John Ford, il western con sentimento

A cura di Domenico Rizzi

Speciale in due parti: 1) John Ford, il western con sentimento 2) John Ford, il western nella leggenda

John Ford
Un idealista e un romantico. Questo è il ritratto che si potrebbe tracciare di John Ford, del quale ricorre quest’anno il quarantesimo anniversario della morte, avvenuta il 31 agosto 1973 a Palm Desert, California, quando il popolare regista aveva 79 anni. Causa del decesso una lunga malattia che lo aveva ridotto ad una larva, come raccontò il suo amico Howard Hawks, altro celebre regista di film western (“Il Fiume Rosso”, “Il grande cielo”, “Un dollaro d’onore”).
Nato a Cape Elizabeth il 1° febbraio 1894 e registrato all’anagrafe come John Martin Feeney – che forse egli stesso cambiò abilmente in un improbabile Sean Aloysius O’Fearna, per accentuare le sue origini irlandesi –avrebbe firmato i suoi primi film come Jack Ford, prima di riassumere il suo vero nome di battesimo. Peraltro, anche la data di nascita riportata sulla sua lapide risulta quella, certamente falsa, del 1895.
John era l’ultimo di 14 figli, nati dall’unione di Sean O’Feeney, un immigrato irlandese e di Barbara Curran. La famiglia si trasferì a Portland (Maine) quand’era ancora bambino e fu in questa città, dove suo padre gestiva una mescita, che frequentò le scuole superiori, conseguendo il diploma nel 1913 e chiedendo poi invano l’ammissione all’Accademia Militare Navale di Annapolis. La Marina sarebbe comunque stata la sua destinazione durante la Seconda Guerra Mondiale, al termine della quale Ford – diventato capitano di vascello e gravemente ferito ad un occhio nella battaglia di Midway, nel 1943 – avrebbe conseguito il grado onorario di contrammiraglio. Il presidente Richard Nixon gli concesse in seguito, il 31 marzo 1973, la promozione ad ammiraglio, pochi mesi prima che il famoso cineasta morisse. La sua tomba reca infatti l’incisione: “Admiral John Ford”. Nello stesso periodo ricevette anche un premio speciale alla carriera dall’American Film Institute.
Il giovane Ford visitò l’Irlanda, terra dei suoi antenati, quand’era giovanissimo e vi tornò varie volte, attingendo l’ispirazione per alcuni dei suoi film più riusciti, quali “Il traditore” e “Un uomo tranquillo”.
Da giovane John fu uno sportivo e svolse diversi mestieri, fra i quali l’addetto ai servizi pubblicitari in una fabbrica di calzature, ma il destino gli aprì presto le porte del teatro e della settima arte, che lo aveva affascinato fin dai primi anni, spingendolo a frequentare le sale di proiezione quasi tutti i giorni. Era infatti l’epoca dei nickelodeon, i cinema sorti dal 1905 in poi che proiettavano film giorno e notte senza interruzione, al modico prezzo di un nickel, cioè di 5 centesimi di dollaro.
Suo fratello Francis, che aveva circa 13 anni più di lui, lavorava con Thomas Harper Ince, uno dei registi più qualificati dell’epoca, al quale succedette nel 1912 per la realizzazione di alcuni film prodotti dalla Bison Life Motion Pictures. Il suo ingresso nel cinema fu abbastanza casuale, perché Francis, avendo messo incinta una ragazza, emigrò in California per sottrarsi alle proprie responsabilità. In breve chiamò John al suo fianco, con mansioni che andavano da inserviente e attrezzista fino ad operatore di macchina.
Poiché a scuola era stato un ottimo giocatore di football americano, rivestendo il ruolo di terzino con molta grinta – il pubblico lo chiamava Jack il Toro – nei primi anni, fece anche lo stuntman, per poi diventare comparsa e controfigura. Nel 1915 ottenne una particina come attore – nei panni di un componente del famigerato Ku Klux Klan – in “The Birth of a Nation”, diretto da David Wark Griffith, del quale conservò sempre un’altissima opinione: “D. W. Griffith influenzò tutti noi. Se non fosse per lui, il cinema non sarebbe mai uscito dall’infanzia. E’ stato il promotore di tutto, è stato lui ad inventare il primo piano e a fare un sacco di cose che nessuno aveva mai pensato prima.” (Franco Ferrini, “John Ford”, Il Castoro Cinema, Milano, 1975, p. 9).
I suoi inizi nel cinema si devono probabilmente al grande produttore Carl Laemmle, un tedesco immigrato che era diventato in poco tempo uno dei più importanti manager di Hollywood. A Ford venne affidata la creazione di una sorta di parata di cowboy e stuntmen in suo onore e la organizzò benissimo, dimostrando di possedere grandi doti che non sfuggirono a Laemmle. Comunque, da uomo schietto quale era, manifestò sempre apertamente una decisa avversione verso i produttori, che preferiva incontrare soltanto una volta. “I produttori” sosteneva “non ci capiscono niente nella fabbricazione di un film!” (Ferrini, op. cit., p. 8).
Il 3 luglio 1920 il futuro regista sposò Mary Mc Bride Smyth, che gli avrebbe dato i figli Patrick Roper un anno dopo e Barbara Nugent, nel 1922. L’unione si presentò sempre come molto solida, resistendo ai pettegolezzi e alle infedeltà dell’uomo.


