel quale si inseriscono alcuni eventi storici all’epoca già universalmente noti, come la battaglia del Little Big Horn (si rammenti che proprio nel 1909 il regista William Selig aveva diretto “Custer’s Last Stand”). Suggestiva, quanto storicamente inattendibile, la descrizione salgariana del sanguinoso eccidio compiuto il 25 giugno 1876: “Quando non vi fu in piedi più nessuno, Sitting Bull, armato di un tomahawk, scese solo nel canyon, s’avanzò attraverso quella distesa di cadaveri, raggiunse il generale che era caduto in mezzo ai suoi ultimi ufficiali, gli spaccò il petto e levatone il cuore che era ancora caldo lo divorò con l’avidità di un antropofago, fra le urla entusiastiche dei suoi quattromila guerrieri…”. Certo, una visione ingenua quanto improbabile degli avvenimenti reali, che però aderisce perfettamente al cruento contesto immaginato dall’autore. I suoi personaggi americani sono animati dallo stesso furore sacro dei loro omologhi malesi, indù o caraibici. I sentimenti che essi provano – l’odio, l’amore, la vendetta – sono forti quanto la loro caparbia ostinazione. Salgari non possedeva una conoscenza approfondita delle situazioni che avevano dato origine alle guerre contro i Pellirosse e neppure doveva essere tanto erudito sulle biografie dei loro protagonisti. Forse ne aveva letto in qualche articolo di stampa o in altri romanzi. Poster del Wild West Show
Tuttavia egli si salva mirabilmente elaborando i suoi personaggi secondo un clichè che già aveva sperimentato con successo nei romanzi del ciclo malese e di quello corsaro. Le loro qualità, che si tratti di uomini o donne, sono il coraggio, l’orgoglio, la dignità e la capacità di perseguire i propri scopi senza mai rinunciarvi. E’ consapevole che l’odio e il desiderio di vendetta richiamino altra violenza, ma ad un certo punto Salgari conferisce al proprio lavoro una connotazione maggiormente storica, spingendo l’azione fino al tragico eccidio commesso dal colonnello Forsyth a Wounded Knee in “Le Selve Ardenti”, ultimo romanzo che completa la trilogia. Muore la vendicatrice Minnehaha, “crivellata di palle” e la sua fine è quella degli eroi omerici o degli irriducibili combattenti della giungla, lasciando “cadere il suo scudo e l’ascia” e mandando “un urlo selvaggio di belva ferita a morte”, per poi precipitare “a terra macchiando di rosso la neve e il suo bianco mantellone. Nel medesimo istante l’indian agent, con un colpo di rifle, abbatteva il vecchio Nube Rossa. Solamente cinque o sei indiani sfuggirono alla strage allontanandosi verso il settentrione e scomparendo fra le macchie”. Devandel torna al proprio reggimento, mentre gli scout che l’hanno aiutato a compiere la sua missione, riguadagnano le “opulenti praterie del West” per ridiventare dei “bravi cacciatori” che sopravvivono “senza menar vanto delle loro imprese”. L’allusione è certamente ad una conquista di cui gli Americani non possono andare fieri, perché ottenuta con la distruzione della razza rossa. Forse lo è velatamente anche a Buffalo Bill, la cui celebrità si fondava sullo sterminio dei bisonti. In “Le Selve Ardenti” il dramma si consuma fino in fondo. Yalla e Minnehaha sono morte, così come erano uscite di scena in altri romanzi la “Perla di Labuan” e Honorata di Van Gould. A ben vedere, si è compiuta l’ingiustizia finale della distruzione di un popolo, ma Salgari non è Manzoni e la Provvidenza non interviene a restituire la ragione ai giusti. “I Pellirosse cadevano a gruppi insieme alle loro famiglie e gli Americani, come sempre, massacravano con inaudita brutalità.” Come gli Inglesi di Sir Brooke nell’Asia sud-orientale, come gli Spagnoli colonizzatori delle Americhe. Fatalismo, certo, ma non rassegnazione. I grandi eventi finiscono per travolgere le sorti dei popoli e degli uomini che li rappresentano, ma non riescono a distruggerne i sentimenti, gli ideali, le passioni. L’amore, come l’odio irriducibile, sono la linfa che tiene in vita gli esseri umani. La perdita di Marianna getta Sandokan in uno stato di prostrazione, così come quella di Honorata infrange la sprezzante sicurezza del Conte di Ventimiglia: “Guarda” indica uno dei suoi uomini ad un compagno, mentre la barca che trasporta la donna prende il largo “il Corsaro Nero piange!”


Le copertine di due libri western di salgari

Con la resa dell’ultima fazione indiana, quella delle “Selve Ardenti”, cala il sipario sullo scenario del West salgariano, come avvenne per la leggendaria Mompracem di Sandokan. Ma di lì a poco tempo, anche per l’appassionato ideatore di tante avventure sarebbe giunta la parola fine.
La mattina del 25 aprile 1911, Salgari uscì dalla sua casa di Corso Casale a Torino, allontanandosi verso le colline della Valle San Martino. Aveva con sé soltanto un rasoio da barba. Una giovane lavandaia, Luigia Quirico, in giro per il bosco a raccogliere legna, lo trovò con la gola e il ventre squarciati. Lo scrittore, al culmine della disperazione, si era fatto harakiri. Aveva 48 anni. Secondo quanto lasciò scritto ai suoi figli, aveva debiti per 150 lire e un credito esigibile di 600. Ai suoi editori lasciò un appunto che, dettato da una grande amarezza, è probabilmente ingiusto: “…vi siete arricchiti sulla mia pelle…Vi saluto spezzando la penna!” Nel suo ultimo messaggio ai figli aveva scritto: “Sono un vinto”. Non era vero: nessuno, più di lui, era riuscito a trasportare milioni di lettori in un mondo fantastico e affascinante, dove le gesta di principi e corsari si intrecciavano magicamente con quelle di intrepidi cacciatori, avventurieri incalliti e scatenate vendicatrici dalla pelle di rame. Il mondo che la sua penna ha creato sopravvive ed appassiona a distanza di un secolo e non è esagerato sperare che continuerà ad essere vivo e reale per molto tempo ancora.

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