Un viaggio indimenticabile nella riserva dei Menominee

A cura di Gian Mario Mollar

Quello che segue è il racconto di un un’esperienza di viaggio che rimarrà impressa nella mia memoria per sempre. Nell’estate del 2017, insieme ad Anna, la mia compagna, ho trascorso una decina di giorni in Wisconsin, nei pressi di Keshena, nella riserva della tribù Menominee.
Abbiamo avuto il privilegio di essere ospiti di una famiglia davvero speciale: i Fernandez. Wade Fernandez, il capofamiglia, è un bluesman e un polistrumentista eccezionale: passa con disinvoltura dalla chitarra al flauto tradizionale e le sue canzoni – le mie preferite sono Sawaenemiyah (Blessed) e Still Standing Proud – vibrano di amore per la vita e serenità.
La musica che compone fonde con eleganza il blues e il rock con influenze indiane e tradizionali, creando atmosfere coinvolgenti ed evocative. Nei suoi testi si riflette l’attualità della vita in Riserva, ma anche un messaggio più ampio e universale di comunione e fratellanza.


Wade Fernandez

Il suo nome nativo è Wiciwen Apis Mahwaew, che significa “cammina con il lupo nero”. Si trova spesso in tour in Europa – soprattutto in Germania e Svizzera, dove è molto noto e apprezzato – ed è così, durante una sua tournée italiana organizzata dall’Associazione Soconas Incomindios, che ci siamo conosciuti.
Paula Fernandez, sua moglie, ha dedicato l’intera vita ad apprendere e divulgare la cultura della propria tribù e dei nativi americani e, come amo definirla, è una vera e propria enciclopedia vivente in materia. Il suo nome nativo è Kamewanukiw, che significa letteralmente “Donna della pioggia”, ma ha in realtà un significato più ampio. Una traduzione più accurata è “spirito della prima pioggia che porta la vita in primavera”. Il nome le è stato attribuito a causa dei suoi sforzi per riportare in vita la cultura e le tradizioni menominee.
È stata per noi un’amica, una guida e una maestra. I loro cinque figli, Wade Jr, Cedar, Quentin, Blaize e Rain, sono stati gentili con noi e abbiamo trascorso insieme molte ore di gioco e relax.


La collocazione della riserva Menominee nello stato del Wisconsin

Ho imparato molto in quei giorni, ma ho esitato a lungo prima di accingermi a scrivere. In parte per un profondo rispetto e per la paura di “tradire”, con la mia interpretazione, la bellezza e la profondità dei contenuti che mi sono stati trasmessi. In parte, perché penso che occorrerebbe uno scrittore migliore di me per cantare questa canzone, per trasmetterne intatto il significato.
In ogni caso, alla fine, mi sono deciso, perché ho pensato che il regalo che ci è stato fatto da Wade e Paula sia troppo bello per tenerlo per me stesso.
La loro storia, quella del loro popolo, merita di essere raccontata e conosciuta.


Paula Fernandez

Non importa, spero, che io sia un bianco che parla di tradizioni non sue: in fondo, siamo tutti uomini che vivono, amano e muoiono su questa terra. Conoscerci meglio, forse, può aiutarci ad andare oltre le differenze, rispettandole senza cancellarle, per trovare un terreno comune di dialogo e comprensione.

Chi sono i Menominee

Vista dallo spazio, la riserva dei Menominee è un rettangolo verde. Nel resto dello stato del Wisconsin, il verde è molto più pallido, in seguito ad anni di disboscamento, allevamento intensivo e inquinamento: quello che chiamano “progresso”, insomma.


La terra in cui si protegge la natura

La riserva, oggi, è una frazione piccolissima di quella che era in origine la terra ancestrale di questo popolo, erosa progressivamente dai trattati e dagli inganni dell’uomo bianco. All’interno dei suoi confini, i nativi sono riusciti a rispettare la foresta, applicando tecniche di taglio selettivo che oggi vengono studiate in tutto il mondo.
Oltre alla vegetazione, i Menominee hanno conservato anche un ricco e vasto patrimonio di tradizioni e pratiche, purtroppo quasi sconosciuto ai più perché rimasto lontano dai riflettori hollywoodiani, da sempre puntati sugli indiani delle grandi pianure e sulle battaglie della seconda metà del 1800. La storia di questo popolo, tuttavia, ha un fascino profondo e discreto che merita di venire divulgato, perché i Menominee continuano a lottare ancora oggi, per esistere e per conservare la ricchezza inestimabile della loro lingua e delle loro tradizioni.
I Menominee sono una tribù nativa nordamericana che fa parte della famiglia degli Algonchini, un ceppo attestato tra Stati Uniti e Canada che comprende varie altre tribù (Ojibwa, Delaware, Shawnee…), affini tanto per la lingua che per tradizioni e folklore.


Una famiglia di Menominee

Menominee è la traslitterazione del modo in cui i vicini Ojibwa chiamano questa tribù, che significa “popolo del riso selvatico”, ma i Menominee chiamano se stessi in un altro modo, Mamaceqtaw, che significa semplicemente “il popolo” (questo è il significato comune di molti altri nomi di tribù aborigene, pensiamo ad esempio ai Lakota). Un altro modo per definirli è Kiash Machatiwuk, ovvero “gli uomini Antichi”, le altre tribù della zona li chiamano così.

Preistoria

Quest’ultimo nome risulta essere particolarmente azzeccato. Conversando con diversi membri della tribù, all’interno della riserva, mi è capitato spesso di sentir dire “noi siamo qui da sempre”. E le radici di questo “sempre” affrontano davvero nella notte dei tempi, in quanto esistono prove archeologiche che attestano che la presenza di nativi in Wisconsin risale a oltre 14.500 anni fa.
La riserva dei Menominee è un luogo incredibilmente ricco di resti archeologici: al suo interno, una piccola equipe di archeologi, guidata dal Dott. David Overstreet, lavora in collaborazione con i nativi per riportare alla luce i segni e le prove di questo passato remotissimo. Il lavoro dell’archeologo, in questo caso, non si limita semplicemente al ritrovamento di reperti, ma va anche nella direzione opposta: restituire alla terra che le ospitava le reliquie sacre un tempo trafugate. Il lavoro scientifico, in questo caso, non va a detrimento delle credenze tradizionali, ma collabora con esse: nel corso degli anni, Overstreet si è guadagnato la stima e il rispetto dei locali.