John Ford’s Point

L’esperienza di John quale attore non fu molto lunga, perchè la sua bravura si sarebbe manifestata presto, piuttosto che sulla scena, dietro la macchina da presa, un lavoro destinato ad accompagnarlo per 50 anni. Nonostante ciò, ebbe l’ardire di sostenere: “Io detesto i film”, oppure di puntualizzare con orgoglio: “Sono un uomo del cinema muto”.

Il personaggio

In effetti John Ford rimane ancora oggi una delle figure più controverse del cinema.
Di carattere falsamente gioviale, poco accomodante e spesso scontroso, era abituato ad esprimersi senza peli sulla lingua, come fece nei riguardi di Cecil B. De Mille che aveva cercato di screditare Joseph Mankiewitz davanti alla tristemente conosciuta Commissione per le Attività Anti-Americane, detta altresì Commissione Mc Carthy. Il maccartismo, originatosi alla fine degli Anni Quaranta per iniziativa del senatore repubblicano Joseph Mc Carthy, si trascinò fino al 1954, incontrando la riprovazione di autorevoli esponenti della politica e della cultura: mirava, nelle intenzioni, ad emarginare le persone che dimostrassero simpatie filo comuniste o comunque contrarie all’interesse nazionale.
In quell’occasione, prima di iniziare a parlare, Ford si presentò con la finta modestia di chi intendeva portare una forte provocazione all’istituzione: “Mi chiamo John Ford. Faccio western”. Dopo avere elencato i meriti di Cecil B. De Mille, regista di grido da anni, lo contestò aspramente dicendogli: “Tu non mi piaci, C.B. e non mi piace ciò che hai detto questa sera.” Quindi, suggerì di esprimere un voto di fiducia a Mankiewitz e di andarsene tutti a dormire.
Con la stessa insincera umiltà, avrebbe sostenuto nel 1955: “Si esagera facendo di me uno specialista di western. Ho girato ‘The Iron Horse’ nel 1924 e ‘Stagecoach’ nel 1939. Tra l’uno e l’altro non ho fatto nemmeno un western. Non ho ricominciato che dopo la guerra…” (Ferrini, op. cit., p. 4).
Perfino la critica stentò ad inquadrarlo in una precisa ideologia politica, dopo avere avuto buon gioco nel classificare uno dei suoi attori preferiti – John Wayne – come “fascista”. In realtà, tutto ciò non era completamente vero, perché in Ford è possibile trovare un acceso patriottismo – come nella ‘trilogia militare’ e in alcuni film di guerra sul secondo conflitto mondiale – quanto una grande propensione verso i diseredati e gli esclusi, che in “Furore” ottengono la loro più alta consacrazione. Altrove egli può essere sospettato di assumere posizioni troppo conservatrici o addirittura reazionarie, ma la sua condotta di vita e soprattutto i suoi film, più che la sua aperta dissociazione dal maccartismo, lo rendono facilmente accostabile ad un modello democratico. Fra le caratteristiche di Ford vi era infatti una certa insofferenza del potere e dei suoi difensori – “Ford fu sempre nemico dei poliziotti, come regola, come fede…” (Peter Bogdanovich, “Il cinema secondo John Ford”, Pratiche Editrice, parma, 1990, p. 22) – ma ciò non gli impedì di girare nel 1958 “24 ore a Scotland Yard”, una travagliata giornata dell’ispettore Gideon, come recita il titolo originale inglese “A Gideon’s Day”. “Andai a Scotland Yard” dichiarò a Bogdanovich “con l’intento di dedicare qualcosa alla polizia. Ma, come rileva Renato Venturelli in un suo saggio, questo lavoro “è stato per molti anni il film più trascurato…Inoltre, pur essendo stato realizzato a colori, il film venne distribuito in bianco e nero in molte nazioni, compresa l’Italia e gli Stati Uniti…” (Aldo Viganò, “Sentieri di John Ford”, Le Mani, Recco Genova, 1996, p. 23).
L’avversione di certi detrattori si inasprì soprattutto per alcune prese di posizione del regista valutate esclusivamente dal punto di vista politico, quali l’espressa approvazione dell’intervento americano nel Vietnam. In questo frangente troppe persone dimenticarono che il primo appoggio al regime sudvietnamita era stato fatto dal presidente democratico John Kennedy e che si deve al suo successore, Lyndon Johnson, l’escalation delle operazioni militari che sfociarono in conflitto aperto alla fine degli Anni Sessanta. Una considerazione più obiettiva fa invece ritenere la presa di posizione di Ford come un gesto patriottico e di sostegno a quell’esercito di cui egli rimaneva pur sempre un ufficiale. Del resto un chiarimento circa le sue idee politiche venne offerto da lui stesso nel 1965: “Io sono uno del proletariato…Vengo da una famiglia di contadini…Io amo l’America. Sono apolitico.” (Marini, op. cit., p. 6).
Non bastasse, Ford, parlando del conflitto in Corea a proposito del suo film-documentario “This is Korea!”, disse senza mezzi termini: “Non ci fu niente di glorioso in quella guerra. Non fu certo l’ultima delle guerre nobili” (Bogdanovich, op. cit., p. 87) dimostrando di possedere abbastanza senso critico da prendere le distanze dalle iniziative politiche che egli non condivideva, seppure provenissero da amministrazioni che egli stesso aveva sostenuto.
Come cineasta, Ford era un uomo puntuale ed esigente, che non si lasciava trascinare né mettere i piedi in testa da nessuno. Non esitava infatti a liberarsi degli attori che contrastavano i suoi progetti, come fece in occasione del litigio con Fonda. Non voleva che si parlasse di cinema durante i pranzi e redarguiva severamente chiunque si permettesse di farlo. Provocatoriamente sostenne anche di non conoscere molto la storia del cinema. “Naturalmente” aggiungeva subito “mi piace fare film. Ma non è il caso di chiedermi di parlare d’arte.” (Ferrini, op. cit., 7).
Un aspetto che pochi conoscono di Ford, è la sua avversione per la musica nei film. Eppure, “Ombre rosse” conquistò il secondo Oscar grazie alla colonna sonora composta da Richard Hageman coadiuvato da W. Franke Harling, John Leipold e Leo Shuken. “In genere” dichiarò “io odio la musica nei film…Non mi piace vedere un uomo solo nel deserto, che sta morendo di sete, e sentire in sottofondo la Philadelphia Orchestra.” (Bogdanovich, op. cit., p. 95). Anche in questo caso, si deve ritenere che Ford avesse sfoderato uno dei suoi soliti paradossi, perché, soprattutto nei suoi western, la presenza delle note musicali diventa di fondamentale importanza. Non si dimentichi che uno dei suoi capolavori, noto in Italia come “Sfida infernale”, porta nell’edizione originale il titolo di una canzone – “My Darling Clementine” – che si ritiene composta da Percy Montrose intorno al 1884. Ciò premesso, molte altre pellicole fordiane contengono brani classici e tradizionali della Frontiera americana, dalla marcia militare “The Girl I Left Behind Me” a “Shall We Gather at the River”. Il primo risale ad un periodo fra il XVIII e il XIX secolo ed è di provenienza irlandese, mentre il secondo è attribuito al compositore americano Robert Lowry nel 1864. “I’ll Take you Home again Kathleen”, cantata dai soldati in “Rio Bravo”, venne invece composta da Thomas P. Westendorf nel 1875.


