Gli irriducibili Seminole delle Everglades

A cura di Renato Genovese
Everglades, terra di fiumi, di paludi, di canali che vanno a perdersi tra isole di giunchi, macchie di cipressi e fitti intrecci di mangrovie. Everglades, terra di silenzi inquietanti spezzati dai richiami degli animali, dal ronzio delle zanzare e dal sibilo dei serpenti, dagli splendidi colori delle orchidee e delle farfalle che si stagliano sullo sfondo di un’immensa macchia verde. Ma, soprattutto, Everglades, terra di fuggiaschi. Eh sì, perché fu qui, in questa distesa di acquitrini impraticabili, che, a partire dall’inizio del Diciottesimo secolo, andarono a rifugiarsi molti gruppi di profughi della nazione Creek, indiani che, rinnegando le proprie origini, avevano adottato il nome di Seminoles, un termine che, per l’appunto, significa “uomini liberi, selvaggi, irriducibili”.
Gli invasori europei avevano cominciato a espandersi anche verso Sud, dilagando nelle regioni che oggi compongono gli Stati della Georgia, del Tennessee, dell’Alabama, della Carolina del Nord e di quella del Sud; di conseguenza, i popoli che li abitavano fin dalla preistoria cominciarono ad abbandonare i loro luoghi d’origine per spingersi sino alla Florida, il lungo dito dell’America del Nord che si protende verso Cuba e i Caraibi, ancora oggi indice ammonitore rivolto contro nemici potenziali o reali, e ponte di speranza per chi cerca una nuova patria o una nuova vita.
Il Paese era già occupato da altre tribù, come gli Apalachee, i Timucan, i Tocobaga, i Calusa, i Tequesta e i Matecumbe, le stesse che i Conquistadores spagnoli Hernando de Soto, Juan Ponce de Leon, Hernando de Escalante Fontaneda e Pedro Menéndez de Avilés, oltre ai francesi René Goulaine de Laudonnière e Dominique de Gourgues, avevano incontrato nel Sedicesimo secolo, riducendole spesso in schiavitù e diffondendo fra loro sconosciute, letali malattie. I due gruppi etnici si integrarono senza difficoltà, dimostrando una incredibile capacità di adattamento a un ambiente che non aveva nulla in comune con quello da cui provenivano, e lo stesso avvenne quando la Florida fu raggiunta da centinaia di schiavi neri (principalmente Ibo, Egba, Senegalesi e Ashanti), fuggiti dalle piantagioni del Sud.
Con la canoa
Alla fine, tanto gli africani (che avevano preso il nome di Seminoles Neri) quanto gli indiani lottarono fianco a fianco contro gli eserciti degli Stati Uniti inviati nella Florida per sottometterli.
I Seminoles assunsero ben presto l’immagine di un popolo a parte rispetto agli altri nativi americani, anche grazie al loro abbigliamento originale e inconsueto: le gambe fasciate da alte ghette di stoffa o di cuoio colorato, giacche lunghe sino al ginocchio di foggia quasi orientale, corredate da ornamenti e monili perfettamente in sintonia con gli eccentrici turbanti e le raffinate acconciature usate per copricapo.
Degli indiani diversi, insomma, da qualunque lato li si osservasse, anche se, per i colonizzatori, erano soltanto fastidiosi ostacoli da superare (un po’ come i serpenti, le sabbie mobili e gli alligatori). Nella guerra del 1812 fra l’Inghilterra e gli Stati Uniti, i Seminoles e i loro alleati di colore (i già citati Seminoles Neri), ancora inseguiti dai cacciatori di schiavi sguinzagliati sulle loro tracce dai governi degli Stati meridionali che si erano uniti alle truppe americane, fecero una precisa scelta di campo, schierandosi a fianco dei soldati di Sua Maestà Britannica. Infatti, mentre l’ancora acerba e aggressiva repubblica degli Stati Uniti era in piena espansione a danno dei territori indiani, gli Inglesi e gli Spagnoli mantenevano nei confronti dei nativi un atteggiamento tollerante, se non proprio di totale disinteresse.
