Florida 1835 : l’ultima missione di Dade
A cura di Renato Ruggeri
Fort Brooke, sulla Baia di Tampa
La Seconda Guerra Seminole fu la più lunga, costosa e sanguinosa guerra indiana nella storia degli Stati Uniti.
Durò sette anni, dal 1835 al 1842, e costò al Governo Americano 30 milioni di dollari.
Più di 1500 soldati morirono prima della fine del conflitto e tutti gli Indiani superstiti, ad eccezione di un paio di centinaia, furono deportati nella lontana Oklahoma.
A metà della costa occidentale della Florida, sulla baia di Tampa, si ergeva Fort Brooke, il principale porto di sbarco delle truppe. Centosei miglia più a nord, passando per una strada militare tagliata a colpi d’ascia attraverso la natura selvaggia e semitropicale della Florida, vi era Fort King, una importante postazione fortificata, sede dell’Agenzia Indiana e, anche, trading post.
Nel dicembre 1835, centosette soldati guidati dal Maggiore Francis Langhorne Dade si misero in marcia su questo pericoloso sentiero, chiamato Fort King Road, attraverso il cuore della nazione Seminole.
Il maggiore Francis L. Dade
Questa è la storia dell’ultima missione di Dade.
Il tentativo di rimuovere i Seminole dalla loro terra natia e espandere, in questo modo, a sud i confini della giovane nazione, portò a una serie di conflitti conosciuti come “Guerre Seminole”.
Nel 1821 gli Stati Uniti acquistarono la Florida dalla Spagna che aveva mantenuto, fino allora, un sempre più flebile controllo sulla penisola.
I coloni americani si riversarono nel nuovo e misterioso territorio, di cui si conoscevano, soprattutto, le zone costiere, con lo scopo di coltivare le terre e avviare piantagioni di zucchero e cotone, reintroducendo la schiavitù.
La Florida era una specie di paradiso e un rifugio sicuro per gli schiavi che fuggivano dalle piantagioni del sud. I Seminole li avevano accolti e integrati all’interno della loro società.
Gli ex schiavi vivevano, in genere, in villaggi separati e l’unica cosa che veniva loro richiesta, essendo abili agricoltori, era una piccola parte del raccolto.
Questa situazione non era per nulla gradita ai proprietari terrieri e ai coloni. Reclamavano la restituzione degli schiavi fuggiti e chiedevano alle autorità la rimozione dei Seminole, che non coltivavano e sfruttavano la terra. Ripulendo il territorio dalla loro presenza, ci sarebbe stato spazio a volontà per nuovi e proficui insediamenti.
Una serie di trattati, dal 1823 al 1833, definirono il clima politico e diplomatico dell’epoca e diedero inizio a una serie di eventi che portarono alla marcia di un contingente di soldati attraverso il territorio Seminole verso un destino fatale.
La Florida, nel 1835, era una terra misteriosa e quasi inesplorata
Il primo di questi trattati fu discusso nel settembre 1823 sul Moultrie Creek, poche miglia a sud di St Augustine.
Il risultato dei negoziati fu stabilire una riserva per i Seminole nel cuore della Florida centrale. Firmando il trattato, i Seminole rinunciavano ai diritti su tutto il resto della penisola, ad eccezione di un’area vasta 4 milioni di acri, larga 60 miglia e lunga 120.
Il confine settentrionale della nuova riserva correva un po’ più a nord di Fort King, odierna Ocala, il confine meridionale cadeva in corrispondenza del limite inferiore della baia di Tampa.
Dal momento che il Governo temeva che i Seminole potessero essere influenzati da contatti con agenti stranieri provenienti da Cuba o dalle Bahamas, i bordi occidentali e orientali erano lontani almeno 20 miglia dalla costa.
Il trattato di Moultrie Creek, secondo i firmatari, avrebbe avuto valore per 20 anni.
Le cose cambiarono radicalmente con l’elezione di Andrew Jackson a Presidente degli Stati Uniti. Per Jackson rimuovere gli Indiani dai loro territori non era una questione, ma una certezza. Vedeva gli Indiani come un ostacolo all’espansione della nazione, dovevano andarsene, pacificamente, se possibile, con la forza, se necessario.
Il 28 maggio 1830 fu approvato l’Indian Removal Act, che stabiliva che le tribù dell’est fossero reinsediate a ovest del grande fiume, in una regione, l’Oklahoma, che a quel tempo faceva parte del Territorio dell’Arkansas.
Tra queste i Seminole.
Il trattato di Payne’s Landing del 1832 fu il secondo incontro diplomatico dopo Moultrie Creek. Il Governo degli Stati Uniti fu rappresentato da James Gasden. Sette capi e otto sottocapi trattarono per i Seminole.
Il punto cruciale della discussione fu la rimozione dei Seminole dalla Florida e la loro ricollocazione a ovest, in un territorio che apparteneva alla riserva Creek, nella lontana Oklahoma, una “no man’s land” destinata ai nativi.
Il primo paragrafo recitava così “Gli Indiani Seminole desiderano che alcuni dei loro capi siano mandati a esaminare la regione e, nel caso in cui essi ne siano soddisfatti, l’accordo verrà, poi, ratificato da entrambe le parti”. Su quel semplice pronome, “essi”, si giocò il futuro dei Seminole.
Fu scelta una delegazione di sette capi che arrivarono nel Territorio dell’Arkansas all’inizio dell’inverno, accompagnati da Abraham, un Seminole Nero, che fungeva da interprete.
Per tre mesi il gruppo ispezionò il territorio e parlò coi Creek che già vi rIsiedevano. I capi, abituati a un clima caldo e semitropicale, trovarono la nuova terra fredda, piatta e polverosa, “coperta di neve che gelava i cuori”. Malgrado ciò, firmarono a Fort Gibson, il 28 marzo 1833 un trattato in cui dichiaravano di essere soddisfatti del territorio proposto e favorevoli al’espatrio del loro popolo. Perchè lo fecero non è chiaro. In seguito alcuni di loro accusarono l’interprete Abraham di essere stato corrotto per manipolare gli accordi, altri affermarono di essere stati minacciati di non far più ritorno in Florida.
Quando vennero a conoscenza del trattato, i capi Seminole rimasti in Florida si infuriarono. Dissero che l’approvazione del trattato di Payne’s Landing spettava solo a loro e che quel termine “ essi”, si riferiva all’intera nazione Seminole. I sette capi avrebbero dovuto, solo, riferire le loro impressioni. Per il Governo Americano “ essi “ significava i sette delegati. Questa semplice parola, scritta e artificiosamente travisata, decise il destino dei Seminole. Dovevano abbandonare la loro terra entro tre anni.
La firma del trattato di Fort Gibson e il rifiuto di alcuni capi Seminole di riconoscerlo, portarono a un graduale aumento della tensione tra bianchi e Indiani.
La crisi esplose nel 1835. I Seminole si prepararono a combattere, armandosi e nascondendo le famiglie all’interno del territorio, mentre i coloni, organizzati in milizie, iniziarono a fortificare fattorie e piantagioni.
La terra destinata ai Seminole in Oklahoma
Il primo incidente avvenne il 18 giugno 1835, vicino a un luogo chiamato Hickory Sink. Cinque Seminole, usciti dalla riserva, trovarono e uccisero una vacca che apparteneva a un colono. Furono, però, scoperti da un gruppo di miliziani della Spring Cove Guard, catturati e frustati. Mentre era in corso la fustigazione, giunsero alcuni guerrieri che aprirono il fuoco. Tre bianchi rimasero feriti e un Seminole morì.
La vendetta non si fece attendere e colpì, in agosto, un solitario soldato che serviva da corriere tra Fort King e Fort Brooke. Lo sfortunato soldato si chiamava Kinsley Dalton e il suo corpo, scalpato e mutilato, fu trovato su un lato della strada con i dispacci che portava sparpagliati lungo la Fort King Road.
Ma ci fu una escalation della violenza anche tra i Seminole.
Un capo importante, Charley Emathla, fu ucciso davanti alla sua famiglia da Osceola, vicino a Fort Brooke, nel mese di novembre.
Emathla aveva appena venduto il suo bestiame in preparazione alla partenza e Osceola sparpagliò i soldi sul suo corpo, in segno di disprezzo. Era un chiaro segnale intimidatorio diretto contro coloro che avevano deciso di lasciare la Florida.