James Stewart, John Ford ?e John Wayne sul set di “The Man Who Shot Liberty Valance”, 1962

Un altro luogo comune è quello di ritenere che sia stato Sergio Leone ad introdurre la musica durante le riprese. Sembra invece che lo stesso Ford ricorresse a questa tecnica molto prima di lui, ma per accontentare qualche personaggio femminile particolarmente esigente. La differenza consiste nel fatto che nei film di Leone gli attori si muovevano sul set con l’accompagnamento della colonna sonora originale di Ennio Morricone, mentre in quelli fordiani “a volte c’era qualche attrice che voleva un po’ di musica, pensando che ciò l’avrebbe rilassata. Allora facevo suonare…la fisarmonica in sottofondo. Lo facevano tutti all’epoca” (Bogdanovich, op. cit., p. 57).
Anche sulle nuove tecniche introdotte dalla movie art, Ford si mostrava piuttosto scettico, così come lo era nei riguardi del colore, del cinemascope e soprattutto del cinerama. Tagliando corto sull’argomento, sosteneva infatti che “una sceneggiatura è buona se la puoi realizzare in bianco e nero sul piccolo schermo” (Ferrini, op. cit., p. 8). Quanto al cinerama – metodo di ripresa e proiezione che offre immagini di notevoli dimensioni, attuato con 3 cineprese che operano simultaneamente da posizioni diverse – egli lo giudicò peggio del cinemascope (un sistema che consente di creare un largo campo visivo) “perché le parti estreme delle inquadrature si arrotolano ed è il pubblico che si sposta, invece della scena.” (Bogdanovich, op. cit., p. 96).
Nel corso della sua quasi cinquantennale attività registica, egli si avvalse di numerosi sceneggiatori di eccezionale bravura. Riferendoci soltanto ai western sonori, dopo essersi affidato a Dudley Nichols in “Ombre rosse”, a Samuel G. Engel e Winston Miller in “Sfida infernale”, trovò un punto di riferimento costante in Frank S. Nugent per “Il massacro di Fort Apache”, “I cavalieri del Nord-Ovest”, “In nome di Dio”, “La carovana dei Mormoni”, “Sentieri selvaggi” e “Cavalcarono insieme”, affidando invece lo screenplay a James Kevin Mc Guinness per “Rio Bravo”. Successivamente passò a John Lee Mahin e Martin Rackin (“Soldati a cavallo”) a James Warner Bellah e Willis Goldbeck (“I dannati e gli eroi”, “L’uomo che uccise Liberty Valance”) e a James R. Webb per “Il grande sentiero.”
Nugent, nato a New York nel 1908 e scomparso nel 1965, sceneggiò anche altri film fordiani che non appartengono al genere western: “Un uomo tranquillo”, “Mister Roberts” e “L’ultimo Urrah!”