Il mammut rinvenuto dall’equipe del Dott. Overstreet, esposto a Milwaukee

Uno dei ritrovamenti più sensazionali di questo studioso risale al 1994, quando la sua equipe rinvenne uno scheletro quasi completo di mammut: oggi, è possibile ammirare questo imponente e suggestivo reperto nel Milwaukee Public Museum.
Questo mammut, significativo già di per sé, è ancora più importante per un dettaglio: su alcune delle sue ossa sono presenti delle incisioni derivanti da strumenti in pietra, che indicano che il mastodonte era stato macellato da esseri umani. Questi graffi, datati al radiocarbonio, hanno spostato a 14.500 anni fa la presenza umana in Wisconsin mentre, sino ad allora, si pensava che i primi insediamenti risalissero a 13.000 anni fa, con la cosiddetta civiltà Clovis.
Conversare con il Dott. Overstreet è terribilmente interessante: lo ascolto rapito e vorrei che il nostro incontro non finisse mai. Frequenta la Riserva da oltre vent’anni ed è bello sentirlo raccontare di come, analizzando i racconti e le leggende Menominee o aggirandosi per la foresta in compagnia degli anziani, sia riuscito a trovare resti archeologici, vasellame e tumuli funerari. Storia e leggenda, in questo caso, coincidono, e, incastonati nella tradizione orale, ci sono molti tesori ancora da scoprire.
I ritrovamenti di Overstreet e della sua equipe nei pressi del Wolf River, il fiume che attraversa la riserva, ci parlano di una civiltà antica ma, per certi versi, sorprendente, che coniugava la caccia e la raccolta di frutti spontanei con la coltivazione della terra.
Sebbene i Menominee siano definiti “il popolo del riso selvatico”, in realtà coltivavano anche mais e altri tipi di cereali. Proprio il mais consentì a questa popolazione di sopravvivere alla Piccola Glaciazione dell’8000 a.C. circa, che mieté invece molte vittime in Europa: la maturazione rapida di questo cereale, infatti, si adattava meglio alla stagione più corta e permetteva di placare la fame.
I segni di queste antiche coltivazioni sono tutt’ora visibili in molte parti della foresta, dove non è infrequente imbattersi nei “beds”, i “letti”: larghi solchi scavati nel terreno migliaia di anni fa, utilizzati per far crescere i cereali. La terra veniva arata con bastoni di legno, le cui punte vennero progressivamente ricoperte prima in osso e poi in rame, per aumentarne la durezza e la durata. Le zolle venivano poi rivoltate con scapole di bisonte. Il rame utilizzato era di origine vulcanica, quindi non veniva fuso ma semplicemente battuto a freddo.
Lo stoccaggio e la cottura dei cereali avvenivano in vasi di terracotta temperati con gusci di conchiglia. L’utilizzo dei gusci di conchiglia per la cottura del vasellame svolgeva una duplice funzione: oltre a conferire maggiore durezza ai contenitori, rilasciava carbonio, che andava ad arricchire gli alimenti, prevenendo le patologie derivanti da un grande consumo di mais, quali pellagra e osteoporosi. Simili raffinatezze mettono in crisi la sommaria classificazione di “civiltà primitiva”!
È importante evidenziare come l’archeologia, in casi come questo, non sia un mero studio accademico ma assuma sempre dei forti connotati politici. Nel corso degli anni, molti studiosi, non sempre intellettualmente onesti, hanno cercato di posticipare il più possibile la data di insediamento dei Menominee e di altre popolazioni native, al fine di giustificare, in qualche modo, la successiva colonizzazione avvenuta ad opera dei bianchi. C’è stato chi, addirittura, ha ipotizzato che l’insediamento dei nativi americani, i cosiddetti “indiani”, sia avvenuto ai danni di una civiltà antecedente, la cosiddetta “Civiltà dei Mounds”, come per attenuare le colpe derivanti dal genocidio causato dagli Europei. Secondo questo discutibile modo di argomentare, colonizzare un popolo colonizzatore sarebbe, teoricamente, meno grave di imporsi su chi ha abitato quella terra da sempre.
Gli studi attuali, come quelli operati da Overstreet e dalla sua equipe, dimostrano il contrario e, nel corso degli anni, hanno smontato le teorie di chi sosteneva che i Menominee si fossero insediati in un periodo recenziore, dimostrando che il legame tra questo popolo e la terra che abita è vecchio come il mondo e merita tutto il rispetto possibile.
Il Dott. Overstreet considera in modo critico la famosa “teoria dello stretto di Bering”, che sostiene che i nativi americani siano giunti nel “Nuovo Mondo” percorrendo a piedi la Beringia, un istmo che collegava Asia e America. A suo giudizio, infatti, i ritrovamenti recenti dimostrano che l’America era stata raggiunta molto tempo prima, per mezzo di imbarcazioni, sia dalla Polinesia, che dalla penisola iberica, che dal Giappone. Nell’America Meridionale, ad esempio, esistono siti che risalgono a 22.500 anni fa, la cui semplice esistenza basterebbe a confutare l’ipotesi dello Stretto di Bering, ma, forse per orgoglio accademico, la teoria continua a godere di credito.
La ricerca sul passato non si limita soltanto agli scavi: nella Riserva si pratica anche un innovativo sistema di archeologia sperimentale, che consiste nel ricreare un antico insediamento, riproducendone le capanne (wigwam) e le colture, ma anche l’uso e la costruzione di lance e di altri utensili per la vita quotidiana in quel passato remoto. Nel corso di questo esperimento si è scoperto, ad esempio, che quel tipo di vita era estremamente duro, che presupponeva la cooperazione di tutta la comunità, perché una famiglia isolata non ce l’avrebbe mai fatta.
La cosa positiva di questi progetti è che non vengono imposti, ma sono fatti nel pieno rispetto delle credenze e della cultura tribale e, di conseguenza, godono di credito e collaborazione da parte dei residenti nella riserva. Il dottor Overstreet è oggi in età avanzata e a succedergli sarà probabilmente una giovane studiosa menominee, che ha imparato ad amare l’archeologia attraverso i campi estivi organizzati da lui.
All’interno della riserva si trovano ben due musei. Uno è dedicato al taglio della foresta, una vasta esposizione di asce, carrucole, cordame e ogni sorta di utensile per tagliare e spaccare la legna. Il secondo, piccolo ma molto curato e interessante, è dedicato alla storia della tribù e raccoglie manufatti e testimonianze materiali di questo popolo.