Il 18 dicembre 1835 ci fu il primo scontro con i soldati, quando Osceola e 60 guerrieri attaccarono e catturarono un convoglio di rifornimenti scortato da 30 soldati, miliziani della Florida. La sorpresa fu totale e le perdite, tra i bianchi, furono 8 morti e 6 feriti. Lo scontro fu chiamato “battaglia di Black Point”.
All’inizio della Seconda Guerra Seminole vi erano, in Florida, 536 soldati, 26 di questi ufficiali. Un numero estremamente esiguo. Erano sparsi in una decina di forti congregati nella parte centro-settentrionale della penisola, ad eccezione di Key West. Per rimpinguare il loro numero, il Segretario alla Guerra aveva autorizzato l’arruolamento di 150 miliziani a cavallo, come forza mobile esperta del territorio.
Non si conosceva il numero dei Seminole. Si pensava che fossero 4000-5000 e il numero dei guerrieri era stimato tra 500 a 1400.
Il Generale Duncan Clinch, il comandante dell’esercito in Florida, era molto preoccupato. Temeva soprattutto per Fort King. la postazione militare pIù esposta, sede dell’Agenzia Indiana, difesa da una sola compagnia di soldati, 50 uomini in tutto.
Probabilmente si sentiva in colpa per aver destinato una parte della guarnigione a difesa della sua piantagione di zucchero chiamata Auld Lane Syne.
Il 16 dicembre 1835 Clinch inviò un ordine al comandante di Fort Brooke, il Capitano Francis Belton. Doveva inviare subito due compagnie di regolari a Fort King per rinforzare la guarnigione. L’ordine non fu ben accolto da Belton. Le due compagnie non avrebbero avuto alcun supporto mentre si facevano strada per più di 100 miglia all’interno del territorio nemico.
Le due unità scelte per la difficile missione erano la Compagnia C, 2nd Reggimento di Artiglieria comandata dal Capitano George Washington Gardiner, e la Compagnia B, 3rd Artiglieria del Capitano Upton Fraser. Clinch informò, inoltre, Belton che erano in arrivo rinforzi da Pensacola, Key West e New Orleans, in particolare due compagnie di fanteria del Maggiore John Mountford, 100 uomini in tutto. Non si conosceva, però, la data del loro arrivo.
Belton cercò di temporeggiare. Come comandante di Fort Brooke temeva per la sicurezza del forte e dei coloni che vivevano intorno.
Il 21 dicembre giunse, da Key West, la goletta Motto, da cui sbarcarono il Maggiore Francis Dade e 39 soldati del 4th Reggimento di Fanteria, Compagnia B.
Belton non poteva più posticipare la partenza. Aggregò alcuni di questi soldati al corpo di spedizione e rinforzò, con gli altri, la guarnigione.
Soldato in perfetta uniforme
Poi diede l’ordine di partenza.
La mattina del 23 dicembre 1835 nella piazza d’armi del forte si schierarono, in fila per due, 99 soldati, 88 appartenenti all’artiglieria e 11 alla fanteria, e otto ufficiali, tra cui John Gatlin, Assistente Chirurgo.
Il comandante della spedizione era Gardiner, che si era diplomato a West Point, al contrario di Fraser che era salito di grado passando attraverso i ranghi.
I soldati indossavano il cappello di cuoio nero modello 1833, alto 17 pollici (17, 78 cm), che aumentava l’altezza, ma non la loro sicurezza. Poteva essere usato, in casi particolari, per raccogliere acqua o mais. Il “ forage cap” dei fanti e degli artiglieri portava, in ottone, la lettera della compagnia e il numero del reggimento.
Il cappotto invernale grigio blu era di lana pesante, ”double breasted”, a doppiopetto, con un colletto rialzato e una mantellina che arrivava al gomito. Una fila di nove bottoni dorati per gli artiglieri e colorati in argento per i fanti correva dal bavero rialzato fino al bordo inferiore, otto cm sopra il ginocchio.
Durante la marcia il cappotto era tenuto aperto in modo che i soldati, in caso di attacco, fossero in grado di prendere subito le munizioni.
Alcuni soldati avevano avvolto il cappotto, umido a causa della pioggia, insieme alla coperta di lana blu sopra lo zaino che portavano sulle spalle.
Sullo zaino degli artiglieri vi erano dipinti due cannoni gialli incrociati, il numero del reggimento e la lettera della compagnia. Sullo zaino dei fanti un corno da caccia bianco.
I soldati indossavano una giubba sky blue, celeste, “roundabout”, corta in vita e aderente, con un colletto a striscie gialle per l’artiglieria e bianche per la fanteria. Sulle maniche, sopra il gomito, erano cuciti dei galloni il cui numero indicava la durata del servizio, che era di cinque anni.
La giubba aveva due tasche nella parte inferiore ed era chiusa da una fila di nove bottoni di metallo bianco “eagle I” per la fanteria e dorati “eagle A” per l’artiglieria. Sotto la giubba indossavano una camicia di cotone bianco.
I pantaloni dello stesso colore, senza striscie laterali erano sostenuti da due bretelle bianche.
Gli stivali di cuoio nero erano bassi. Le calze degli artiglieri erano rosse. Per questo motivo erano noti come “red legged infantry” (artiglieri che venivano addestrati a combattere come fanteria). Le calze dei fanti erano bianche.
Due cinture bianche incrociate formavano una X sul petto di ciascun soldato. A una delle due cinture, lungo il fianco sinistro, era legato il fodero di cuoio che conteneva la baionetta di forma triangolare lunga 16 pollici (40, 64 cm).
All’altra cintura lungo il fianco destro era appesa la “ cartridge box”, una borsa di cuoio nero con un’aquila stampata nel centro, che conteneva le munizioni. Per questa missione a ogni soldato erano stati concessi 30 proiettili.
Le due cinture erano tenute in posizione da una fibbia con l’immagine dell’aquila a ali spiegate “spread eagle”.
Vicino alla scatola delle munizioni era appesa una bisaccia di lino bianco che conteneva le razioni: 18 libbre di un pane duro chiamato “biscotto di mare”, insieme a un pezzo di formaggio.
Ogni soldato poteva scegliere tra una libbra e un quarto di manzo sotto sale o tre quarti di libbra di carne di maiale. Alcuni uomini avevano comprato, a caro prezzo, prima della partenza, delle arance portate a Fort Brooke da Cuba. I soldati avevano avvolto le razioni in giornali, stoffe e anche foglie per non sporcare la sacca e tenere divise le razioni.
Vicino alla baionetta era appesa una borraccia di legno, blu Prussia, con tappo di sughero e la scritta US in giallo.
Sia la sacca di lino che la borraccia erano legate a strisce di cuoio che attraversavano il torace.
Tutti i soldati erano armati con un moschetto a pietra focaia e canna liscia modello 1816, calibro 69. Un soldato ben addestrato poteva sparare fino a tre colpi al minuto.
Fanteria
Vi era, però, un grosso problema.
La moglie di Gardiner si trovava nell’infermeria del forte, gravemente malata, e così Dade, che non avrebbe dovuto far parte della spedizione, si avvicinò a Belton e si offrì di guidare la marcia al posto di Gardiner, in modo che potesse rimanere a fianco della moglie. Belton acconsentì. Fu quindi Dade a guidare la colonna fuori dal forte verso Fort King.
Non esiste un suo ritratto. Un nipote lo descrisse in questo modo “Era un uomo alto e ben proporzionato. La sua caratteristica principale era una folta barba nera che raggiungeva la vita e un paio di stivali alti fino al ginocchio. Quando si sedeva non si capiva dove finisse la barba e iniziassero gli stivali. Aveva l’abitudine di portare sempre la spada, anche quando era in casa, e ricordo il rumore che faceva quando strisciava sul pavimento”.
Una giubba dell’epoca
Era nato in Virginia nel 1792 nella King George County da famiglia facoltosa, e aveva vissuto la tipica vita di un rampollo di buona famiglia. Un tutor personale, caccia pesca, cavalcate, educazione nell’uso delle armi, fino a quando si arruolò nell’esercito come Terzo Luogotenente nel 12th Reggimento di Fanteria.
Partecipò alla guerra del 1812 e fu promosso, nel 1816, Capitano.
Fu, poi, trasferito nel 4th Reggimento di Fanteria, dove servì per tutta la vita.
Nel 1825 guidò una spedizione militare da Fort Brooke all’Agenzia Indiana, vicino al luogo dove, due anni dopo, sarebbe sorto Fort King.