Il regista

Sulla carriera di questo sorprendente movie director sono già stati spesi fiumi di inchiostro, perché si possa aggiungere qualcosa di nuovo e di originale. La sua presenza come aiuto-regista risale al 1916, quando aveva 22 anni e prese il nome di “Jack” Ford – lo pseudonimo, dall’origine misteriosa, già adottato dal fratello Francis – con il quale avrebbe firmato anche i suoi film dal 1917 al 1923. Il tornado”, suo primo impegno dietro la macchina da presa, lo realizzò per la 101 Bison e fu distribuito dalla Universal, dalla quale Ford si separò nel 1920, passando alla Twentieth Century Fox. Con quest’ultima avrebbe lavorato per tutto il decennio successivo, prima di impegnarsi con la Metro Goldwyn Mayer. Infine, nel 1946 fondò la Argosy Pictures, durata anch’essa dieci anni.
“Cameo Kirby” fu il primo lungometraggio in cui assunse il nome di John Ford. Molta della sua produzione cinematografica dei primi anni – continuò a firmarsi Jack fino a “Three Jumps Ahead” (“I falchi neri”) del 1923 – compresa la maggior parte delle pellicole interpretate dall’attore Harry Carey senior, noto come “Cheyenne Harry”, è andata purtroppo perduta. “Straight Shooting” del 1917, che vede lo stesso Carey come protagonista, è uno dei pochissimi film di cui si sia salvata una copia.
L’affermazione del regista avvenne nel 1924, dopo avere già girato una cinquantina di pellicole. Si intitolava “The Iron Horse” (“Il cavallo d’acciaio”) una vicenda di fantasia legata al completamento della prima ferrovia transcontinentale che doveva congiungere le coste dell’Atlantico e quelle del Pacifico. Erano gli anni avventurosi del cinema, la tecnologia era scarsa e spesso gli attori dovevano arrangiarsi come potevano in alloggi improvvisati, come racconta Ford in questo efficace ritratto: “Le donne furono sistemate in carrozzoni da circo, mentre gli uomini dovettero costruirsi da sé le loro casette, fuori dal set…Ma il fatto è che ci trovammo a spendere sempre più soldi, e alla fine questa semplice storiellina diventò praticamente un’epopea, il più grosso film che la Fox avesse mai prodotto.” (Bogdanovich, op. cit., pp. 55-56). Difatti, la lavorazione venne a costare 280.000 dollari, una cifra decisamente elevata per quei tempi, in cui si riusciva a produrre un discreto “B-movie” per 10.000 dollari. Gli attori impegnati erano George O’Brien, Madge Bellamy, Judge Edward Bull e, fra i tanti altri, il capo Big Tree (Grande Albero) – alias Isaac Johnny John (1877-1967) membro della tribù irochese dei Seneca – che sarebbe apparso più avanti in “Ombre rosse”, “La più grande avventura” e “I cavalieri del Nord-Ovest”.
Convertitosi, probabilmente controvoglia, al sonoro sul finire degli Anni Venti, cosa che non tutti i registi accettarono pacificamente, Ford avrebbe ammesso orgogliosamente, in un’intervista concessa nel 1965: “Sono stato io a fare il primo film parlato della Fox. Era basato su una commedia di un atto intitolata ‘Napoleon’s Barber’” (Ferrini, op. cit., p. 8).
Ford ottenne la sua consacrazione vincendo l’Academy Award (Oscar) alla regia con “Il traditore” (“The Informer”) nel 1936, uno dei pezzi più pregiati di tutta la sua produzione, che ottenne altri 4 Oscar (miglior film, miglior attore protagonista a Andrew Mc Laglen, miglior sceneggiatura a Dudley Nichols, miglior colonna sonora a Max Steiner). Fra il 1934 e il 1939 sperimentò alcuni lungometraggi avventurosi ambientati in India, nei Mari del Sud, in Africa, Asia, America Latina e nell’estremo oriente (“La pattuglia sperduta”, 1934; “Alle frontiere dell’India”, 1937; “L’uragano”, 1937; “Il giuramento dei quattro”, 1938).
Alle soglie della Seconda Guerra Mondiale, il regista s’impose nuovamente con due lavori destinati a lasciare il segno. Il primo, realizzato in bianco e nero dalla short-story “Stage to Lordsburg” di Ernest Haycox (1937) fu “Stagecoach”, distribuito in Italia nel 1939 come “Ombre rosse”. Lo stesso anno diresse “La più grande avventura”(“Drums along the Mohawk”) il suo primo lungometraggio a colori.
“Ombre rosse” ottenne 7 nomination e 2 Oscar (miglior attore non protagonista a Thomas Mitchell, il medico ubriacone, e miglior colonna sonora a Richard Hageman, W. Franke Harling, John Leipold e Leo Shuken) mentre “La più grande avventura” non andò oltre le 2 nomination.
Un anno dopo, Ford si prese nuovamente una grande soddisfazione personale, allorchè il suo “Grapes of Wrath” (“Furore”, tratto dal bestseller di John Steinbeck) gli valse l’Oscar alla regia, oltre ad una seconda statuetta assegnata a Jane Darwell come migliore attrice non protagonista. Il film era stato proposto per 7 nomination. Il trionfo si ripetè nel 1942 con “Com’era verde la mia valle” (“How Green Was My Valley”) vincitore di 5 Oscar, dei quali il primo assegnato ancora una volta a Ford come miglior regista.


