Luis Terrazas, il Chihuahua… e gli Apaches

A 24 anni, dice il biografo di Don Luis, “il suo nome compare in una lista di volontari per el pago de cabelleras de indios”. Dieci anni dopo, a 34 anni, già governatore, scrive a un amico una lettera sugli Apaches che isolano pueblos, haciendas e ranchos.
Un guerriero Apache
Non sono altro che “orde distruttive e insaziabili di sangue e saccheggio”, esclama, per poi venire al sodo: “Sono persuaso che questo nemico di tutta la civilizzazione, feroce e sanguinario più per carattere che per ignoranza, cederà solo davanti alla forza materiale, unico mezzo per ridurlo all’impotenza di continuare le sue abominevoli depredazioni”. Così accadrà.
Nell’autunno del 1880, a 51 anni di età, Luis Terrazas pone fine al capitolo della guerra contro gli Apaches, ordinando una campagna comandata da suo cugino, Joaquín Terrazas, uno spietato combattente, che nel nord del Messico tutti chiamavano, e a ragione, “il Flagello degli Apaches”. E’ lui, l’incaricato, dello sterminio di Geronimo, Juh, e soprattutto di Victorio, il capo più temibile del nord del Messico.
Braccato anche dall’Esercito Americano, capitan Victorio comanda l’ultima più folta ed agguerrita banda Apache. Uomo intelligente ed equilibrato, il condottiero Mimbreno è veramente un abile stratega; cresciuto sotto Mangas Coloradas – il più potente capo Apache del XIX secolo – ne è divenuto il degno erede. Dopo la sua fuga dalla riserva Mescalero (1879), ha surclassato sul campo diversi generali e causato centinaia di morti: tra gli ultimi a cadere sotto i suoi colpi nel Chihuahua, due gruppi di combattenti di Carrizal, più di 30 uomini, i migliori di quella cittadina. Ma negli scontri Victorio ha perso molti guerrieri (tra cui suo figlio Washington), le munizioni cominciano a scarseggiare ed egli stesso è rimasto ferito.


Una donna e il suo bambino

Per impedire defezioni ed indebolire ulteriormente la banda, durante un diverbio Victorio uccide Caballero, il suo alleato capo Mescalero. Poi la fuga per la libertà continua, “verso la Sierra Madre”, dissero i testimoni Apache.
Ma il Chihuahua esige giustizia, e il suo patriarca Don Luis si occuperà di procurarla, condannandolo a morte. Per combatterlo, Terrazas promise a suo cugino Joaquin tutto l’appoggio del governo di Chihuahua.
“Il governo pagherà 4 reales ai fanti e 6 reales in più a coloro che si presenteranno a cavallo”, comunicò, “e pagherà i premi per le capigliature degli Indiani guerrieri, las piezas vivas di donne e bambini, secondo la legge, e 2 mila pesos per Victorio”.