Allora era solo un sentiero indiano, e la spedizione si era mossa velocemente, portando a termine la missione. Quello stesso anno 80 uomini avrebbero tagliato a colpi d’ascia, attraverso la vegetazione, la Fort King Road.
Nel 1828 fu promosso a Brevet Major e nel 1833 fu trasferito a Key West, un’isoletta che era stata un deposito navale e dove, nel 1831, era stato costruito un campo militare.
Lo possiamo immaginare quella mattina mentre, seduto sul suo cavallo come una statua, stringe le redini con guanti bianchi.
Il cappello è decorato con una piuma bianca, l’aquila con le ali spiegate e il corno da caccia.
Indossa una giubba blu scuro, con spalline in argento, e una fascia rossa in vita.
I pantaloni sono celesti con striscia bianca laterale e gli stivali neri, alti fino al ginocchio, con speroni dorati in ottone.
Nella fondina porta la pistola M1819 a pietra focaia e canna liscia, calibro 54 e in un fodero di ferro la spada a lama leggermente curva con impugnatura in avorio.
Accompagnavano la spedizione un carro di rifornimenti, trainato da un cavallo, che portava sale, aceto, piselli, fagioli, caffè, bacon, un paio di barilotti di rum e munizioni, e un cannone da sei libbre, un six pounder, guidato da quattro buoi. Sparava palle rotonde e a mitraglia e il suo scopo principale era spaventare e demoralizzare il nemico e incoraggiare il fuoco amico. Gran parte degli uomini di Dade erano artiglieri usati “part time “ come fanteria.
La Fort King Road si dipanava per più di 100 miglia in direzione nordest. Il tratto più pericolosi erano i due terzi iniziali. Bisognava attraversare tre fiumi: il Little Hillsborough. il Big Hillsborough e i due rami del Withlacoochee. Il momento del guado era il più esposto, quando metà degli uomini si trovavano su una sponda, l’altra metà sull’altra e il resto dei soldati immerso nell’acqua gelida. I Seminole potevano nascondersi dietro ogni pino, palma o cespuglio. Non si sapeva, poi, se i ponti fossero ancora in piedi o bruciati.
In particolare le 12 miglia comprese tra i due rami del Withlacoochee erano particolarmente pericolose. Costituivano la propaggine meridionale di una grande palude conosciuta come Cove of Withlacoochee, una terra incognita, un labirinto di Creta popolato da allogatori, serpenti e insetti. Una roccaforte naturale quasi impenetrabile. Qui i Seminole avevano posto i loro villaggi sopra gli hammocks, delle strisce di terra asciutta e alberata, degli isolotti in mezzo all’immenso acquitrino.
In caso di pericolo potevano nascondere le famiglie all’interno delle paludi, dove avrebbero potuto vivere anche per anni. Potevano, poi, colpire in maniera fulminea e ritirarsi senza lasciare traccia, sfruttando la loro tattica preferita, la guerriglia.
La mattina del 23 dicembre 1835 le due colonne uscirono dal forte, al suono di una banda. La colonna principale era preceduta da un’avanguardia e seguita da una retroguardia.
Dade aveva inviato alcuni fiancheggiatori ai lati, anche se il pericolo, in questo primo tratto di viaggio, era minimo.
La strada si snodava verso nordest per le prime 20 miglia, allontanandosi pian piano dalla baia di Tampa. Era fiancheggiata da foreste di pini e querce ed era, sostanzialmente, dritta. Molte erano le palme e i soldati calpestavano con gli stivali le foglie cadute sul terreno.
Il Maggiore Dade era ben conscio delle sue responsabilità, e durante quel primo giorno di marcia, ebbe tutto il tempo di riflettere sulla situazione.
La colonna avrebbe potuto raggiungere facilmente, prima del tramonto, il Little Hillsborough e preparare l’accampamento. Forse il ponte era stato distrutto, ma i soldati avevano asce per costruire zattere con i tronchi di pino. Gli altri due fiumi, il Big Hillsborough e il Withlacoochee costituivano, invece, un grosso problema. Era probabile che i ponti lungo la strada militare non fossero più in piedi. Dade si aspettava di trovarli bruciati e gli eventuali guadi erano i punti più esposti. I Seminole potevano aspettarli proprio lì, nascosti tra gli alberi e i cespugli. Il Little Hillsborough era abbastanza sicuro, poco più di un torrente, ma per gli altri due il discorso era diverso. Ma bisognava attraversare i fiumi, in un modo o nell’altro e farlo senza sprecare troppo tempo.
Ci fu, quasi subito, un grosso contrattempo. I buoi non riuscivano a trascinare il cannone. Era troppo pesante e il terreno sabbioso, reso ancor più soffice dalla pioggia, non facilitava il compito. Le ruote sprofondavano e, malgrado gli incitamenti vocali e la frusta del conducente, la distanza tra la colonna e il cannone andava, gradatamente, aumentando.
Avevano percorso solo quattro miglia e il cannone era già una zavorra.
Dade diede ordine di staccare gli animali e di aggiogarli al carro vivande al posto dell’unico cavallo, e di abbandonare il cannone.
Poi, dopo essersi consultato con i suoi ufficiali, decise di inviare a Fort Brooke il Lt Benjamin Alvord, un soldato di 22 anni, con un messaggio per Belton. Gli chiedeva di inviare subito tre cavalli a rimpiazzo dei buoi. Alvord si mise immediatamente in viaggio.
Dade era un ufficiale di fanteria e il suo compito era portare in salvo i soldati a Fort King senza perdere tempo.
Capiva, però, che la presenza del cannone avrebbe potuto terrorizzare i Seminole e rinforzare il morale dei suoi uomini, il 90% dei quali erano artiglieri.
Il Lt Alvord iniziò, subito, il suo breve viaggio verso Fort Brooke. Una volta arrivato, consegnò il messaggio di Dade al Capitano Belton che, immediatamente, ordinò a tre soldati di portare i cavalli richiesti per il trasporto del cannone.
Nel frattempo, al forte, la situazione era mutata. La moglie di Gardiner, gravemente ammalata, era stata imbarcata sulla goletta Motto, in partenza per Key West, dove avrebbe trovato cure migliori, e così il Capitano chiese di poter raggiungere la sua compagnia.
George Gardiner era nato a Kingston, nello stato di New York, da famiglia facoltosa. Il padre era avvocato.
Era un uomo tarchiato e piccolo, la sua altezza superava, a stento, l’1 e 50.
Si era graduato a West Point nel marzo 1814, primo della sua classe, giusto in tempo per partecipare alle fasi finali della guerra del 1812.
Pur essendo un ufficiale di artiglieria, le sue qualità professionali furono notate dal Maggiore Sylvanes Thayer, noto riformatore dell’Accademia, che lo raccomandò, nel 1817, come istruttore di tattiche di fanteria. Poi fu nominato istruttore d’artiglieria e comandante dei cadetti. Aveva, in seguito, servito in varie guarnigioni nel nordest
Nel 1835, all’età di 42 anni, il piccolo Capitano fu inviato in Florida.
Come ufficiale d’artiglieria, la Florida non, era, forse, il posto più adatto, ma molti soldati d’artiglieria erano stati arruolati nella red legged infantry, a causa della mancanza di fanti.
Fu descritto come un uomo molto determinato e di forte carattere, un soldato abile e efficiente che conosceva le tattiche di fanteria e artiglieria, totalmente devoto alla famiglia e ai suoi soldati.
Quando la moglie fu più al sicuro, in viaggio verso Key West, chiese di raggiungere la sua compagnia, e questo la dice lunga sull’attaccamento al dovere della persona.
Al forte si trovava, anche, Luis Pacheco, uno schiavo nero che conosceva bene la regione e parlava la lingua Seminole. Belton lo arruolò per 25 dollari al mese.
I due, Gardiner e Pacheco, partirono subito e nel primo pomeriggio furono in vista del Little Hillsborough. Dade aveva fermato la colonna sulla riva del fiume, e i soldati stavano tagliando tronchi di pino per costruire una barricata intorno all’area del bivacco.
Con la partenza di Gardiner, il numero degli ufficiali era, di nuovo, al completo e così Alvord rimase al forte e si salvò la vita.
Fortunatamente il ponte era, ancora, in piedi, non era stato bruciato. I soldati cenarono con la carne salata, il bacon e le gallette e poi si avvolsero nelle coperte per il meritato riposo.