John Ford ?e John Wayne

Nel 1952 colse un ulteriore successo con “A Quiet Man” (“Un uomo tranquillo”) ambientato nella pacifica Irlanda dei suoi avi, ottenendo 7 nomination che si tramutarono in altri 2 prestigiosi Oscar: miglior regia e miglior fotografia, assegnato a Winton C. Hoch e Archie Stout. Il film venne ingiustamente bollato da alcuni critici come “maschilista”, ma possiede ancora oggi tutti i requisiti di un piccolo capolavoro e soltanto un’analisi superficiale potrebbe dar luogo a valutazioni negative. Con questo, anche Sergio Leone, a suo modo grande estimatore di Ford, non gli risparmiò qualche sottolineatura pungente, perché l’Irlanda “verde e bonacciona” dipinta nella finzione filmica era in realtà un “paese dilaniato dalla guerra dell’IRA” (Francesco Mininni, “Sergio Leone”, Il Castoro Cinema, 1994, p. 8).
Escludendo i western, dei quali si tratterà a parte, dal 1939 al 1966 Ford girò film d’avventura, di guerra e biografici, qualche commedia e numerosi documentari. “Alba di gloria” (1939) è uno dei suoi lungometraggi più interessanti sulla giovinezza del presidente Abraham Lincoln ed entrò nella lista dei 10 migliori film dell’anno a cura del National Board of Review of Motion Pictures, con una nomination all’Oscar per la sceneggiatura di Lamar Trotti.
Dopo il dramma “La via del tabacco” (1941) tratto dal romanzo di Erskine Caldwell, diresse “I sacrificati di Bataan” (1945) – nel quale ricompariva John Wayne – seguito negli anni successivi da altri film bellici, quali “Bill, sei grande” (1950) “Uomini alla ventura” (1952) “Mister Roberts” (1955) e dal biografico “Le ali delle aquile” (1957). Intanto, nel corso della Seconda Guerra Mondiale, Ford realizzava numerosi documentari in qualità di responsabile dei Servizi Cinematografici dell’O.S.S. (Office of Strategic Services, precursore della C.I.A.). Fra i più apprezzabili, “The Battle of Midway” del 1942 e “December 7th” del 1943, basato sull’attacco giapponese a Pearl Harbor, entrambi premiati con l’Oscar.
Ma l’inesauribile vena creativa del regista produsse nel dopoguerra altre pellicole che la critica condivise, seppure non tutte nel momento in cui furono proiettate nelle sale. Nel 1953, prendendo posizione contro i pregiudizi razziali e la dissennata caccia alle streghe promossa dai Maccartisti, diresse “Il sole splende alto”, remake de “Il giudice” da lui girato molti anni prima. Il film, che vedeva la partecipazione anche di suo fratello Francis, anticipava lo scabroso tema de “Il buio oltre la siepe”, celebre romanzo pubblicato nel 1960 dalla scrittrice del Sud Harper Lee e vincitore del Premio Pulitzer. Ford lo considerava il suo film preferito, nonostante l’argomento fosse abbastanza scabroso per quei tempi: William Priest, ex soldato confederato eletto giudice in una contea del Kentucky, assume le difese di un afro-americano accusato ingiustamente di avere violentato una donna bianca. Vincendo i contrasti e la ferma opposizione dei cittadini più conformisti, riuscirà anche a vincere le elezioni.
Nel 1955 è la volta di “La lunga linea grigia”, particolarmente caro al regista perché il protagonista e sua moglie Mary O’Donnell sono di origine irlandese. Marty Maher, sergente istruttore presso l’Accademia Militare di West Point – personaggio realmente vissuto fra il 1876 e il 1961, autore di un libro intitolato “Bringing Up the Brass: My 55 Years at West Point” – rimasto vedovo e prossimo a lasciare il servizio dopo mezzo secolo, scopre nel lavoro di formazione dei cadetti la sua unica ragione di vita. Sotto certi aspetti una riproposizione del soggetto che Ford aveva mirabilmente sviluppato ne “I cavalieri del Nord-Ovest”, nel quale un anziano capitano non vuole lasciare il servizio, ma questa volta egli preferì il volto affabile di Tyrone Power a quello del rude e bonario John Wayne.
In “The Bamboo Cross”, girato lo stesso anno, la vicenda si svolge nuovamente in oriente, avendo come base un convento cinese in cui due monache sono perseguitate dai comunisti e vengono salvate da un ragazzo del luogo al prezzo della sua vita. Un altro contributo antirazzista, dopo quelli offerti in film precedenti, ma anche un nuovo approccio del regista alla questione religiosa, dopo avere realizzato “La croce di fuoco” nel 1947 e soprattutto “In nome di Dio” nel ‘48. Il primo e meno noto ha come protagonista un prete minacciato in un Paese dell’America Latina nel quale è stata bandita la fede religiosa. Difeso e aiutato da un bandito e da una donna, verrà poi catturato dai suoi persecutori e ingiustamente giustiziato. Il secondo affronta l’argomento della Natività in maniera insolita e stravagante, ma in perfetta coerenza con le sue convinzioni sulla possibilità di riscatto degli uomini, affidando a tre banditi che hanno appena rapinato una banca – interpretati da John Wayne, Pedro Armendariz e Harry Carey junior – la salvezza di un neonato trovato per caso nel deserto. Molti vi hanno anche riscontrato un vago accostamento al buon ladrone del Vangelo, che si redime sulla croce.
In “Missione in Manciuria” (“Seven Women”) del 1965, ultimo film diretto dal regista, si sviluppa una trama affine a quella de “La croce di fuoco”: nella Cina del 1935 una missione cristiana americana subisce le vessazioni del bandito Thunga Khan e viene salvata dall’intervento di una dottoressa dai modi spregiudicati, che scandalizzano le monache. Ford non si fa scrupolo di mostrare, seppure velatamente, l’omosessualità femminile latente di una direttrice dal moralismo bigotto, esaltando l’anticonformismo della dottoressa Cartwright (Anne Bancroft) che, a sua volta, ha un passato da cancellare. Il suo sacrificio rafforza la tesi fordiana sulla redenzione, accompagnata dalla diffidenza verso chi osa “scagliare la prima pietra” ritenendosi immune da peccato.
Molto più atipiche, sebbene si mantengano di ottimo livello, certe incursioni di Ford nell’Africa selvaggia, come “Mogambo”(1954) tratto da un lavoro teatrale di Wilson Collison, nel quale figura, insieme a Clark Gable e Ava Gardner, una Grace Kelly appena assurta a fama mondiale dopo la partecipazione a “Mezzogiorno di fuoco” al fianco di Gary Cooper. La futura principessa di Monaco ottenne da questa partecipazione una nomination all’Oscar e il Golden Globe come miglior attrice non protagonista.
Rimanendo in tema di viaggi esotici, convincente risulta anche “I tre della Croce del Sud” (1963) con la sceneggiatura di Frank Nugent e l’interpretazione di John Wayne. Un altro film di Ford – “Il magnifico irlandese” del 1965, basato sull’autobiografia dello scrittore e drammaturgo Sean O’Casey – viene completato da Jack Cardiff, perché il vecchio leone ha ormai seri problemi di salute.