Il popolo del riso selvatico
Come abbiamo visto, Menominee significa “popolo del riso selvatico”: la raccolta di questo particolare tipo di cereale, dal chicco scuro e allungato, era una prerogativa di questa tribù, che la condivise con le popolazioni limitrofe e anche nel corso dei contatti con l’uomo bianco.
Il riso selvatico cresce lungo il corso dei fiumi, in luoghi in cui l’acqua scorre senza però essere troppo impetuosa. La raccolta avveniva – e avviene tutt’ora, sebbene in misura molto più limitata e soprattutto allo scopo di tramandare la procedura rituale – a bordo di canoe: le piante venivano scosse gentilmente all’interno della canoa per far sì che depositassero i chicchi sul fondo dell’imbarcazione.
Nel corso della raccolta, una buona parte di chicchi si disperde nell’acqua, dando così vita ad altre piante: il riso selvatico cresce se viene raccolto, perché è la raccolta stessa a favorirne la diffusione. Questa dinamica è il significato dell’espressione indiana: “ovunque vadano i Menominee, il riso selvatico li segue”.
Una volta raccolto il riso viene “danzato”. Nel corso della danza rituale, l’impatto dei piedi nudi con i chicchi separa la pula, che viene successivamente setacciata. Il prodotto così ottenuto si poteva conservare a lungo, garantendo alla tribù di sopravvivere durante l’inverno.
Oltre al riso selvatico, i Menominee ricavano tradizionalmente anche lo zucchero dallo sciroppo estratto dall’acero, il maple syrup. Il procedimento prevede l’incisione degli alberi per farne fuoriuscire la linfa, che viene successivamente bollita fino a condensarla.
Un’altra fonte di sopravvivenza era la pesca dello storione, considerato animale sacro e spirituale. Proprio come il salmone, gli storioni un tempo risalivano il corso del Wolf River per venire a depositare le uova nei pressi della riserva. L’arrivo degli storioni, in primavera, costituiva un momento di festa e preghiere, in cui vita materiale e vita spirituale si incontravano e fondevano.
La costruzione di alcune dighe a valle della riserva, nei pressi della città di Shawano, ha purtroppo decretato la fine di questo rituale, impedendo ai pesci di risalire la corrente del fiume.
Da alcuni anni, tuttavia, i Menominee sono riusciti a dare nuova vita a questo antico rito, trasportando alcuni esemplari di storione che sono riusciti a insediarsi e a depositare le uova nei pressi delle cascate di Keshena Falls.


Le Keshena Falls

L’obiettivo, naturalmente, non è tanto quello di mangiare il pesce, quanto piuttosto di praticare una tradizione che, altrimenti, sarebbe destinata a estinguersi per sempre. Nel frattempo, inoltre, si stanno studiando degli scivoli che dovrebbero permettere agli storioni di superare in autonomia le dighe lungo il fiume, ma al momento si tratta di poco più di un progetto.
Insomma, le fonti di sostentamento di questo popolo erano legate al ciclo stagionale: il riso selvatico in autunno, la caccia in inverno, gli storioni e lo sciroppo d’acero in estate, la coltivazione di ortaggi e cereale in estate. La sopravvivenza non era un semplice fatto strumentale, ma assumeva connotati spirituali e religiosi, come si evince dai racconti di fondazione, che riflettono il cuore e la struttura di quella che era la società menominee.
Nella mitologia Menominee, dopo che il Creatore ebbe terminato la creazione, un Orso spuntò dalla terra e, risalendo il fiume, si rivolse a lui, chiedendogli di diventare un uomo. Il Creatore acconsentì a questa sua richiesta, trasformandolo così nel primo Menominee. L’Orso, poi, proseguì nel suo percorso e, sentendosi solo, chiese all’Aquila di scendere dal cielo per diventare sua sorella, trasformandola a sua volta in essere umano. La stessa procedura si ripeté con altri animali, quali il Castoro, la Gru, il Lupo e l’Alce: ognuno di essi divenne uomo e, a sua volta, adottò altri animali. Tutti insieme, questi Fratelli formarono la tribù dei Menominee.
Miti come quello di fondazione possono apparire “primitivi” se considerati con le categorie del pensiero occidentale, ma sono in realtà molto meno ingenui di quel che sembra. L’Orso non è semplicemente un animale parlante: nella lingua Menominee, esso indica piuttosto un clan e il luogo dove esso risiedeva, così come per tutti gli altri animali della storia. Il mito, dunque, non parla tanto di bestie e magie, quanto di incontri tra gruppi umani differenti, che si uniscono a formare un popolo.
La tribù è infatti composta da clan, ognuno dei quali porta il nome di uno di questi animali fondatori. La struttura è piuttosto complessa: ogni clan è una sorta di famiglia allargata che provvede a uno o più bisogni fondamentali per la tribù. Ad esempio, dal Clan dell’Orso provengono in genere gli oratori e i politici, dal Clan dell’Alce, invece, i guardiani che badano alla sicurezza interna, mentre dal Clan del Lupo i cacciatori, e così via.
I racconti tradizionali dei Menominee racchiudono significati profondi e ramificati su più livelli: per questa ragione molti di essi considerano in modo critico la commercializzazione della spiritualità nativa che viene spesso operata. Spesso noi occidentali giochiamo a “fare gli indiani”, senza renderci conto che le nostre semplificazioni sommarie possono risultare offensive per chi ha radici profonde.

Un pomeriggio di pioggia con Dave Napos
Ho trascorso un intero pomeriggio piovoso a chiacchierare con Dave Turney. Ci incontriamo per caso: è un cugino di Paula, venuto per aiutarla a sistemare delle tubature in casa. Indossa un cappello da baseball con la scritta “Viet Nam Veteran”, veterano del Vietnam, e scopro ben presto che ha un bagaglio incredibile di storie da raccontare. Il suo nome menominee è Napos Netaekamen, che significa letteralmente “primo coniglio”.
Mentre sorseggiamo caffè alla cannella e la pioggia increspa la superficie del lago Legend, mi racconta che quando si è arruolato nell’esercito aveva soltanto diciassette anni, e non aveva neanche idea di dove si trovasse il Vietnam.


Il tramonto al lago Legend

Ha servito in una squadra per il recupero dei feriti. Mi racconta che vent’anni dopo, nel 1995, nel corso di un pow-wow ha incontrato un altro veterano, un Ojibwa. Chiacchierando, si sono resi conto che quello non era la prima volta che si vedevano: vent’anni prima, Dave lo aveva soccorso, mentre era ferito e minacciato dal fuoco dei viet kong.
Si ricorda ancora il bombardamento di Natale di Hanoi del 1972, le esplosioni che illuminavano a giorno la baia, e di tante altre “bad things”, di cui preferisce non parlare. Anche in ambito militare c’era razzismo: lo chiamavano “indian” e “Chief”, ma dopo i primi tempi non erano in molti quelli che si azzardavano a schernirlo, perché Dave sapeva difendersi.
Chiacchieriamo, e i discorsi si estendono in cerchi concentrici: dal pugilato, che entrambi amiamo, al cinema, dalle macchine sportive americane, un’altra passione comune, alla cultura menominee.
Dave mi spiega che una delle cose che lo irritano maggiormente è la commercializzazione della cultura nativa: “Ci sono molti che scoprono di colpo di essere indiani e si mettono a vendere ciarpame new age come lo zodiaco indiano. Un giorno mia nipote è tornata a casa da scuola e mi ha raccontato che la maestra gli aveva insegnato il suo nome indiano. Ho dovuto spiegarle che lei aveva già un nome tribale e faceva parte di un clan, e poi ho chiesto alla maestra di evitare questo genere di attività”. I Menominee sono giustamente sensibili sulle loro origini e tradizioni ed esigono che vengano rispettati anche dai bianchi.
Parlando di cinema, Dave mi confessa di adorare i film western, ma mi dice anche che tutta la produzione di Hollywood è farcita di errori grossolani e di imprecisioni, che fanno ridere i nativi. In particolare, mi fa notare che gli attori che impersonano protagonisti nativi americani sono quasi sempre dei bianchi travestiti da indiani: un dettaglio significativo, che la dice lunga sull’impostazione culturale alla base di questi spettacoli. In ogni caso, la produzione cinematografica è diventata più favorevole a partire degli anni ’70, in cui si è passati dalla rappresentazione dell’indiano cattivo a una più umana e articolata, nonché più corretta da un punto di vista storico. “Piccolo Grande Uomo”, ricorda, è stato uno dei primi film a rappresentare questa svolta.