Gli ufficiali, riuniti intorno al fuoco, discussero, guardando la mappa mentre sorseggiavano caffe e rum, sui movimenti del giorno dopo.
Il prossimo traguardo era il Big Hillsborough, distante 15 miglia.
Improvvisamente si udì un grido. Una delle sentinelle aveva avvistato il cannone, ora trainato da quattro cavalli. La spedizione era, nuovamente, al completo.
Il secondo giorno di marcia, martedì 24 dicembre 1835, i soldati si svegliarono prima dell’alba. La destinazione odierna era il Big Hillsborough, un difficile cammino attraverso un territorio piatto e pieno di pericoli, con la concreta possibilità di trovare il ponte distrutto e, in questo caso, ci sarebbe stato un dannato guado attraverso l’acqua gelida e profonda.
Dade mandò in perlustrazione Pacheco, malgrado le perplessità del Capitano Fraser che lo considerava poco affidabile. Gli disse di procedere fino al fiume e di riferire subito se avesse scoperto segni o tracce di Seminole.
Luis Pacheco era nato nel 1800. I suoi genitori erano discendenti di “pure blood negroes”, nati in Africa. Il padre, Adam, era un falegname e costruttore di barche. Adam e la moglie erano proprietà di Francis Philip Fatio, e vivevano in una piantagione 30 miglia a sud di Jacksonville, in un’area chiamata New Switzerland. Susan Fatio, la sorella , aveva preso in simpatia Luis e gli aveva insegnato a leggere e scrivere, malgrado la legge lo proibisse. Quando Luis era ancora un bambino, uomini e donne Seminole visitavano, occasionalmente, la colonia e i bianchi erano colpiti dai loro vestiti, dai colori sgargianti e dalle piume. Sembravano zingari.
Luis F. Pacheco
In un’occasione, avevano rapito il fratello maggiore di Luis (o li aveva seguiti), che era, poi, tornato dopo vent’anni parlando solo Seminole. Aveva insegnato a Luis la lingua e gli aveva parlato della vita libera e selvaggia.
Susan Fatio descrisse Luis come un giovane avventuroso, a cui piaceva vagabondare,
A 24 anni fuggì a sud fino alla baia di Charlotte e iniziò a lavorare nelle “Spanish Fisheries”. Fu catturato, però, da una pattuglia e portato a nord, nel nuovo campo militare sulla baia di Tampa.
Il Colonnello Mercer Brooke restò colpito dalla sua istruzione e dalla conoscenza della lingua Seminole, (oltre al Francese, all’Inglese e allo Spagnolo) e l’acquistò dai Fatio.
Divenne l’interprete del forte, e passò da un comandante all’altro fino a quando il Maggiore James McIntosh lo vendette a Don Antonio Pacheco, un mercante cubano che aveva un trading post a Sarasota Bay, Deceduto Pacheco, la moglie si era stabilita nel villaggio che era sorto intorno al forte.
La strada era ancora dritta, in direzione nordest, attraverso paludi di cipressi e foreste di querce, pini e palme, intervallate da piccoli laghi. Il più grande, a metà strada, era chiamato dai Seminole Thonotosassa, il posto ideale dove bivaccare a mezzodì.
La temperatura, alle 7 del mattino, era di 14 gradi.
La colonna si era messa in marcia nell’usuale formazione: l’avanguardia formata da otto uomini e guidata da due ufficiali, un capitano e un luogotenente, il corpo principale seguito dal cannone e dal carro vivande, che comprendeva gli altri ufficiali, e la retroguardia, comandata da un luogotenente.
Dade cavalcava, di solito, con l’avanguardia. I soldati erano incolonnati in fila per due e l’intera colonna era distribuita su, circa, 300 metri. Ai lati i fiancheggiatori.
Alle 10 la colonna passò vicino a un piccolo stagno che segnava il confine orientale della riserva militare di Fort Brooke. Da lì in poi iniziava il territorio nemico, quattro milioni di acri di wilderness popolati da 3000 Seminole, con almeno un villaggio per ogni soldato. Dopo aver passato Lake Thonotosassa, i soldati attraversarono un piccolo torrente. Era il luogo dove era stato rinvenuto il corpo del soldato Kinsley Dalton quattro mesi prima.
Dalton faceva il corriere tra Fort King e Fort Brooke, ed era stato fermato da una piccola banda di Mikasuki. Mentre un guerriero teneva le redini del cavallo, un altro gli aveva sparato. Il corpo era stato, poi, scalpato e mutilato. Era stato sepolto lì, ai lati del sentiero, e la tomba era stata nascosta per proteggerla dai lupi. Proseguendo nella marcia, i soldati raggiunsero, alle 5 del pomeriggio della vigilia di Natale, la riva meridionale del Big Hillsborough, 80 miglia a sud di Fort King.
Sulla sponda del fiume sorgeva il trading post di William Saunders, raso al suolo dalle fiamme e, vicino, una mucca macellata di recente.
Il ponte, costruito 11 anni prima, mostrava una silhouette sconfortante. Rimanevano, solo, alcuni tronchi semicarbonizzati.
Per i soldati la struttura crollata significava una sola cosa, l’indomani avrebbero dovuto guadare il fiume.
Dade ordinò ai soldati di preparare l’accampamento, circondato dalla barricata di tronchi di pino. Quindi chiese un volontario per portare un messaggio a Fort Brooke. Voleva avvisare il Capitano Belton del ponte bruciato e chiedere informazioni sull’arrivo dei rinforzi del Maggiore Mountford. Erano già arrivati?
Si presentò il soldato Aaron Jewell, della compagnia C, che prese il dispaccio, lo infilò nella bisaccia e iniziò la lunga cavalcata verso il forte.
Arrivò poco prima di mezzanotte e si presentò davanti a Belton.
“Faccio parte della compagnia C del Capitano Gardiner, sir, ho marciato per 15 miglia, oggi, con il comando e li ho lasciati al Big Hillsborough, dove il ponte è crollato. Non abbiamo visto Indiani, ma vi sono molti segni e il Maggiore manda fuori, ogni giorno, i fiancheggiatori e fortifica l’accampamento ogni notte.
Dal momento che il ponte è bruciato, saremo costretti a guadarlo e ciò rallenterà la marcia, e il Maggiore vuole sapere se il Maggiore Mountford sta arrivando con munizioni e provviste.”
La risposta di Belton fu, però, negativa, Mountford non era ancora in vista.
A metà mattina del 25 dicembre 1835, una sentinella vide, dal suo punto di osservazione sulla baia di Tampa, un’imbarcazione che si avvicinava. Era la compagnia di Mountford, finalmente, 50 uomini pronti a raggiungere Dade con una marcia forzata.
Belton consegnò a Jewell un messaggio in cui informava Dade dell’arrivo dei rinforzi e il valoroso soldato ritornò a nord per ricongiungersi con i suoi compagni.
Ma alla buona notizia ne seguì una pessima. Una seconda imbarcazione che trasportava la compagnia del Luogotenente Greyson, altri 50 uomini, era in ritardo (sarebbe arrivata solo il giorno dopo), e Mountford non aveva notizie di un terzo trasporto con la maggior parte delle armi e le provviste.
Mounford chiese, ugualmente, di partite subito, ma Belton non acconsentì. Era troppo pericoloso. E così tutti piani per riunire le due forze andarono in fumo.
Intanto i soldati si preparavano a guadare il Big Hillsborough.
Davanti a tutti il Capitano Fraser, a cavallo, con un palo con cui misurava la profondità dell’acqua. Dietro di lui l’avanguardia. Gli uomini avanzarono per primi, tenendo il moschetto, la borsa delle munizioni e lo zaino sopra la testa. Subito l’acqua gelida riempì gli stivali, inzuppò i pantaloni celesti rendendoli scuri, fino ad arrivare alla vita. I soldati rimasti sulla riva meridionale si tenevano pronti, con i fucili carichi, coprendo l’avanguardia, fino a quando gli uomini iniziarono a salire sulla sponda opposta, tenendo il moschetto in una mano, mentre, con l’altra, si aggrappavano alle radici e agli arbusti che affioravano, qua e là, dal terreno.
Quindi passò il corpo principale, a due a due, nell’acqua nera, con le labbra blu e i denti che battevano per il freddo, maledicendo i selvaggi che avevano bruciato il ponte.
Dade, a cavallo, sorvegliava le operazioni. Il guado era un punto di grande pericolo, con la colonna spezzata in due. Poi fu la volta dei cavalli e dei buoi.