La campagna militare con cui speravano di riconquistare le loro ex colonie del Nuovo Mondo cominciò piuttosto bene per i britannici, al punto che una loro spedizione navale riuscì a risalire il fiume Potomac fino a Washington e a dare fuoco addirittura alla Casa Bianca. Come spesso succede, questi gesti clamorosi risvegliarono la reattività degli offesi, e gli Americani, ai quali non mancavano certo l’orgoglio e lo spirito combattivo, non soltanto inanellarono una lunga serie di successi, ma tentarono a più riprese di invadere anche i territori del Canada conquistati dagli Inglesi, con l’aiuto delle allora fedeli milizie coloniali, nel corso delle precedenti Guerre Franco-Indiane.
Un indiano Creek
L’Alleanza Seminoie – che contava trentaquattro insediamenti di indiani e tre di ex schiavi – partecipò marginalmente al conflitto, ma tanto le bastò per farsi un nemico di imponente statura sia fisica che morale: il generale Andrew Jackson, eroe della difesa di New Orleans e uomo di punta della riscossa americana. Appena la situazione cominciò a farsi problematica, in Inghilterra si perse interesse nei confronti di un’operazione bellica che gravava pesantemente sulle casse del Regno; quindi, tutte le tribù che avevano sostenuto la Corona – dagli Shawnee di Tecumseh, più a Nord, agli stessi Seminoles – rimasero senza protettori e in balìa degli infuriati yankees che, fin dai tempi della Guerra d’Indipendenza, si erano sempre scontrati con i nativi ostili, sobillati dai britannici. Liquidati questi ultimi, Jackson iniziò a regolare i suoi conti con i Creek, costringendoli, nel corso di una breve guerra (1813-1814), a cedere due terzi del loro territorio.
Molti appartenenti alla tribù dei Bastoni Rossi preferirono rifugiarsi in Florida, andando a ingrossare le fila dei Seminoles, il cui numero, comunque, non superò mai le sei-ottomila unità, con non più di mille guerrieri combattenti.
A quell’epoca, i grandi conflitti iniziavano, di solito, da piccole, e apparentemente marginali, scaramucce; allo stesso modo, nel 1817, scoppiò la Prima Guerra Seminoie. A dar fuoco alle polveri fu il capo Neamathla Micco: quando questi intimò alle truppe americane (che cominciavano lentamente ad affluire verso la Florida con l’intento di sottrarre il Paese alla debole e lontana Spagna) di non entrare nel territorio di caccia indiano, alcune centinaia di miliziani attaccarono il suo villaggio. Ma non avevano fatto i conti con una tribù che, da quel giorno, avrebbe lottato seguendo i canoni di una implacabile guerriglia, condotta in zone inesplorate di cui, invece, i Seminoles conoscevano ogni recesso e ogni segreto, pur abitandovi soltanto da pochi decenni.
John Quincy Adams
I guerrieri di Neamathla Micco, per rappresaglia, tesero un agguato ai barconi sui quali i soldati si addentravano in territorio indiano, uccidendone molti; non riuscirono, però, a impedire la distruzione dei vecchi Forti di Prospect Bluff e di Nero, dove si erano insediati alcuni gruppi di schiavi fuggiaschi facenti parte dell’Alleanza Seminoie.
Nel corso della guerra, la Spagna cedette la Florida agli Stati Uniti per cinque milioni di dollari. Ora il confronto diventava più feroce, perché non si trattava più di combattere limitate scaramucce di Frontiera, ma ci si batteva per offrire nuove terre ai coloni da una parte, e per la stessa sopravvivenza dall’altra. Ancora una volta, gli americani si affidarono al generale Jackson che, dopo la ratifica del Congresso, ebbe dal Segretario di Stato John Quincy Adams l’ordine di raggiungere tre obiettivi: occupare le regioni appena cedute dagli Spagnoli, pacificare la Florida e stabilire un governo territoriale del quale egli stesso sarebbe diventato il capo. Tutti e tre gli obiettivi significavano una cosa sola: l’Alleanza Seminoie andava distrutta. Le truppe regolari di Jackson e la milizia creata per ‘occasione avanzarono baldanzosamente nel territorio indiano, ma, come ebbero a sperimentare anche nelle due guerre successive, finirono per trovarsi letteralmente impantanati tra le macchie scure della Florida. Gli indiani colpivano a sorpresa, dando vita a una serie di imboscate, razzie, colpi di mano e scontri micidiali, dopo i quali si ritiravano, per rituffarsi nella vegetazione delle amate Everglades.