L’arrivo dell’uomo bianco

In una sera d’estate, mentre il sole tramonta lentamente, tingendo il cielo di rosa e ricoprendo il lago di scintille d’oro, Paula ci racconta di un’antica profezia. Sediamo nel prato davanti alla casa, di fianco al luogo sacro in cui sorge la capanna sudatoria, con i suoi dodici pali e la ruota di medicina delle quattro direzioni. Sorseggiamo the freddo, perché l’alcol è considerato un pericolo e un grande nemico all’interno della riserva.
In un passato lontano, intorno all’anno mille d.C., ci racconta, le tribù della Costa Atlantica, che vivevano sul golfo di San Lorenzo, ricevettero una visione, che anticipava l’arrivo dal mare di uomini “dalla pelle bianca e ricoperti di peli”. Scossi da questa anticipazione, dopo aver tenuto un consiglio, le tribù decisero di migrare verso l’interno, risalendo il corso del fiume San Lorenzo fino a raggiungere i Grandi Laghi. Lungo la strada, di tanto in tanto si smarrirono e furono costretti a fermarsi, per attendere la nascita di un bambino capace di indicare loro nuovamente la strada.
Queste tribù esuli, tra cui gli Ojibwa, i Potawatomi e gli Ottawa, raggiunsero l’area di Green Bay e la terra dei Menominee intorno alla fine del XV secolo, pressappoco quando Colombo raggiunse il continente americano con le sue tre caravelle. La migrazione si fermò perché gli esuli avevano trovato “il cibo che cresce sull’acqua” di cui parlava la profezia, che altro non era se non il riso selvatico dei Menominee.
Il primo contatto con i bianchi risale al 1634, quando il francese Jean Nicolet attraversò il Lago Michigan sperando di aver trovato il famoso “Passaggio a Nord Ovest”, che lo avrebbe portato in Cina.


Jean Nicolet incontra i nativi

Pensando di dover incontrare dei cinesi, il commerciante francese si era premurato di indossare una vestaglia di seta e, quando vide i nativi che lo aspettavano sulla riva, saltò in piedi sulla canoa e sparò in aria, pensando di blandire gli orientali con un altro prodotto di loro invenzione, la polvere da sparo. La popolazione nativa che assistette a questo bizzarro e comico incontro dovette rimanerne piuttosto impressionata, perché da allora gli uomini bianchi si chiamano “quelli che stanno in piedi sulla canoa”.
I Menominee e gli Ojibwai, nonché le altre tribù locali, quali gli Ho-Chunk e i Potawatomi, onorarono l’arrivo dell’uomo bianco, cospargendogli i capo di tabacco e avviando relazioni commerciali, basate soprattutto sulla compravendita di pelli e di zucchero ricavato dall’acero.
La storia dei Menominee non è una storia di guerre e scontri, come ad esempio quella dei Lakota e degli altri indiani delle pianure, ma piuttosto uno svilupparsi di relazioni diplomatiche con l’uomo bianco. Malgrado questa natura pacifica, la cosiddetta “civilizzazione” ebbe un esito altrettanto esiziale per i Menominee: dapprima per il dilagare di epidemie, poi per una progressiva dipendenza economica nei confronti dell’uomo bianco, per acquistare armi e oggetti in ferro e acciaio, e successivamente, con l’avvento dell’era dei trattati, intorno alla metà del XIX secolo, per la perdita delle loro terre, che, trattato dopo trattato, vennero progressivamente erose e sottratte loro.
“La profezia di cui vi parlavo”, ci racconta Paula con la sua voce un po’ roca, mentre il sole è ormai sceso dietro alla fitta foresta e i contorni del suo volto si sono fatti indistinti: “diceva che con l’arrivo dell’uomo bianco la pioggia sarebbe diventata fuoco, gli uccelli sarebbero caduti dal cielo, pesci sarebbero venuti a galla a pancia in su, il ventre della Madre Terra sarebbe stato tagliato, i nostri stessi figli ci avrebbero girato la schiena, le nostre lingue sarebbero state tagliate e avremmo pianto per cento anni. Tutte queste previsioni, purtroppo, si sono avverato: l’inquinamento derivante da uno sfruttamento cieco e brutale della natura ha causato disastri ambientali, le viscere della terra sono state tagliate dalle miniere,intere generazioni di nativi sono state separate dai genitori per venire educati come uomini bianchi, nell’orrore delle “boarding schools”, e la nostra lingua è stata quasi dimenticata.
La profezia, però, parla anche di una Settima Generazione che si risveglierà, e di uomini di tutte le razze che verranno da noi per imparare. Anche questo si sta avverando, perché sono in molti quelli che vengono alla riserva, per esempio ad apprendere tecniche sostenibili di silvicoltura.
A quel punto, ci sarà un bivio: o tutti insieme impareremo a curare la Madre Terra, oppure la terra morirà. I cento anni del pianto sono passati e la Settima Generazione sono i nostri figli. Il futuro è in mano loro”.
Paula ha visitato la protesta di Standing Rock in Dakota con sua figlia Cedar: quando gli hanno dato la parola, ha portato questo messaggio di speranza, amore e fratellanza per le generazioni future, insieme a un’ampolla d’acqua presa dal Wolf River, un fiume che la tribù Menominee ha difeso, opponendosi alla costruzione di una miniera.
È ormai buio e sul lago è sceso un grande silenzio. Il vento fa stormire le foglie degli alberi e il cielo è pieno di stelle. Paula ci augura la buona notte: io e Anna andiamo a letto, i cuori pieni di tristezza, meraviglia e speranza.