Il carro vivande e il cannone furono legati con le corde e trascinati a forza di muscoli.
Il cannone fu un grosso problema. I soldati sulla riva settentrionale iniziarono a tirarlo, mentre alcuni uomini, sulla sponda meridionale, tenevano le corde in tensione. Quando l’arma scese dalla sponda fino al greto, le corde posteriori furono rilasciate e il cannone iniziò a avanzare, lentamente, attraverso il fiume. La fatica era enorme. I soldati lottavano, con i piedi girati e puntati nel terreno e i corpi inclinati, contro il peso morto del cannone. Le ruote avanzarono, saltellando sul fondo sconnesso, un centimetro per volta. Piano piano il cannone raggiunse la riva settentrionale e iniziò a salire lungo l’argine. Era il momento del massimo sforzo. Improvvisamente si udì un grido straziante e un uomo si accasciò a terra. Era il soldato John Thomas, che si era incrinato una vertebra tirando la corda. Il dottor Gatlin lo esaminò, ma non aveva nulla, nella borsa medica, che potesse aiutarlo, a parte un po’ di laudano per lenire il dolore.
L’uomo non era nelle condizioni di proseguire, bisognava prendere una decisione.
Non vi erano cavalli a disposizione e Thomas non poteva affrontare il viaggio verso Fort King, 80 miglia, sul carro vivande, sobbalzando sulle pietre e le radici. Dade, a malincuore, gli ordinò di tornare indietro da solo, con il moschetto, la borraccia e un po’ di cibo.
Un paio di uomini lo aiutarono a attraversare il fiume e poi lo lasciarono al suo destino, che fu fortunato, poichè riuscì a tornare a Fort Brooke sano e salvo.
Poi attraversarono i soldati della retroguardia. Il guado era terminato. Dade trasse un sospiro di sollievo. Ce l’avevano fatta!
Dade concesse alla truppa un breve periodo di riposo, poi la marcia riprese.
Il Maggiore aveva inviato Pacheco in perlustrazione e gli aveva chiesto di esplorare l’area compresa tra i villaggi Seminole di Thoadchodka e Chocochatee, fino a una sorgente chiamata Hagerman’s Hole, il punto di ritrovo per il bivacco notturno.
La Fort King Road attraversava un territorio piatto, acquitrinoso e fangoso, con pozze di acqua stagnante e maleodorante. In alcuni punti la strada era stata rialzata con file di pali e tronchi legati insieme da grosse corde. Poi il terreno diventava più asciutto, e i soldati attraversarono boschi di querce, pini cipressi e mirti e macchie di palmetti e fichi d’india, con le uniformi sudicie per l’acqua del fiume, il fango e il sudore.
Quindi si entrava in un territorio collinoso, e il sentiero saliva gradatamente, fino a un’ altezza di 200 metri. Era lo spartiacque tra i fiumi Big Hillsborough e Withlacoochee. Dalla sommità gli uomini potevano esplorare, con lo sguardo, per miglia, la regione, una foresta quasi senza fine formata da circa 180 piante diverse che si erano adattate, in milioni di anni, al territorio. E dietro a ogni albero poteva esserci, in agguato, un guerriero Seminole.
Poi iniziò la discesa verso est, in direzione del Big Withlacoochee,
uno dei due rami del fiume, fino a Hagerman’s Hole, dove li attendeva, paziente, Pacheco.
Pacheco fece il suo rapporto. Disse di aver visto l’erba appiattita in più punti lungo la stada, segno che i Seminole li stavano spiando. I due villaggi e i campi coltivati erano stati abbandonati.
Era, ormai, pomeriggio inoltrato e i soldati prepararono la barricata, si misero a cenare con la carne salata e le gallette e si coricarono stremati.
Alle 11 di sera si sentì una sentinella gridare “Chi va là?”Subito gli uomini si alzarono in piedi, afferrando i moschetti. Un soldato fu portato davanti a Dade, era Jewell tornato dalla sua missione e accolto dagli hurrah dei compagni.
Jewell consegnò a Dade il messaggio di Belton che lo informava dell’arrivo di Mountford a Tampa Bay. Solo 50 uomini? Se il suo comando era in pericolo, quali chance aveva un’unica compagnia?
E che ne era della seconda compagnia? E che cosa voleva dire la frase “Potete regolare la vostra marcia in modo che i rinforzi possano raggiungervi”. Fermarsi un paio di giorni? No, era troppo pericoloso, con i Seminole tutt’intorno che li stavano osservando, probabilmente, dall’istante in cui avevano lasciato Fort Brooke. Tornare indietro per qualche miglio? Ma bisognava riguadare il Big Hillsborough.
E così Dade prese la decisione più ovvia, continuare la marcia e raggiungere il prima possibile Fort King.
La marcia
Il quarto giorno di marcia, sabato 26 dicembre 1835, riservò, ai soldati, una piacevole sorpresa.
La temperatura era aumentata e in cielo splendeva il sole.
Dopo le piogge e il cielo grigio dei giorni precedenti e l’incidente con il cannone, l’inizio di giornata era incoraggiante. Il morale degli uomini era alto, e la colonna si mosse a buon passo, con i cappelli neri che ondeggiavano e sobbalzavano mentre seguivano il sentiero.
Quel pomeriggio avrebbero raggiunto il Big Withlacoochee, e Dade sperava di attraversare il fiume e accamparsi giusto un po’ più a nord. La giornata era calda e soleggiata e le divise avrebbero potuto asciugarsi prima del freddo della notte.
Il ritorno di Jewell, acclamato dai soldati, era sembrato di buon auspicio. Con quel coraggio e un po’ di fortuna avevano buone probabilità di sopravvivere.
A metà giornata fecero una breve sosta per il pranzo, poi la marcia riprese. La foresta quasi senza fine di pini aveva lasciato il posto a querce rosse, querce blackjack e querce d’acqua e, poi, a pioppi e salici. Ci si avvicinava al fiume e, sorpresa, il ponte era ancora in piedi, parzialmente annerito, qua e là, dalle fiamme, ma la struttura centrale sembrava solida. Bisognava, solo, sostituire le parti rovinate, e quella notte i soldati avrebbero dormito asciutti.
Subito alcuni uomini con asce, seghe e martelli, iniziarono a riparare il rivestimento ligneo danneggiato, in modo da assicurare un transito sicuro. Per primi passarono il carro vivande e il cannone, che furono guidati con grande attenzione. Quindi i soldati, che ringraziavano il cielo per il bagno scampato.
L’accampamento fu posto due miglia a nord del fiume, in un’ampia radura trovata da Pacheco. Gli uomini si sdraiarono con la testa appoggiata agli zaini, osservando il cielo stellato, un altro giorno era trascorso e il nemico non si era visto.
Il quinto giorno, domenica 27 dicembre, i soldati si svegliarono pieni di timore, le prossime miglia tra i due rami del fiume erano le più pericolose. Si entrava nel cuore del territorio Seminole, una terra piatta e umida, con un sottobosco fitto che impediva la vista, a un uomo bianco, fino a meno di dieci metri. Per un Indiano, naturalmente, era diverso. Un Seminole poteva vedere e odorare quasi quanto un animale e, come un animale, potevi passargli accanto e non accorgerti della sua presenza fino a quando ti piantava una freccia, o un proiettile, nel cuore.
Bisognava tenere gli occhi ben aperti, col colpo in canna, pronti a sparare.
Una volta superato il Little Withlacoochee, avrebbero lasciato la palude, le sanguisughe, i piedi bagnati e il pericolo costante. Gli spazi si facevano più aperti, e i Seminole, che li avevano lasciati passare attraverso boschi e paludi, non avrebbero più avuto occasioni.
I soldati controllarono i moschetti con cura. Tra loro vi erano veterani, ma anche soldati con poca esperienza. Sarti che avevano lasciato l’ago e il filo, maestri che avevano abbandonato le classi, due calzolai del New Jersey, un falegname della Virginia, un pittore, stampatori, carpentieri.
Alle 7 cominciò la marcia. Il cielo era chiaro. Il sentiero passava accanto a decine di stagni , a “clayhole”, pozze d’argilla piene d’acqua e infiniti rigagnoli. L’erba era molto alta, arrivava fino al capo, sembrava un tunnel verde, e i soldati si strinsero più vicini, sperando che i fiancheggiatori, ai lati della colonna, facessero bene il loro lavoro.