Gli attori

Tutti sapevano che Ford aveva un debole per le figure femminili del cast, anche se, almeno per quanto riguarda il cinema western, riteneva che “giocarono un ruolo poco importante nella conquista del West”. Ammetteva però di seguito che “alcune attrici hanno saputo creare personaggi importanti” (Ferrini, op. cit., p. 6). Fra queste, vi è indubbiamente Jane Darwell, che aveva già lavorato sotto la direzione di Francis Ford nel lontano 1913 per essere poi interprete di 6 film con John, che nutriva un’elevata opinione di lei (“una ragazza straordinaria”). Dopo avere interpretato “Furore”, che le valse l’Oscar alla miglior attrice non protagonista, l’attrice – nata nel Missouri nel 1879 e scomparsa nel 1967 in California – rivestì parti di rilievo in “Sfida infernale”, “In nome di Dio”, “La carovana dei Mormoni”, “Il sole splende alto” e “L’ultimo Hurrah”.
Maureen O’Hara (“Rio Bravo”, “Un uomo tranquillo”, “La lunga linea grigia”, “Le ali delle aquile”) Joanne Dru (“I cavalieri del Nord-Ovest”, “La carovana dei Mormoni”) e Vera Miles (“Sentieri selvaggi”, “L’uomo che uccise Liberty Valance”) furono le interpreti femminili di cui il regista si servì più frequentemente. Molto probabilmente la sua simpatia andò soprattutto alla O’Hara – che stravedeva per John Wayne – oltre che per le sue origini irlandesi (nata a Dublino nel 1920 come Maureen Fitzsimmons) per la splendida recitazione in “Un uomo tranquillo” al fianco di Wayne e del bravissimo Victor Mc Laglen, di “Com’era verde la mia valle” (con Walter Pidgeon) e “Rio Bravo” (con John Wayne).
Escludendo la Darwell e la rossa Maureen, raramente il regista impiegò la stessa attrice per più di un film, almeno considerando il periodo dal 1935 in poi. Ciò non toglie tuttavia che altre artiste abbiano avuto dei ruoli decisivi nei suoi lavori: Claire Trevor e Louise Platt (“Ombre rosse”) la francese Claudette Colbert (“La più grande avventura”) Linda Darnell e Cathy Downs (“Sfida infernale”) Dorothy Jordan e Natalie Wood (“Sentieri selvaggi”) Constance Towers (“Soldati a cavallo”) Carroll Baker (“Il grande sentiero”) e l’ex bambina prodigio Shirley Temple, che figurò in “Alle frontiere dell’India” e “Il massacro di Fort Apache”.