A spasso nella riserva

Ai non nativi è vietato camminare nella foresta: la Riserva è sotto la giurisdizione della Polizia Tribale e la foresta, il verde manto che la ricopre e ne costituisce anche la principale fonte di sostentamento, è un bene da salvaguardare.
Quando siamo con Paula, però, possiamo addentrarci in quell’intrico verde e scoprirne la bellezza. Una bellezza discreta, ma al contempo antica e magica. Passo dopo passo, Paula ci racconta storie e leggende.
Sono cresciuto in mezzo ai boschi, ma qui le piante sono diverse e hanno nomi diversi: per esempio, la nostra guida ci insegna a riconoscere ed evitare l’edera velenosa: una piantina dall’apparenza innocua, con tre foglie di un verde intenso, che però è terribilmente urticante, molto peggio della nostra ortica.
Oppure ci insegna a riconoscere il winter green, una pianta le cui foglie hanno un gradevolissimo sapore di menta e si possono masticare come una sorta di chewingum naturale, e gli strani grappoli pendenti di una pianta dalla quale si ricava una bevanda deliziosa chiamata “limonata indiana”.
Di tanto in tanto, Paula si arresta, si strappa un capello e lo getta nel vento, oppure mi chiede un pizzico di tabacco e lo lascia cadere a terra. Quando entriamo più in confidenza, ci spiega che è il modo nativo di pregare e rendere grazie. La natura è un grande essere vivente e tutto si basa sulla reciprocità: se strappi una foglia a un albero, devi dargli in cambio qualcosa, se vedi un’aquila in cielo, significa che il Creatore ti ha fatto il dono di mostrarti uno dei suoi messaggeri, e anche in questo caso è bene offrire un po’ di tabacco.
Il concetto di reciprocità è ben altro che superstizione: è un modo di vivere in armonia con la natura. Dietro a queste credenze si cela una saggezza profonda, che la civiltà occidentale ha dimenticato da lungo tempo. Per noi, la natura è sempre stata un grande supermercato, da depredare senza pagare il conto: nel corso dei secoli, abbiamo disboscato, inquinato, sporcato senza alcun freno inibitore, e oggi fenomeni come il riscaldamento globale ci presentano un conto salato.
I Menominee hanno da sempre usato un approccio diverso: anche quando hanno disboscato per vendere il legname, lo hanno fatto con raziocinio, dando modo alla foresta di ripopolarsi e di rinnovarsi. I piccoli gesti quotidiani di Paula sono scintille preziose di una saggezza olistica e antica.
Insieme visitiamo le Cascate di Keshena, un luogo sacro le cui acque, un tempo, brulicavano di storioni e dove ancora oggi, malgrado l’interruzione del fiume dovuta alle dighe, si celebra la cerimonia della pesca, in cui, in cui alcuni esemplare di quel pesce vengono consumati ritualmente dalla tribù.
Il Wolf River è un fiume bellissimo, che attraversa la riserva e taglia il verde della foresta con un susseguirsi di rapide e cascate. Paula ci accompagna alle Wolf River Dells, un altro luogo sacro che, si dice, fu teatro dello scontro titanico e primordiale tra l’Aquila e il Serpente.


Il Wolf River

Ci mostra i punti in cui gli enormi artigli dell’aquila segnarono la roccia: alla fine fu lei a prevalere, guadagnandosi il privilegio di vivere sulla terra, mentre il serpente fu costretto, da allora, a strisciare sotto terra. In un giorno di sole, Anna ed io noleggiamo un canotto e ci avventuriamo lungo il fiume. È un’esperienza bellissima: ci sono le rapide, in cui in genere ribaltiamo il gommone e finiamo in acqua tra grandi risate, ma anche chilometri di navigazione lenta, che ci consentono di contemplare una natura maestosa e selvaggia. Daini dalla coda bianca e tartarughe ci guardano perplessi dalle rive del fiume.
Spesso prendiamo la macchina per spostarci da un punto all’altro: io guido e Paula ci racconta. In genere sono così assorto sulle sue parole che mi distraggo e non mi fermo agli incroci, o non rispetto le precedenze, che in America sono un po’ diverse. Paula mi grida di fermarmi. Poi sorride e mi chiede se in Italia guidano tutti così male.
Sul bordo della strada che porta a Keshena, c’è una piccola aiuola che racchiude un masso, molto sgretolato. Tutto intorno ci sono sigarette e prese di tabacco, lasciate in offerta dai passanti. Paula mi dice di accostare e ci racconta la leggenda di Spirit Rock.
Proprio in quel luogo sacro, lungo la riva del fiume, si ritrovarono tre guerrieri per chiedere aiuto al Creatore. Dopo aver offerto tabacco, il primo chiese di diventare più abile nella caccia, per poter sfamare la sua numerosa famiglia. Il Creatore glielo concesse e lo rimandò a casa.
Il secondo guerriero chiese di trovare una sposa, perché aveva tutto ma non aveva nessuno con cui condividere il suo benessere. Anche questa volta, il Creatore lo esaudì e lo mandò a casa esultante.
Il terzo guerriero chiese la vita eterna: il Creatore si indignò per il suo egoismo e la sua presunzione e lo esaudì trasformandolo in un masso che sarebbe durato per sempre: Spirit Rock, appunto.
Le intemperie hanno sgretolato la pietra e di quello che doveva essere un masso gigantesco rimane ormai ben poco. Con triste serenità, Paula ci dice che quando il masso si sarà sgretolato del tutto si estinguerà anche il popolo Menominee.

Al Pow Wow

In vita mia, non ero mai stato a un pow-wow. La sera che precede l’evento, Paula e Wade ci accompagnano al Pageant, uno spettacolo teatrale che prevede, appunto, la messa in scena della leggenda di Spirit Rock.
Il luogo in cui si svolge è un anfiteatro naturale, incastonato nel verde. Dalle pareti della conca sono state ricavate delle gradinate naturali.
Wade viene ben presto fagocitato dalla folla di amici e ammiratori: tutti vogliono stringergli la mano e sentire il racconto del suo viaggio in Europa, dal quale è appena rientrato. Accompagnerà lo spettacolo suonando il flauto.
Paula rimane con noi, ci presenta i suoi fratelli, i suoi cugini, i suoi amici.


Un momento della parata di apertura del pow wow

Ci fa conoscere il Presidente della Riserva, che ci dà il benvenuto, e anche il presentatore del Pow Wow: si chiama Joey Greignon. Indossa un cappello da cowboy e un cravattino di cuoio, ha una faccia simpatica e una parlata che lo fanno sembrare uno speaker da rodeo. In realtà, e lo scoprirò soltanto in seguito, è un uomo sacro, la cui famiglia si adopera da sempre per mantenere la tradizione spirituale dei Menominee.
L’inizio del Pow Wow è preceduto dal Mocassin Game, un gioco tradizionale di abilità e fortuna, a cui partecipano molti di coloro che nel pomeriggio danzeranno. I due contendenti siedono uno di fronte all’altro: ciascuno ha davanti a sé quattro quadrati di tessuto, i mocassin, appunto. Il giocatore solleva ciascuno dei quattro pezzi e lascia sotto uno di essi una pallina: toccherà all’avversario, consigliato dai suoi compagni di squadra, indovinare dove è stata nascosta la pallina, percuotendo il quadrato con un bastoncino. Al cambiare del turno, le parti si invertono.


Suonatori di tamburi

Consumiamo il pranzo nelle bancarelle del pow-wow: ovunque aleggia il profumo di fried bread, delle deliziose e ipercaloriche frittelle di farina fritte nell’olio, ma ci sono anche rivenditori di riso selvatico, e bellissime bancarelle di gioielli e manufatti indiani. Paula ne approfitta per acquistare degli orecchini coloratissimi, ricavati dagli aculei di porcospino, considerati una vera sciccheria dalle donne native.