Poi l’erba finì e si entrò in una zona asciutta, una specie di isola, era uno di quegli hammocks su cui si accampavano i Seminole. Nelle due ore successive ricominciarono le pozze, gli stagni e il terreno si fece ancora più paludoso e fangoso, e i soldati, con gli stivali nell’acqua, stavano ben attenti a non calpestare uno dei vari tipi di serpenti che infestavano le paludi, mentre grosse rane fuggivano al loro passaggio.
Il Little Withlacoochee non era lontano e Dade mandò in avanscoperta Pacheco. Pensava, probabilmente, che era meglio che un solo uomo attirasse su di sé il fuoco nemico, piuttosto dell’intera compagnia. Pacheco ritornò sano e salvo, dicendo che il ponte era completamente distrutto, ma il fiume, poco più di un torrente, era stretto e l’acqua poco profonda.
Una volta arrivati sulla sponda, Dade ordinò di abbattere alcuni alberi per usarli come passerelle pedonali, e così gli uomini poterono attraversare il corso d’acqua senza bagnarsi i piedi.
I guadi, ringraziando il cielo, erano finiti.
L’accampamento fu posto due miglia dopo il fiume, vicino a una pozza d’acqua fresca e pulita chiamata, in seguito, Dade Breakfast Pond.
Il morale era alto, le paludi erano ormai alle spalle, e si era vicini alla terra dell’uomo bianco, la riserva militare di Fort King.
Da lì in poi il terreno si faceva asciutto, con spazi di visuale aperti. Forse gli Indiani avevano bleffato. I soldati scherzarono intorno ai fuochi e poi si coricarono per la loro ultima notte sulla terra.
Quando i soldati si svegliarono, lunedì 28 dicembre 1835, sesto giorno di marcia, il tempo si era, di nuovo, guastato. Pioveva.
Fort King distava 40 miglia, il pericolo sembrava passato, gli spazi erano più aperti, e così Dade permise agli uomini di abbottonare i cappotti per non bagnare il moschetto e le munizioni. Pervaso da un falso ottimismo, li incitò “Su con il morale, le nostre difficoltà e i pericoli sono finiti, e non appena arriveremo a Fort King, avrete tre giorni di riposo e festeggierete il Natale in allegria”. Non inviò, come al solito, i fiancheggiatori ai lati della colonna. Forse pensava che potessero rallentare la marcia, ora che contava la rapidità, intralciati dall’erba alta e dal sottobosco, o che potessero ferirsi calpestando un serpente a sonagli.
Mal gliene incolse!
I Seminole avevano spiato i soldati fin dalla partenza da Fort Brooke, ma non avevano, ancora, attaccato. Aspettavano Osceola, che era andato a Fort King a uccidere l’Agente Indiano Thompson. Ma le occasioni stavano, ormai, svanendo. Le paludi, i guadi e i boschi fitti erano passati, bisognava agire subito.
Micanopy, il loro capo, era, però, ancora titubante, ma fu affrontato dai due suoi più giovani sottocapi, Ote Emathla, Jumper, e Halpatter Tustenuggee, Alligator, che lo schernirono e, velatamente, lo minacciarono “ Sei un codardo, sei con noi o contro di noi?””Ve lo mostrerò!”rispose Micanopy.
E così, all’alba, i Seminole, 180 secondo Alligator, lasciarono il loro accampamento nella Wahoo Swamp e si disposero, a semicerchio, sul lato occidentale della strada militare, in un punto in cui il sentiero costeggiava un grosso stagno.
I guerrieri erano quasi nudi, ad eccezione del perizoma, e dipinti di nero, il colore della morte, e rosso, il colore del sangue. Alcuni indossavano le long shirts, le camicie tradizionali dipinte con colori che si mimetizzavano con il paesaggio. I capi portavano i turbanti, le striscie di stoffa avvolte intorno al capo, con piume bianche e nere.
La maggior parte era armata con un fucile di piccolo calibro, ma che aveva una gittata e una precisione maggiore rispetto ai moschetti dei soldati, chiamato Spanish Rifle, venduto loro dai contabbandieri di Cuba, alcuni impugnavano un Common Rifle Modello 1814, calibro 54, prodotto da Henry Deringer e Robert Johnson, un fucile modificato a percussione che era stato donato ai Seminole dopo la firma del trattato di Payne’s Landing.
Tutti avevano, alla cintura, il coltello da scalpo e l’accetta.
Si sdraiarono nell’erba alta, a 20 metri dal sentiero, e si nascosero dietro i pini, i palmetti e le palme nane, in attesa del nemico.
Nel frattempo la colonna dei soldati aveva continuato la sua marcia nella solita formazione, l’avanguardia, il corpo principale e la retroguardia.
Erano circa le 8 del mattino ( secondo Alligator le 9 ), quando i sodati entrarono in una zona di pini, palmetti e sawgrass, erba alta.
Ransom Clark, uno dei tre sopravvissuti all’eccidio, raccontò che l’avanguardia aveva appena oltrepassato una pozza d’acqua sul lato destro del sentiero, quando un colpo di fucile “crack” infranse il silenzio.
Clark vide il Maggiore Dade, che si trovava, a cavallo, in coda all’avanguardia, stramazzare lentamente al suolo, colpito al cuore da un proiettile sparato da Micanopy. Era il segnale dell’attacco. (Alligator, in seguito, disse che Micanopy conosceva Dade per averlo incontrato, anni prima, a Tampa Bay).
Il primo sparo fu seguito da una raffica micidiale, che sembrava provenire da “un migliaio di fucili”. I Seminole avevano scelto con cura il bersaglio, lungo l’intera fila sinistra della colonna, riuscendo, così, a infliggere al nemico il maggior numero di perdite possibile. La prima raffica fu, a tal punto, distruttiva, che metà dei soldati caddero a terra, feriti o uccisi.
Scoppiò un gran pandemonio, tra le grida dei guerrieri e le urla disperate dei feriti e dei moribondi.
Osceola aveva istruito i suoi guerrieri. Bisognava colpire, per primi, gli ufficiali, che si distinguevano per la fascia rossa intorno alla vita.
Furono uccisi, oltre a Dade, il Capitano Fraser che riuscì, solo, ad appoggiarsi a un tronco prima di spirare, e il Luogotenente Mudge, che cercò di strisciare verso il corpo principale, prima di crollare al suolo, mentre il Luogotenente John Keyes ebbe entrambe le braccia spezzate dai proiettili e morì, dissanguato, all’interno della barricata di tronchi, e il Luogotenente Richard Henderson fu colpito al braccio sinistro, ma continuò a combattere.
I soldati, sorpresi e terrorizzati, cercarono riparo dietro i pini e i palmetti che offrivano l’unica copertura disponibile.
“Ci nascondemmo prontamente dietro gli alberi e aprimmo un fitto fuoco di moschetteria”, raccontò Clark.
Solo tre ufficiali rimasero illesi dopo la prima scarica, il Capitano Gardiner, il Dottor Gatlin e il Luogotenente Basinger, che era a capo del cannone.
Gardiner prese il comando delle operazioni e cercò di raggruppare e incitare i soldati.
Ma i Seminole sembravano fantasmi.
Osceola non arrivò in tempo per la battaglia, ma solo per partecipare ai festeggiamenti per la grande vittoria
Clark raccontò che durante le prime sette o più scariche di fucileria non riuscì a vedere un solo Seminole. Solo lampi di colore. In seguito riuscì a intravvedere solo qualche faccia pitturata, con i capelli lucidi di grasso, che spuntava dietro un albero o tra l’erba alta.
Quando il primo attacco si trasformò in uno scontro regolare, i Seminole iniziarono a combattere in gruppi sparsi, coprendo un semicerchio che andava da nord a ovest. Lo stagno era un ostacolo naturale a est, mentre a sud la vegetazione era molto folta. Alcuni Seminole Neri, a cavallo, si tenevano pronti a intervenire a nord, nel caso di una sortita verso Fort King.
I soldati erano esausti dopo i cinque giorni di marcia e i guadi col cannone, infreddoliti per la pioggia e il tempo invernale, e scioccati per l’imboscata improvvisa. Metà degli uomini e degli ufficiali era già caduta, compreso Dade.
Con le dita intirizzite per il freddo e tremanti per la paura, cercarono di sbottonare il cappotto e di caricare il moschetto, strappando con i denti la carta delle cartucce, mentre la cacofonia delle grida di guerra e le urla disperate dei feriti riempivano l’aria.