Al lavoro

Con gli attori di sesso maschile i rapporti del regista furono piuttosto altalenanti, salvo nei riguardi di alcuni del calibro John Wayne (1907-1979). Quando Howard Hawks assegnò la parte di protagonista al “Duca” ne “Il Fiume Rosso” del 1948, Ford – che lo aveva un po’ messo da parte dopo “Ombre rosse” – dovette riconoscerne la bravura, dopo che Howard Hawks lo aveva definito “maledettamente bravo, altrimenti non sarebbe stato sulla cresta dell’onda così a lungo” (Joseph Mc Bride, “Il cinema secondo Hawks”, Pratiche Editrice, Parma, 1992, p.47).
E’ indiscutibile che a Wayne siano stati affidati i ruoli fondamentali della filmografia di Ford, che si tratti di western o di altro genere, così come Maureen O’Hara fu la sparring partner ideale del Duca, ma non si deve dimenticare che il primissimo interprete scelto dal regista fu Harry Carey, newyorkese nato nel 1878, quando il West era ancora in piena evoluzione. Prima di darsi alla regia con “For the Love of a Girl” del 1916, questo attore aveva recitato in una quarantina di film muti, dal 1909 al 1916, sotto la direzione di David Wark Griffith. Con Ford, Carey ne interpretò 26, diventò celebre con il soprannome di “Cheyenne Harry” e nel 1939 ebbe una nomination all’Oscar per la sua parte in “Mr Smith va a Washington” di Frank Capra. Ford nutrì sempre una stima sviscerata per questo cowboy dal cappello con la cupola alta, tant’è che “In nome di Dio” – girato nel 1948, pochi mesi dopo la scomparsa dell’attore – glielo dedicò espressamente con questa dicitura: “In ricordo di Harry Carey, luminosa stella dell’alba del cinema western”.
L’incontro del regista irlandese con Henry Fonda avvenne nel 1939 sul set di “Alba di gloria”, il film in cui interpretava il giovane Abraham Lincoln. In seguito, questo promettente attore del Nebraska – nato a Grand Island nel 1905 – lavorò ancora con Ford che lo tenne in altissima considerazione (“La più grande avventura”, “Furore”, “Sfida infernale”, “Il massacro di Fort Apache”) fino a quando non arrivò a litigare con lui per questioni legate alla lavorazione di “Mr. Roberts”. Fonda era stato addirittura preferito a Marlon Brando e a William Holden contro il parere della Warner Bros., ma sul set ebbe una serie di accese discussioni con Ford, che lo accusò di recitare la parte in maniera troppo esclusiva. A quanto racconta qualche biografo, i due giunsero al punto di mettersi le mani addosso e l’intesa terminò burrascosamente.
Premesso che fu John Wayne ad occupare i ruoli principali in almeno 7 western di successo diretti da Ford fra il 1948 e il 1962 – “Il massacro di Fort Apache”, “I cavalieri del Nord-Ovest”, “Rio Bravo”, “Sentieri selvaggi”, “Soldati a cavallo”, “La conquista del West” (episodio) e “L’uomo che uccise Liberty Valance” – vi furono altri attori che sostennero accanto a lui, o in sua assenza, parti decisamente importanti. Fra questi, James Stewart fu senz’altro il prediletto dal regista. Nato nel 1908 in Pennsylvania e pluridecorato per i servizi resi al Paese durante la guerra quale ufficiale d’aviazione – raggiunse il grado di colonnello a 37 anni di età e ottenne in seguito quello di generale di brigata aerea, meritando 2 volte la Croce di Guerra al valore aeronautico – recitava nel cinema fin dal 1934 ed aveva acquistato celebrità con “Mr Smith va a Washington” nel ‘39, ottenendo una nomination all’Oscar.
Ford lo selezionò per “Cavalcarono insieme”, riproponendolo come co-protagonista di Wayne ne “L’uomo che uccise Liberty Valance” e affidandogli una mansione molto più marginale ne “Il grande sentiero”. In tutti e tre i film sembra che il regista si diverta ad assegnargli parti antipatiche, che probabilmente non avrebbe osato proporre al suo amico Wayne. In “Cavalcarono insieme” veste i panni dell’odioso sceriffo Guthrie Mc Cabe, capace di speculare sulle sciagure della povera gente; nel secondo film, è un “piede tenero”, giunto dall’Est con una laurea in giurisprudenza per soffiare la gloria e la fidanzata al burbero allevatore Doniphon (Wayne). Nell’ultimo, un’esagerata caricatura del marshal Wyatt Earp, con il quale non ha alcun tratto in comune e neppure una vaga somiglianza.
Stewart ricoprì dunque i ruoli che difficilmente Ford avrebbe potuto affidare ad un altro, diventando la giusta alternativa al Duca. Insieme a lui, in un paio di pellicole, compare Woody Strode, un caratterista nero di Los Angeles dalle straordinarie capacità, che in “Cavalcarono insieme” ha la parte marginale del capo comanche Orso di Pietra e ne “L’uomo che uccise Liberty Valance” quella di Pompey, fedele servo di Doniphon. Impressionato dalla sua bravura, Ford ne fece il co-protagonista, insieme a Jeffrey Hunter, de “I dannati e gli eroi”, nel quale l’attore afro-americano è un convincente primo sergente Rutledge della cavalleria americana, ingiustamente accusato di violenza carnale e omicidio di una donna bianca.
Mentre Tyrone Power e Lee Marvin furono protagonisti ciascuno di un solo film di Ford – rispettivamente “La lunga linea grigia” e “L’uomo che uccise Liberty Valance” – il biondissimo Richard Widmark del Minnesota (classe 1914) interpretò “Cavalcarono insieme” e “Il grande sentiero”, in entrambi i casi con indosso l’uniforme di ufficiale di cavalleria, dividendo nel primo il ruolo principale assieme a James Stewart.
Fra i caratteristi che contribuirono ad innalzare il livello della produzione fordiana, non si possono dimenticare altri nomi importanti, quale Victor Mc Laglen. Inglese nato nel 1886 ed emigrato prima in Canada e poi negli USA, ottenne l’Oscar come miglior attore protagonista de “Il traditore”, un film drammatico, recitando in altri 11 film con lo stesso regista (fra i quali vi sono quelli della “trilogia militare”) con il suo inconfondibile tocco di comicità nella parte del sergente ubriacone e attaccabrighe.
Ward Bond, originario del Nebraska, dov’era nato nel 1903, partecipò a 20 film di Ford, rivestendo diversi ruoli. Memorabile quello del sergente maggiore O’Rourke ne “Il massacro di Fort Apache”, del severo padre Lonergan in “Un uomo tranquillo”, del reverendo-ranger Clayton in “Sentieri selvaggi”.
Anche Harry Carey junior, figlio dell’omonimo attore scomparso nel 1947, ebbe un peso non trascurabile nella filmografia fordiana, interpretando 9 pellicole. Lo si trova infatti in tutti i suoi maggiori western del dopoguerra, spesso nelle parti di ufficiale o soldato di cavalleria, mentre in “La lunga linea grigia” interpreta il cadetto Dwight D. Eisenhower negli anni dell’accademia a West Point.