Per gli uomini in uniforme, le spedizioni lanciate contro i Seminoles e i loro alleati di colore erano un incubo, un calvario lungo il quale erano costretti a camminare su un fondo cedevole e molle, senza mai sapere – finché magari non era troppo tardi – se ciò che frusciava sfiorando i piedi e le gambe fossero sterpi, ammassi vegetali o fauci di alligatori, capaci di nuotare anche nell’acqua poco profonda, nascosti dall’ombra degli alberi e dall’oscurità delle paludi.


Le Everglades

E, soprattutto, senza poter prevedere se, tra i rami di questa o di quella pianta, si nascondesse un tiratore armato di arco o di moschetto, pronto a colpire e a eclissarsi come un fantasma.
Il passo delle pattuglie e delle colonne della fanteria, dunque, non era spedito e marziale, ma esitante e timoroso: con la mente assalita da lancinanti paure e il corpo sfinito dal sudore e dalla fatica, in un ambiente ostile e insidioso, dove una temperatura di trentacinque gradi con un’umidità dell’aria del novanta per cento formavano una cappa di piombo fuso, i soldati vivevano in uno stato di tensione perenne. Ad aggravare la situazione c’erano, poi, la febbre gialla, le malattie tropicali tipiche delle zone paludose e il fatto che, da giugno a novembre, sulle Everglades incombeva (e incombe tutt’oggi) la stagione degli uragani e delle tempeste tropicali, con miriadi di zanzare che non davano (e non danno) tregua. I cannoni, infine, potevano essere trasportati esclusivamente per via fluviale, esponendo gli artiglieri ai colpi degli indiani annidati nella boscaglia o fra l’erba alta. Nonostante la fatica e le perdite, gli uomini di Jackson riuscirono a distruggere i villaggi degli ex schiavi e anche molti insediamenti seminoie, privandoli delle scorte di cibo, degli utensili e, quel che più conta, delle armi e delle munizioni difficili da rimpiazzare, e respingendoli sempre più profondamente nel cuore della Florida.
Qui, i Seminoles si adattarono a costruire i “chickee”, le tipiche abitazioni su palafitte con il tetto di corteccia di cipresso e il pavimento coperto di foglie di palma, che rappresentavano un riparo provvisorio e veloce durante i continui spostamenti. Ma il duello era troppo impari per durare a lungo e, dopo due anni di aspro conflitto, i capi indiani decisero di trattare. Mentre alcune bande accettarono di trasferirsi in Oklahoma insieme ai loro consanguinei Creek, la maggior parte dei Seminoles rimasero in Florida, ignari del fatto che, sul loro futuro, pendeva una spada di Damocle inesorabile. Nel 1829, infatti, Andrew Jackson era stato eletto Presidente degli Stati Uniti: pur originario del Sud, egli non sentiva di rappresentare i grandi latifondisti, bensì quella massa di piccoli coltivatori che vivevano lungo la Frontiera, trovandosi quotidianamente in conflitto con i “musi rossi”.


Un villaggio Seminole

Fedele al mandato dei suoi elettori, Jackson varò una legge, definita “Indian Removal Act”, con la quale si decretava il trasferimento nel Lontano Ovest delle cosiddette tribù “civilizzate”, cioè di quelle che, da più tempo, erano in contatto con i bianchi: i Creek, i Chikasaw, i Choctaw, i Cherokees e, guarda caso, i Seminoles. L’incendio era destinato a riaccendersi, ma, stavolta, gli indiani avevano molte frecce al loro arco, e, soprattutto, due capi destinati a lasciare una traccia indelebile nel sanguinoso libro delle guerre indiane: Charley Emathla e Osceola, la Volpe delle Paludi. Il primo, insieme ai capi Micanopy e Halpatter Tustenuggee (chiamato dagli americani “Alligatore”), materialmente accese la polveriera bellica, tendendo un’imboscata ai militari che andavano a rinforzare Fort King: lo scontro, in cui morirono centocinque dei centootto uomini agli ordini del maggiore Francis L. Dade, passò alla Storia come “il massacro di Dade”.