Ma erano, anche, soldati disciplinati e i comandi di Gardiner riuscirono a riportare un po’ di ordine e calma.
Uno dei primi ordini di Gardiner fu di portare il cannone vicino ai soldati. “Bring up the gun! Bring up the gun!” Per un artigliere il cannone era la bandiera, il punto d’onore. Fu spostato a mano, dal momento che i cavalli erano stati uccisi dalla prima, devastante, raffica.
Basinger diede i comandi “Sponge, Ram, Point, Fire!” Il boato del cannone incoraggiò i difensori.
Ma gli uomini che caricavano il six pounder erano un facile bersaglio e iniziarono a essere colpiti. I proiettili a colpo singolo passarono sopra le teste dei Seminole, frantumando gli alberi. Più pericolose delle palle furono le schegge di legno che potevano trasformarsi in proiettili micidiali. Non vi era tempo per calcolare la distanza e l’alzo del cannone. Quando l’arma veniva ricaricata e il fumo si diradava, i Seminole si alzavano in piedi o in ginocchio e sparavano contro gli artiglieri.
Alligator raccontò “Il cannone sparò alcune volte ma gli uomini che lo caricavano furono colpiti quando il fumo si diradò. I proiettili passarono sopra le nostre teste”.
Poi, però, furono sparati grapeshots, proiettili a mitraglia, che si rivelarono molto più efficaci, e costrinsero i Seminole a disperdersi e a cercare riparo.
Gradualmente il fuoco, da entrambi i lati, diminuì, e poi cessò del tutto e dopo un’ora i Seminole si ritirarono su un’altura a mezzo miglio dal campo di battaglia.
Il primo attacco si era concluso.
Poco più in là, in mezzo ai cadaveri dell’avanguardia, Luis Pacheco giaceva a terra, immobile. Quando l’imboscata era iniziata, si era buttato a terra, illeso. Dopo alcuni minuti i Seminole notarono che non era morto. Uno degli Indiani puntò il fucile contro di lui, ma fu fermato da un altro, forse il cugino di Jumper, che gli disse “Non ucciderlo, è un uomo nero, è solo uno schiavo”. Lo fecero prigioniero e lo condussero nei boschi.
Gardiner approfittò della tregua nel combattimento per riordinare le idee. Gli erano rimasti non più di 40 uomini validi, alcuni feriti. Che cosa doveva fare? Le scelte erano limitate: ritirarsi, contrattaccare o combattere sul posto.
La ritirata verso Fort Brooke non sembrava un’opzione possibile. Bisognava riattraversare i fiumi e, ai guadi, i soldati erano un facile bersaglio. Anche attaccare e aprirsi la via verso Fort King, baionetta in canna, era impossibile. Più di metà degli uomini erano, già, caduti, e a Gardiner il numero dei guerrieri sembrò, probabilmente, superiore a quanti , in realtà, fossero.
C’era poi il problema dei Seminole a cavallo e, più importante, quello dei feriti che non voleva abbandonare, sapendo che i Seminole non facevano prigionieri.
L’unica chance era resistere sul posto, sperando di scoraggiare il nemico.
Ordinò, così, a alcuni uomini di tagliare con le asce dei giovani pini e costruire una barricata di tronchi di forma triangolare, con il lato maggiore rivolto a nord, e ad altri soldati di recuperare le armi dei caduti e di trasportare i feriti all’interno della barricata, che si trasformò, subito, in un ospedale.
In realtà la barricata improvvisata sembra più uno steccato, con aperture tra i tronchi che potevano far passare facilmente i proiettili.
Poi Gardiner ordinò di spostare il cannone sul lato nord del triangolo, e i soldati si misero ad aspettare, pregando che i Seminole non si facessero più vivi.
Alligator raccontò che stavano ritornando nelle paludi, supponendo che i bianchi fossero tutti morti, quando un Indiano venne, correndo, verso di loro, dicendo che i bianchi stavano costruendo una barricata di tronchi.
I resti della staccionata
Si accese, subito, una violenta discussione. Micanopy e alcuni guerrieri volevano andarsene, paghi del risultato raggiunto, ma Jumper e Alligator si opposero.
“Da troppo tempo abbiamo lasciato che i bianchi spadroneggiassero nelle nostre terre. Sono ospiti indesiderati e ci sono stati troppo a lungo. Siete forse ubriachi, malati, o donne terrorizzate dall’uomo bianco?Torniamo a ucciderli tutti”
L’ultimo assalto
I Seminole ripresero, con rinnovato vigore, l’attacco.
Ransom Clark li vide arrivare, gridando come ossessi, simili a uno sciame di vespe infuriate.
“Avevamo appena alzato la barricata di due piedi (tre tronchi), quando gli Indiani ritornarono, spostandosi a zig zag da un albero all’altro per evitare il fuoco del cannone. Cominciammo a combattere. Una parte della truppa combattè all’interno della barricata, una parte all’esterno, dietro gli alberi. Io rimasi fuori fino a quando fui ferito da una pallottola al braccio destro e da un’altra vicino alla tempia destra. Poi ricevetti una palla nella gamba, sopra il ginocchio, che mi fece cadere a terra, e allora mi rifugiai all’interno della barricata”.
La barricata, eretta per scopi difensivi, si rivelò una trappola mortale.
I Seminole erano ottimi tiratori e tennero i soldati sotto un fuoco incessante, fecero una specie di tiro al piccione, tanto che i tronchi della barricata e gli alberi circostanti furono trovati crivellati dai proiettili.
I soldati furono colpiti, soprattutto, alla testa e al collo, mentre i corpi degli artiglieri si ammucchiavano intorno al cannone.
Gardiner si batteva come un leone, suscitando l’ammirazione,
anche, di Alligator, che ricordò il piccolo uomo, molto valoroso, che impugnava la spada e incoraggiava i soldati, mentre le pallottole sembrava non potessero colpirlo.
Ma poi, ferito più volte, prima di cadere al suolo ebbe il tempo di dire agli uomini rimasti “Ragazzi miei, non posso più esservi d’aiuto, fate del vostro meglio”. Il Lt Basinger, ferito alle gambe, cercò di incitare i sodati “Sono l’unico ufficiale rimasto, facciamo, con coraggio, quello che possiamo”, mentre il Dottor Gatlin, appoggiato alla barricata con due doppiette nelle mani, gridò “ Venite, maledetti, ho quattro canne di fucile pronte per voi!”.
La battaglia infuria
Clark ricordò “I nostri uomini furono tutti uccisi. Mantenemmo un fuoco costante dalle 8 alle 2, con una pausa di tre quarti d’ora tra un attacco e l’altro. Combattemmo per più di 5 ore. Il Lt Basinger fu l’ultimo ufficiale rimasto, ma era gravemente ferito. Mi disse di fingermi morto quando gli Indiani fossero arrivati”.
Poi il cannone sparò l’ultimo dei 50 colpi e tacque per sempre e i soldati finirono le munizioni. In poche minuti i Seminole ebbero il sopravvento sugli ultimi superstiti.
La battaglia era finita.
Quando le armi tacquero e si fece silenzio, i Seminole avanzarono, cautamente, e entrarono all’interno della barricata.
Clark raccontò che un Indiano grasso e di media statura, dipinto fino alla vita, probabilmente Micanopy, fece un breve discorso. Improvvisamente una figura spettrale, con i vestiti imbrattati di sangue, si alzò da un mucchio di cadaveri, con i denti gialli scoperti in un grido senza suono. I Seminole lo fissarono stupefatti, e l’uomo ne approfittò per strappare di mano il fucile al cugino di Jumper per poi fracassarglielo sul cranio. Il soldato saltò oltre la barricata, ma fu ucciso da due Indiani a cavallo. Poi i Seminole raccolsero le armi dei caduti e se ne andarono. Alligator affermò che le loro perdite erano state minime, 3 morti e 5 feriti.
Subito dopo arrivò un gruppo di ex schiavi a cavallo. I Seminole Neri raccolsero le asce usate per tagliare i pini e uccisero coloro che mostravano, ancora, segni di vita. Poi spogliarono i cadaveri delle divise e degli stivali.
Clark raccontò che schernirono i morti dicendo loro, riferendosi alla schiavitù ”Che cosa avete, ora, da vendere?”
Dopo aver raccolto il bottino, anche i Neri se ne andarono.