Monument Valley

Un luogo suggestivo unico al mondo, ma sicuramente inospitale e comunque poco adatto ad accogliere qualsiasi tipo di insediamento colonico, nonostante la presenza di un laghetto: eppure Ford la scelse per girarvi ben 9 dei suoi lavori più prestigiosi.
Situato fra i 1500 e i 1800 metri sul livello del mare, l’altopiano incluso nella grande riserva dei Navajo nel 1933 – prima apparteneva agli indiani Paiute – misura un’estensione di 120 Kmq. e dista una settantina di chilometri da Kayenta, che è la città più prossima. Costellato di torrioni di roccia rossastra dalle forme più disparate, ai quali sono stati dati nomi singolari come West Mitten, East Mitten, Train Mesa, Sentinel Mesa, Rock Door Canyon, Square Rock, Mexican Hat, registra temperature elevate, pur sempre nella media del clima della Grandi Pianure, con punte massime di 40° e minime di 19°. Uno spuntone roccioso porta il nome del regista – John Ford’s Point – perché egli era solito sistemarvisi per assistere alle riprese.
Alla domanda su come l’avesse scoperta per ambientarvi tanti film, Ford rispose: “Ci ero passato una volta in macchina, attraversando l’Arizona verso Santa Fè, nel New Mexico” (Bogdanovich, op. cit., p. 74). In realtà, qualcuno sostiene che fu Harry Goulding, dopo aver saputo che Hollywood aveva un film western in cantiere, a presentarsi agli uffici della United Artists “per convincere i cineasti che Monument Valley poteva essere uno scenario ideale per il film in progetto” (Carlo Gaberscek, “Il West di John Ford”, Arti Grafiche Friulane, 1994, p. 25).
Goulding era un commerciante del Colorado insediatosi nella vallata durante gli Anni Venti, su una porzione di terra di oltre 250 ettari quando questa era ancora demaniale. Vi aveva costruito un locale di ristoro che si chiamava Goulding Trading Post, utilizzato in seguito da John Ford varie volte per le sue riprese cinematografiche. Ad esempio, ne “I cavalieri del Nord-Ovest” venne adibito ad edificio interno di Fort Stark, trasformandolo in bar.
Ford non era stato comunque il primo a scoprire la Monument Valley per i suoi film. George B. Seitz l’aveva preceduto nel 1925 con “Stirpe eroica”, seguito da “Wild Horse Mesa” ed altri cortometraggi. “Ombre rosse” fu dunque il quarto film a svolgersi fra le torri rocciose della vallata, anche se la diligenza utilizza circa un quarto d’ora dello scenario sui complessivi 96 minuti del lungometraggio. Ford però insistette anche in seguito per girare i suoi esterni nella Monument. Per “Sfida infernale” vi ricostruì la città di Tombstone e il ranch della banda Clanton, come ne “I cavalieri del Nord-Ovest”, “Sentieri selvaggi” e “I dannati e gli eroi” si servì dei suoi suggestivi sfondi per far sfilare reparti di cavalleria o nascondere Comanche o Apache in agguato. “I cavalieri del Nord-Ovest” vinse addirittura l’Oscar per la fotografia grazie alle maestose riprese dirette da Winton Hoch. “Ho tentato” raccontò il regista “di imitare lo stile di Remington (Frederic Remington, noto pittore americano dell’Ottocento) anche se non ci si può riuscire più di tanto” (Bogdanovich, op. cit., p. 86).


Nella Monument Valley

Ovviamente, non tutte le scene di uno stesso film furono girate qui.
La sequenza finale di “Ombre rosse”, con gli Indiani lanciati all’inseguimento della diligenza, fu trasferita nella vallata desertica del Lucerne Dry Lake in California, così come l’attraversamento del fiume si svolse a Kernville, sulla Sierra Nevada californiana. Il Kern River ripreso nel film venne poi cancellato nel 1955 dalla creazione di un grande bacino artificiale. Il Goulding Trading Post ospitò più volte le troupe e si conservò per anni nella sua forma originaria, prima di essere ristrutturato, mentre il locale adibito a magazzino ne “I cavalieri del Nord-Ovest” venne convertito in museo. Anche la cittadina di Tombstone rimase in piedi per alcuni anni come attrazione per i turisti, prima di essere smantellata. Nella Monument Valley venne girati alcuni esterni di “C’era una volta il West” di Sergio Leone, che vi trasferì il set per le alcune riprese.
Per l’ambientazione di altri western, Ford si spostò in California, nel Texas meridionale e nella Moab Valley dell’Utah. Quest’ultimo luogo ospitò le scene de “La più grande avventura”, che nella finzione cinematografica si sviluppa invece nelle foreste dell’Est.
La Monument Valley rappresenta ancora oggi l’emblema dei western di Ford ed è difficile immaginare un luogo diverso per le sue storie. Fra i suoi torrioni di roccia rossastra, gli anfratti, le grotte e le aride distese pianeggianti o collinari, si sono mossi cavalieri e Indiani, sceriffi e banditi, diligenze e carovane. In pratica, tutto ciò che costituisce l’essenza del West.

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