Un suonatore di tamburo

Il pow wow è una sorta di festival dell’indianità: ritrovandosi per assistere alle danze, i nativi riscoprono le loro radici e celebrano la gioia di stare insieme. È un momento profano, una festa in cui i danzatori ricevono premi in denaro, ma lo spirito che lo anima è sacro: è la volontà di un popolo di riscoprire, e celebrare, le proprie radici.
La radura in cui si svolge il pow-wow è circondata da una decina di grandi tamburi: intorno ad essi siedono circa otto persone che li percuotono con delle mazze, intonando dei vocalizzi. Stare in piedi vicino ai tamburi è un’esperienza indimenticabile: le vibrazioni mi fanno tremare il diaframma, sono pervaso da un senso di comunione e forza. Ogni squadra suona a turno e intona canti con stili diversi: sento Joey che presenta il southern style, il più movimentato crow-hop e così via. Paula fa riconoscere i diversi stili al mio orecchio poco allenato e mi spiega che i suonatori, così come i danzatori, arrivano da ogni parte degli Stati Uniti. Noto che, di tanto in tanto, i suonatori compiono arresti e false partenze per mettere alla prova l’abilità dei danzatori.


Danzatori tradizionali

I danzatori sono uno spettacolo a parte, un colpo d’occhio indimenticabile: ognuno di essi indossa un corredo finemente decorato, che ha richiesto ore e ore di preparazione. Paula mi spiega che non bisogna definirli “costumi”, perché questa parola implica un travestimento in ciò che non si è: la parola giusta, in questo caso, è “outfit, regalia”.
Ci sono diversi stili di danza, ognuno con peculiarità proprie e accompagnato da canti specifici. I primi che vedo danzare sono i “traditional”: gli uomini indossano vestiti di pelle di daino e copricapi di pelo, decorati con i motivi della propria tribù di provenienza. I vestiti tradizionali Menominee spiccano per l’utilizzo del fiore di ninfea come motivo ornamentale. Anche le donne hanno abiti piuttosto sobri, con lunghe gonne. Lo stile di danza è piuttosto statico: gli uomini mimano scene di caccia saltellando al ritmo del tamburo, le donne muovono le braccia su e giù lungo i fianchi, con un movimento che richiama il lavaggio dei panni.


Grass dancers in un momento del powow

È poi la volta dei “grass dancers”, uno stile di danza che arriva dalle Grandi Pianure, in cui i danzatori ballavano per appiattire gli steli d’erba e consentire la costruzione dell’accampamento. I regalia maschili sono meravigliosi: corone di piume e nastri che si muovono a un ritmo forsennato, con balzi e grandi turbinii di penne d’aquila. Le donne che danzano con loro, invece, hanno decine e decine di campanelli sospese alle vesti: si dice che questo stile sia nato da una visione.
Infine, lo spettacolo puro: i “fancy dancers”.


I fancy dancers

Solo i ragazzi e le ragazze più giovani possono cimentarsi con questo stile, che richiede una notevole prestanza fisica. Gli uomini indossano due bussole di piume, una in testa e una sul fondo schiena, e i loro salti e acrobazie mimano l’eccitazione del ritorno dalla guerra. Le donne, invece, utilizzano lo stile “butterfly”, farfalla: indossano scialli che il vento i movimenti vorticosi gonfiano in figure aggraziate. La loro è una danza di fertilità, introdotta in un periodo più recente per fare da contraltare all’esuberante frenesia dei fancy dancer.


Fancy Dancer che si esibisce in un balzo spettacolare

Insomma, ho gli occhi pieni di meraviglia e mi sembra di vivere in un sogno. Paula combatte il suono dei tamburi con la voce per fornirmi ulteriori informazioni, spiegandomi che per molte famiglie la danza tradizionale è un modo di sostentamento: i ricchi premi che vengono assegnati ai danzatori più abili permettono di mantenersi. La vita dei danzatori è una vita nomade: in genere passano l’estate spostandosi da un festival all’altro, percorrendo gli Stati Uniti in lungo e in largo.


Una danzatrice fancy

Ad un certo punto, la musica si arresta di colpo. È successo qualcosa di grave: si è staccata una piuma d’aquila dalla veste di uno dei danzatori. È un fatto piuttosto raro, che viene considerato un disonore per il contendente, che ha dimostrato di non essere degno delle piume che portava. Per raccogliere la piuma caduta, sarà necessario intonare un canto speciale e soltanto i guerrieri – in questo caso, un gruppo di veterani del Viet Nam – potranno raccogliere la piuma da terra e riconsacrare il terreno di danza. Lo sfortunato danzatore sarà squalificato e dovrà fare dei doni ai suonatori per questa cerimonia, resa necessaria dalla sua trascuratezza. Molti del pubblico scendono per dargli qualche dollaro. Mi avvicino anche io: vedo una profonda tristezza nei suoi occhi.
Le danze si protraggono fino a sera per tre giorni: una cosa che mi colpisce è la quasi totale assenza di bianchi. Tutti i partecipanti sono nativi o parenti di nativi. Chiedo spiegazioni e mi viene spiegato che la riserva non è vista di buon occhio dagli abitanti delle città limitrofe, come Shawano. Gli indiani sono ancora oggi vittima di discriminazione razziale: “quando entro in un negozio al di fuori della riserva, a volte il proprietario mi segue, per controllare che io non rubi niente”. Anche i suoi figli, a scuola, sono stati presi in giro e bullizzati per le trecce dai compagni di classe, perché, purtroppo, i bambini assorbono i pregiudizi dalle loro famiglie.
Rimango perplesso: pensavo che il razzismo fosse un fossile di orrori passati, ma in Wisconsin – e in altri stati del sud la situazione è ancora peggiore – è una triste realtà.

La riserva oggi

Durante una gita in macchina per visitare un amico produttore di vasi, Paula ci racconta come nel corso dell’Ottocento la riserva si sia progressivamente rimpicciolita grazie ai trattati con gli Stati Uniti: una storia di menzogne e sotterfugi, in cui i Menominee sono stati spogliati della terra che calpestavano dalla notte dei tempi.