Clark rimase incosciente fino alle 9 di sera, poi bevve un po’ di acqua da una borraccia e iniziò la fuga verso Fort Brooke, anche se Fort King era più vicino, ma era nella direzione in cui si erano diretti i Seminole e i loro alleati Afro- Americani.
Scoprì che anche un altro soldato, Edwin DeCourcey, era sopravvissuto, benchè ferito in due punti.
Clark era stato ferito ben cinque volte, e una pallottola era penetrata nella spalla destra, perforandogli il polmone, fu quindi aiutato da DeCourcey fino a quando, a mezzogiorno del giorno dopo, furono scoperti da un Seminole a cavallo. I due si separarono. L’Indiano seguì DeCourcey e lo uccise con un colpo di fucile. ma non riuscì a trovare Clark che si era nascosto nel folto sottobosco.
Malgrado le terribili ferite, Clark riuscì, miracolosamente, a raggiungere, il 31 dicembre, Fort Brooke, e fece il primo racconto del massacro al Capitano Belton.
Quando il chirurgo gli pulì le ferite, ebbe la forza di scherzare “Con tutti questi frammenti di ossa faremo una buona zuppa “.
Un altro soldato sopravvisse, Joseph Sprague, che arrivò il 1 gennaio 1836. Ferito anche lui a un braccio, si era salvato nascondendosi nello stagno.
Clark e Sprague furono gli unici soldati scampati all’eccidio.
Il 20 febbraio 1836, due mesi dopo i tragici eventi, un reggimento comandato dal Generale Edmund Gaines, in viaggio da Fort Brooke a Fort King, arrivò sul luogo della battaglia.
Il Secondo Lt James Duncan descrisse la scena come fosse un racconto di Edgar Allan Poe “Le prima indicazioni dell’avvicinarsi al campo di battaglia furono le scarpe e i vestiti dei soldati, moschetti rotti, baionette e poi uno scheletro, poi un altro, poi un altro. Dio misericordioso, che terribile spettacolo! Gli avvoltoi si alzarono a nuvole all’avvicinarsi della colonna che li allontanò dalle loro prede, la barricata era completamente nera. Alcuni volteggiarono sopra le nostre teste con un grande sbattere d’ali, altri si appollaiarono sugli alberi vicini, aspettando la nostra partenza per ripiombare sulle loro prede. L’odore era terribile”.
Il drammatico ritrovamento dei resti
Un altro ufficiale scrisse “Al nostro arrivo sul campo di battaglia trovammo i corpi dei caduti che giacevano nello stesso punto in cui erano stati colpiti. Io contai i teschi, erano 98 soldati e 8 ufficiali. Gli ufficiali furono tutti riconosciuti e identificati”.
Il Lt George McCall raccontò “I tronchi che componevano la barricata erano letteralmente crivellati da proiettili di piccolo calibro. La resina era colata dai fori nella corteccia, ma il suo odore pungente non smorzava la puzza della morte”.
La maggior parte dei cadaveri era ridotta a scheletro, in alcuni la carne si era consumata, ma era rimasta la pelle intera, secca, liscia e dura. Sembravano mummificati.
Alcuni uomini furono riconosciuti per le caratteristiche fisiche, il grigio nei capelli, una barba particolarmente folta, l’altezza, i denti d’oro, altri per gli oggetti, anelli, spille, orologi d’oro, lettere non spedite, i bottoni d’argento della fanteria, una pistola tascabile.
Il Capitano Belton scrisse “I migliori soldati del nostro esercito giacciono sbiancati dal sole, sfregiati dai negri e lacerati da uccelli osceni”.
I corpi dei soldati furono sepolti in due trincee, gli ufficiali in una terza.
Sopra quest’ultima fu sepolto il cannone, che i Seminole avevano gettato nello stagno, con la canna rivolta verso l’alto, come una specie di croce o di segnale.
Nel 1842, alla fine della guerra, i corpi furono riesumati, caricati su otto carri, coperti dalla bandiera a stelle e strisce e portati al St Augustine National Cemetery.
Furono celebrati servizi funebri secondo il rito Cattolico, Anglicano e Protestante. Poi, dopo la lettura dei nomi degli ufficiali e dei soldati, i poveri resti furono interrati, definitivamente, sotto tre piramidi di coquina.
Il Memoriale della Seconda Guerra Seminole
Il Luogotenente Benjamin Alvord, che fece parte della colonna di Dade per poche ore, continuò a servire nell’esercito fino al 1880.
Partecipò alla guerra contro il Messico e alla Guerra Civile, arrivando fino al grado di Brigadiere Generale. Morì nel 1884.
Ramson Clark guarì dalle sue ferite, ad eccezione di quella, più profonda, alla spalla destra. Fu congedato nel maggio 1836 e tornò a Griegsville, nello stato di New York, con una pensione di 8 dollari al mese. A causa della sua invalidità, cercò di guadagnare denaro vendendo la sua incredibile storia a alcuni giornali, e pubblicando, nel 1839, un pamphlet dal titolo “The Surprising Adventures of Ramson Clark Among The Indians in Florida”.
Un momento della battaglia
Si sposò ed ebbe una figlia. La spalla, però, non guarì, mai, del tutto e il 18 novembre 1840 il quasi indistruttibile Ramson Clark morì, probabilmente a causa di un’infezione.
John Thomas, il soldato che si era ferito durante il guado del Big Hillsborough, non ebbe, in seguito, altrettanta fortuna.
Il St Augustine Herald del 21 settembre 1837 scrisse che Thomas era morto quella mattina presso l’ospedale militare della città, a causa delle ferite ricevute durante la battaglia, ma l’ufficiale medico Nathan Jarvis affermò che, tra i soldati deceduti nelle prime settimane di settembre a causa della dissenteria cronica, vi era John Thomas, uno dei superstiti del massacro Dade. La morte era stata facilitata dal suo stato di alcolista.
Joseph Sprague si arruolò per altre tre volte e fu congedato il 6 marzo 1843. L’anno seguente, mentre viveva a White Springs, Florida, scrisse al Ministero della Guerra chiedendo un pezzo di terra, da qualche parte, in Florida. Fu iscritto nella Pension List Roll, a Tallahassee, per la somma di 8 dollari al mese. L’ultimo pagamento fu fatto il 4 settembre 1847. Era analfabeta e non ci ha lasciato la sua versione dei fatti.
Luis Pacheco fui deportato nel Territorio Indiano, in Oklahoma, insieme ai Seminole. Visse per un certo periodo di tempo vicino a Fort Gibson e poi, per 40 anni, a Austin, Texas. Nel 1892 fece ritorno in Florida, a Jacksonville, ospite di Mrs Susan Fatio L’Engle, figlia del suo primo proprietario. Morì nel 1895, difendendosi, ancora dopo tanti anni, dall’accusa di aver guidato Dade e i suoi soldati in una imboscata.
Micanopy fu catturato durante un colloquio di pace col Generale Jesup, a Fort Mellon, il 3 dicembre 1837. Fu trasferito prima a Charleston, South Carolina, e poi deportato a Fort Gibson, dove morì il 2 gennaio 1849.
Ote Emathla, Jumper, si arrese al Generale Zachary Taylor sul fiume Kissimmee nel dicembre 1837. Incarcerato a Fort Pike, Louisiana, morì di tubercolosi il 18 aprile 1838.
Halpatter Tustenuggee, Alligator, fu più fortunato. Combattè fino a marzo 1838, quando si arrese a Taylor vicino al lago Okeechobee. Stabilitosi a Fort Gibson, si battè per migliorare le condizioni di vita delle migliaia di Seminole costretti a espatriare. Ritornò in Florida nel 1841 per convincere gli ultimi Seminole ribelli a deporre le armi. Nel 1850 accompagnò Wildcat e alcuni Seminole, rossi e neri, in Messico. Ritornò, in seguito, nel Territorio Indiano e nel 1857 inviò un figlio presso una scuola missionaria. Questa è l’ultima notizia che abbiamo su di lui.
NOTE FINALI
Ho ricavato la maggior parte delle informazioni per quest’articolo da tre libri di Frank Laumer: Massacre (1989), Dade’s Last Command (1995) e Nobody’s Hero (2018), un romanzo incentrato sulla vita di Ramson Clark.
Ho tratto ulteriori notizie da Seminole Warrior vs US Soldier: Second Seminole War 1835-1842 di Ron Field, recentemente pubblicato dalla Osprey (2022), da Dade’s Battle, Florida, 28 December 1835, di Michael Anderson (2019) e da Fearless and Free di George Walton (1977).