L’attacco a Dade
La perfetta riuscita dell’agguato era stata resa possibile dall’azione di uno schiavo di nome Louis Pacheco, che, dopo aver informato i Seminoles dei movimenti dei soldati, appena questi aprirono il fuoco, andò a rinforzare le file dei Seminoles Neri. Osceola, però, fu il vero eroe della Seconda Guerra Seminoie, visto che Charley Emathla finì per trattare la sua resa con gli americani. Osceola era nato sulle rive del fiume Tallapoosa, in Georgia, pare da una Creek e da un padre mezzosangue; quando aveva quattro anni, la sua famiglia si trasferì in Alabama e quindi fu costretta a emigrare in Florida, al pari di numerose tribù Creek. Da ragazzo, si fece le ossa nella Prima Guerra Seminoie, e questa esperienza lo spinse ai quattro angoli delle Everglades, di cui finì per conoscere anche il più piccolo recesso. Nel 1832, molti capi strinsero trattati di pace con il governo degli Stati Uniti, ma Osceola si rifiutò decisamente di accettare qualsiasi sottomissione.
Poiché gli americani avevano rapito sua sorella per venderla come schiava, il suo odio era alimentato da una bruciante sete di vendetta. Quando l’agente indiano Wiley Thompson convocò un consiglio al quale partecipò un buon numero di leader seminoie, Osceola tirò fuori il coltello inchiodando al tavolo le pagine del trattato: “Questo è l’unico patto che io farò con i bianchi!”, esclamò, e quella fu una tragica promessa che mantenne fino alla morte. Osceola aveva ben chiaro in mente che, per i suoi valorosi ma sparuti guerrieri, non ci sarebbe stato scampo se avessero affrontato le truppe in campo aperto; così, come si conviene a un carismatico condottiero di bande partigiane, portò a livelli di eccellenza la difficile arte della guerriglia. Colpire e fuggire, stare sempre in movimento, non dare punti di riferimento ai soldati, cogliere ogni occasione per rifornirsi di fucili e munizioni, procurare il cibo per sé e per la propria famiglia ricorrendo anche alle fonti di alimentazione più inconsuete e repellenti che garantivano soltanto una flebile soglia di sopravvivenza, erano i capisaldi della sua dottrina, princìpi disperati che, in ogni caso, consentirono di opporre una fiera resistenza agli americani per circa tre anni, costringendoli a sostituire otto generali e a spendere trenta milioni di dollari per tenere in piedi la spedizione.
Il capo Osceola
È naturale che un guerriero del genere non si sarebbe fatto prendere facilmente: nemmeno i cani di razza blood-hound importati da Cuba sortirono l’effetto voluto… Ma dove le armi e le strategie si erano rivelate inutili, funzionò, come spesso accade, il tradimento. A dispetto del coraggio e delle tattiche adottate, la guerra aveva logorato i Seminoles, ridotti a poche centinaia di combattenti, gravati da un paio di migliaia di donne, vecchi e bambini. Così, nell’ottobre 1837, Osceola si accordò con il generale Thomas Jesup per un incontro, al quale partecipò con una settantina dei suoi accoliti. Manco a dirlo, i soldati balzarono addosso agli indiani, catturandoli e mettendoli ai ceppi.
I Seminoles propriamente detti vennero spediti nel Territorio Indiano dell’Ovest, mentre quelli di colore furono di nuovo ridotti in schiavitù. Osceola, invece, fu trasferito in South Carolina. E fu qui che morì nel gennaio 1838, ma il famoso pittore di indiani George Catlin fece in tempo a ritrarlo e a tramandarci l’immagine di un capo orgoglioso e pieno di pacata dignità. Di questo non parvero accorgersi gli altri bianchi, dato che il medico del reggimento tagliò la testa di Osceola e la spedì come “reperto di alto valore antropologico” a un museo di New York, successivamente distrutto da un incendio. Scomparsa la Volpe delle Paludi, i Seminoles si gettarono senza troppe speranze nell’ultimo e definitivo conflitto con il Governo americano, durato altri tre anni. Poi, finalmente, gli statunitensi rinunciarono a dare la caccia al centinaio scarso di resistenti asserragliati nelle Everglades, perché ormai questi non erano più in grado di nuocere ai colonizzatori.
La Florida era diventata il ventisettesimo Stato dell’Unione il 3 marzo 1845, circa tre anni dopo la fine della Seconda Guerra Seminoie. Alla cessazione della Terza, la popolazione era arrivata a ottantasettemila abitanti, tra cui circa trentanovemila schiavi afro-americani, mille ex schiavi di colore e meno di trecento Seminoles irriducibili che, per almeno mezzo secolo, rimasero in un totale isolamento dal resto del mondo. Furono gli unici nativi a non aver accettato né firmato trattati con il governo degli Stati Uniti, gli unici indiani che non si arresero mai.

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