Una piccola Menominee

L’uomo bianco fece ricorso a ogni sorta di inganno: talvolta i capi nativi venivano convocati per siglare un documento. Se questi non si presentavano, perché non interessati all’offerta, il documento veniva siglato in ogni caso e reso operativo.
Agli inganni politici si sommano orrori ancora più gravi, come quello delle boarding schools: i bambini venivano separati dai genitori in tenerissima età e imprigionati in collegi fino al raggiungimento dell’età adulta. Il motto di questi istituti era “kill the indian, save the man”, ovvero “uccidi l’indiano, salva l’uomo”. Ai bambini veniva proibito di parlare la lingua nativa: le trasgressioni venivano punite lavando loro la bocca con il sapone. I miti ancestrali e le antiche conoscenze venivano cancellate dalle menti e brutalmente rimpiazzati con l’imposizione del cristianesimo. Il risultato furono generazioni di indiani senza coscienza delle proprie radici, brutalmente omologati a un sistema a loro estraneo.
Le conseguenze di questa barbarie – un vero e proprio genocidio, anche se il Governo degli Stati Uniti non l’ha mai ammesso ufficialmente – si vedono ancora oggi: i nativi stanno lottando per riappropriarsi di quello che è stato loro strappato, ma è un processo lento e faticoso – ne parleremo tra poco.
Intorno al 1910, i Menominee denunciano l’agente del BIA (Bureau of Indian Affairs), accusandolo di sfruttarli e truffarli con la compravendita del legname proveniente dalla loro foresta. Il processo si protrae per quasi trent’anni, ma si conclude con un esito inaspettato: ai Menominee viene riconosciuto una compensazione di dieci milioni di dollari.
Ancora una volta, però, l’inganno è in agguato: la somma non viene affidata direttamente ai nativi, perché vengono giudicati incapaci di gestirla. Vengono nominati cinque amministratori bianchi, che si auto-concedono degli stipendi favolosi per gestire questo patrimonio, che si va rapidamente consumando in cavilli burocratici, senza che la tribù possa veramente beneficiarne.
Nel 1951, il Governo degli Stati Uniti propone la Termination, ovvero la chiusura della riserva e la cessazione dei benefici fiscali e assistenziali che essa comporta, in cambio dell’affidamento diretto del denaro rimasto. La tribù non è d’accordo, solo il 5% della popolazione ha votato a favore. Il giorno dell’incontro per sancire la Termination, la delegazione menominee non si presenta, in base al principio tribale per cui l’assenza denota disinteresse. La legge degli Stati Uniti, tuttavia, interpreta l’assenza in modo diverso, e la riserva viene chiusa.
L’impatto fiscale risulta devastante: nel giro di pochi anni, tutte le strutture assistenziali collassano: la polizia, i vigili del fuoco e anche l’assistenza sanitaria. Gettati senza preavviso in un sistema a loro estraneo, i nativi non riescono a pagare le tasse e fare quanto necessario per mandare avanti la riserva.


Padre e figlio

Anche quello che rimaneva dei dieci milioni di dollari sfuma rapidamente. Per raccogliere fondi, si decide di creare Legend Lake, lo splendido lago su cui sorge anche la casa di Wade e Paula. Prima degli anni cinquanta, questo lago non esisteva: al suo posto c’erano otto laghi di dimensioni più ridotte. Con scavi ed esplosivi si crea il grande bacino: l’obiettivo è quello di creare dei lotti terrieri di lusso lungo le sue sponde e di venderli a facoltosi uomini bianchi. Le pubblicità fioriscono sui giornali e sui cartelli stradali: “vieni a scoprire una terra vergine, calpestata soltanto da mocassini indiani”.
Alcuni di questi lotti vengono venduti e trasformati in lussuose residenze per il weekend, ma le relazioni tra i nuovi proprietari e la tribù sono ancora oggi conflittuali.
Nel 1973 la Termination viene terminata a sua volta, perché riconosciuta come un esperimento non riuscito. La Contea di Keshena torna ad essere una Riserva: nel frattempo, i dieci milioni di dollari non ci sono più. I bianchi che hanno comprato le case lungo la riva del lago hanno mantenuto la proprietà acquisita, ma oggi pagano le tasse alla riserva anziché allo stato.

Tornare a parlare la lingua antica

Entrare nella scuola di lingua menominee è stata un’esperienza emozionante. Ron Corn Jr., l’insegnante, ha all’incirca la mia età: i suoi occhi color nocciola trasmettono positività e sono incorniciati da lunghi capelli castani. La sua classe, una decina di allievi, soprattutto donne, di età molto varia, dai diciassette ai cinquanta, ci accoglie sorridendo: a turno, ognuno si presenta, dice il proprio nome in lingua Menominee e ci racconta il suo significato.
“L’orgoglio di parlare la lingua Menominee – ci spiega Ron – è un fatto relativamente recente: un tempo noi indiani ne provavamo vergogna, perché ci avevano insegnato che era sbagliato. Questo ha fatto sì che la lingua si sia quasi estinta”: oggi, nella riserva, rimangono soltanto cinque persone capaci di parlarla in modo fluente, e hanno tutte più di ottant’anni.
Conoscere a fondo la cultura menominee senza conoscere la lingua è impossibile: la lingua, infatti, è la cultura stessa. Essa non è semplicemente un modo di chiamare le cose, ma è parte delle cose stesse. “Gli antichi conoscevano la lingua degli uccelli e ci sono uccelli che parlano in menominee”. Ron ci parla di un uccello il cui verso, in Menominee, significa “è andato via”. “Non solo – continua – esiste una canzone antica che i cacciatori cantavano per convincere i cervi a stare fermi e a farsi uccidere, ma deve essere utilizzata soltanto in momenti di estrema difficoltà. Tutto è connesso e la lingua è la chiave per comprendere tutto: dalla quantità di grasso che trovi scuoiando un cervo puoi predire come sarà la stagione successiva. L’arrivo delle lucciole preannuncia che il cervo è pronto per essere mangiato. Prima del loro arrivo, infatti, la sua carne è ancora viscida e non è adatta al consumo. Gli insetti nel fango ti indicano quando avverrà il disgelo”.


Menominee Nation

Ron ha appreso tutto quello che sa – e che cerca di trasmettere con una passione travolgente – da una donna anziana della tribù, che aveva fatto ritorno alla Riserva dopo essere stata per molti anni a Milwaukee. Questa donna aveva visto il suo primo uomo bianco a sette anni, e l’aveva scambiato per un fantasma. Il fantasma l’aveva presa e rinchiusa in una boarding school. Da anziana aveva fatto ritorno alla riserva, nella speranza di poter trasmettere a qualcuno il suo bagaglio di conoscenze, e aveva trovato in Ron un allievo attento e volenteroso. L’insegnamento si protrasse per anni, fino a quando un giorno, mentre discorreva con lei in Menominee davanti al tepore della stufa, la donna lo aveva interrotto di colpo e aveva dichiarato soddisfatta: “Adesso posso morire tranquilla”. Ancora oggi, a distanza di anni, le lacrime affiorano ai suoi occhi mentre ci racconta questa storia.
La lingua Menominee è meravigliosamente complessa. Dopo averla appresa, Ron l’ha dovuta studiare al contrario, per fissarla in schemi linguistici e poterla insegnare, ma senza avere i mezzi per poter studiare all’università.
Ci spiega che si tratta di una lingua basata sui verbi anziché sui nomi e che le parole hanno schemi morfonomici complessi, costituiti da prefissi, radici, mediali, finali e suffissi. Gli aggettivi non esistono: al loro posto si utilizzano i verbi. Curiosamente, anche i possessivi hanno un uso limitato alla casa e ai parenti più prossimi: ciò denota una vita comunitaria basata sulla condivisione anziché sulla proprietà.
In origine, si trattava di una lingua orale: la sua prima traslitterazione nell’alfabeto occidentale risale al 1821 e nel 1827 viene fatto un primo tentativo per fissarla in un sistema linguistico. Nei primi decenni del Novecento sarà un linguista non-nativo, Lenner Bloomfield, a salvarla dall’oblio, intervistando e registrando su rulli di cera gli anziani. Gli studi di Bloomfield si rivolsero soprattutto al cosiddetto “Ojibwai Trading Language”, una sorta di lingua comune e condivisa da più tribù per il commercio, detta anche “pigeon language”, ovvero linguaggio piccione. Nell’idioma nativo furono inglobate anche espressioni europee: per esempio, “Posoh”, il saluto tipico menominee, deriva dal francese “Bonjour”. Nel 1970 un altro linguista, Ken Miner, contribuì a perfezionare e schematizzare ulteriormente la lingua Menominee.
L’avvento della religione cristiana, ci spiega Ron, ha modificato profondamente la lingua e le espressioni, spostando il focus dal verbo al nome. Ad esempio, anticamente non si diceva “qual è il tuo nome?” bensì “come ti chiami?” e così via. Questo ha fatto sì che si sia progressivamente perso il contatto con la natura.
Conscio di essere stato il depositario di un dono prezioso, Ron Corn Jr. si dedica anima e corpo all’insegnamento, con una passione che trasuda da ogni suo pacato atteggiamento. “Non sappiamo tutto, c’è ancora tanto da fare, però è iniziato un nuovo corso. Oggi, i nostri figli hanno qualcosa che noi non abbiamo avuto: la possibilità di studiare il Menominee come seconda lingua”.
Salutando Ron, in un certo senso sento già la sua nostalgia. Mi racconta di quando va a caccia nei boschi e gli dico che, un giorno, mi piacerebbe andare con lui.

In giro per la riserva

Con grande – e pienamente giustificato – orgoglio, Paula ci porta a visitare le strutture principali della Riserva: entriamo negli uffici della polizia tribale, dove ci viene spiegato il complesso meccanismo della giurisdizione tribale. All’interno della riserva, infatti, l’applicazione della giustizia spetta alla polizia tribale, ma gli individui esterni, come Anna ed io, ad esempio, sono sotto la giurisdizione della polizia federale, che ha competenza anche per i crimini più gravi, quali l’omicidio. Immaginiamo che un nativo pesti a morte un altro nativo: per le percosse dovrà rispondere alla legge tribale, ma il giudizio sull’omicidio competerà invece all’autorità federale. La legge federale, però, non ha efficacia nella riserva per i crimini minori.
Visitiamo poi l’anagrafe e l’edificio dell’amministrazione. Per essere ammessi nella Tribù, occorre dimostrare di avere almeno il 25% di sangue menominee. Tutte le richieste vengono verificate dall’amministrazione, verificando l’archivio storico e studiando l’albero genealogico nell’individuo. Se non si raggiunge la percentuale, l’ammissione non viene concessa.


L’insegna del college

Insieme visitiamo la Highschool e il College: edifici di costruzione recente e pieni di colori, pensati per consentire ai più di giovani di “imparare a camminare nei due mondi”, ovvero ad adattarsi al mondo dei bianchi senza per questo rinnegare le proprie radici.
La riserva dispone inoltre di un efficiente ospedale: la malattia più diffusa, purtroppo, è il diabete, derivante dalla dieta introdotta dall’uomo bianco, troppo ricca di zuccheri e carboidrati.
Passo un po’ di tempo al Menominee Museum: si tratta di un museo piccolo ma pieno di manufatti interessanti, come, ad esempio, canoe, punte di freccia, abiti tradizionali e una gigantesca scultura in legno che raffigura il Clan dell’Orso.

Tempo di commiato

L’ultima sera, a cena, insisto per cucinare una pasta. Il risultato, sinceramente, non è un granché, ma è bello condividere insieme un ultimo momento.
Impossibile ringraziare abbastanza Paula e Wade per tutto quello che hanno fatto per noi, per il tempo che ci hanno dedicato, per i sentimenti e i pensieri che hanno condiviso.
Al momento di partire, la mattina presto, Wade suona per noi il flauto: è il suo modo per salutarci e augurarci buon viaggio. La melodia, dolce e dal sapore antico, sembra avvolgerci come un mantello e ci sentiamo sereni.
Con Paula, ci salutiamo un po’ più tardi: impossibile trattenere le lacrime. Speriamo tanto di rivederli presto.


Wade Fernandez suona il flauto

Un antico proverbio arabo afferma che “chi non viaggia non conosce il cuore degli uomini”. In effetti, per me e Anna, quest’“avventura” nella riserva menominee è stata l’occasione di confrontarci con una realtà diversa dalla nostra. Mettere tra parentesi, anche solo per un attimo, le proprie certezze per confrontarsi con idee e modi di vivere diversi dai nostri può essere un esercizio un po’ destabilizzante, ma sicuramente istruttivo e fecondo. Soprattutto se, come in questo caso, la cultura in questione, quella dei Nativi Americani, ci affascina sin da quando eravamo bambini.
Scoprire la diversità culturale è, a mio giudizio, utile da due punti di vista: in primis, perché ci permette di imparare dagli altri, ma anche perché ci insegna qualcosa di più su noi stessi.
In Italia, come in gran parte dell’Europa, quando si parla di “indiani” la mente corre quasi automaticamente ai popoli della Grandi Pianure. Sioux, Comanche, Apache sono, in genere, le tribù che ci vengono in mente quando pensiamo ai Nativi d’America, perché le loro gesta ci sono state riproposte in mille versioni da film e nuvole parlanti.


Un Menominee in abiti tradizionali

I Menominee, purtroppo, non hanno goduto della stessa esposizione mediatica e letteraria, ma la loro cultura e la loro storia meritano di essere conosciute.
Le popolazioni native sono state ferite gravemente – quando non mortalmente – dall’avvento degli Europei e dal modello che definiamo “occidentale”. Imbattersi in persone che, malgrado le enormi difficoltà attuali, continuano a lottare per mantenere vive le proprie tradizioni e per proteggere la natura è commovente ed esaltante al tempo spesso.
Mi riempie di gioia e orgoglio avere la possibilità di condividere la mia esperienza e di regalare un’eco, per quanto fioca, dello scorrere impetuoso del Wolf River.
Waewenin! Grazie.

Per approfondire

Fonti bibliografiche

Patty Loew, Indian Nations of Wisconsin, Wisconsin Historical Society Press, 2013
David R. M. Beck, Siege & Survival, History of the Menominee Indians (2 volumi), University of Nebraska Press, Lincoln & London, 2002
Co-autrice, consulenza e revisione del testo: Paula Fernandez
La musica di Wade Fernandez
Sawaenemiyah (Blessed) https://www.youtube.com/watch?v=Z365f3ZS8Sw
Still standing proud https://www.youtube.com/watch?v=QXJTQmoyPFY
Commodity Cheese Blues https://www.youtube.com/watch?v=nixY43jOxBY

Il sito della tribù Menominee e della Riserva
http://www.menominee-nsn.gov/

Testo: Gian Mario Mollar, co-autrice, consulenza e revisione del testo: Paula Fernandez
Foto: Anna Di Stefano

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