Una corsa sfrenata

Il colonnello Joaquín Terrazas, al comando di 260 combattenti scelti e pesantemente armati, batté poco dopo Victorio, scovato quasi senza munizioni sulle immense pianure chihuahuensi, in un remoto luogo chiamato “Los Tres Castillos”: la vera tomba a cielo aperto degli Apaches e dell’ultimo grande nantan dei Mimbrenos, che vedendosi battuto si toglierà la vita con il suo stesso coltello. Poco dopo, Kayatennae ritroverà il suo corpo, che sepellirà sotto un cumulo di pietre. L’impari battaglia durò due giorni: si era allora nel 14-15 Ottobre 1880. L’anno prima, Don Luis aveva fondato una banca.
Presto, nel 1883, morirà cadendo da cavallo il temuto capitan Juh, il più feroce degli Apaches per antonomasia e tristemente famoso per le sue efferate uccisioni. Alcuni affermano che fosse un sadico e, certamente, ancora oggi il suo nome è sinonimo di uomo cattivo nel nord del Messico. Ma l’anno precedente (Aprile 1882), a causa di un attacco alla sua rancheria compiuto dai messicani al comando del major Mata Ortiz, il condottiero Ndèndaì aveva perduto sua moglie Ishton e la figlioletta di soli 4 anni, mentre un’altra sua figlia, Jacali, rimase storpia a vita (in seguito gli amputarono la gamba). 7 mesi dopo, nel Novembre del 1882, Juh vendicherà i suoi morti, ponendo fine all’esistenza del “gordo” Mata Ortiz e degli oltre 20 uomini che lo accompagnavano. La leggenda vuole che Mata venisse ucciso per ultimo: bruciato vivo da Juh, come lo stesso capo Apache gli aveva promesso.
Geronimo
Daklugie, sopravissuto figlio minore di Juh, raccontò che il governatore Luis Terrazas e il presidente Porfirio Diaz, si incontrarono personalmente con suo padre, allo scopo di far cessare le ostilità nel Chihuahua:
“Diaz non disse nulla per un po’. Quindi parlò rapidamente rivolto a Terrazas così rapidamente che Juh non potè capire tutto quello che disse. Finalmente si girò verso mio padre e disse “Se siete affamati, uccidete il bestiame. Non uccidete cavalli e muli per la carne, ma prendete bestiame. Non uccidete le vacche, ma uccidete i maschi. Quindi questi aumenteranno per tutti.” Mio padre pensò e fu d’accordo con questo. Sentiva che dovevano ancora arrivare molte rimostranze e aspettò. Il presidente finalmente disse “questo scalping, non permetterlo.” “Chi ha iniziato a scalpare?” Domandò Juh. “Forse che il tuo Governatore non offre cento pesos per gli scalpi di uomini Apache, cinquanta per quelli delle donne, venticinque per quelli dei bambini? E forse che non prendono molti più capelli dal tuo popolo che non dal mio? Ricompense non sono forse date per gli scalpi ogni giorno nella tua Città dei Muli? Se tu fermerai il tuo popolo dal prendere capelli, io fermerò il mio; ma non prima che tu lo faccia”. “Io voglio la pace” disse Diaz “e quindi ordinerò questo”. “Anche io voglio la pace” disse Juh “E tu puoi fare meglio che dare ordini. Potresti verificare che siano obbediti”.
E così terminò il meeting. Ma le tregue tra Messicani e Apaches furono sempre di breve durata. Dopo la morte di Juh, la cavalleria messicana catturò Delzhinne e Daklegon (2 altri figli del defunto capo), che vennero portati a Città del Messico, dove morirono. Restava sul campo ancora Goyahkla alias “Colui che Sbadiglia”, meglio noto come Geronimo.


Ciudad Chihuahua: la prigione e la sua guarnigione

A far la guerra rimase il sessantenne diyin, il cui odio verso i Messicani aveva vecchie radici. Intorno al 1851 la sua famiglia venne interamente massacrata: madre, moglie e 3 figli. Anche lui – uguale a Don Luis Terrazas – era diventato capo famiglia da giovane, dopo la morte di suo padre Taklishim. Costretto dai suoi, finirà con l’arrendersi agli Americani, nei primi giorni di settembre del 1886, e non ai Messicani, che poco tempo prima avevano progettato di ucciderlo, invitandolo con la sua gente a Fronteras. Ma lo scaltro Geronimo non cadde nella trappola. Non abbandonando il progetto di eliminarlo, il prefetto di Fronteras inviò ingenti forze nei pressi del confine, dove Geronimo e i suoi – scortati dagli Americani ma ancora armati – si dirigevano ad incontrare il generale Miles per arrendersi. Qui, più a nord di Fronteras, avvenne un singolare colloquio tra 7 Apaches (tra cui Geronimo), 7 Americani (tra cui Gatewood) e 7 Messicani, che rappresentavano i rispettivi gruppi. L’incontro venne stabilito lontano dal grosso delle truppe messicane, i cui ufficiali volevano essere certi che Geronimo si stesse davvero arrendendo, anche se la loro reale intenzione era quella di distruggerli.


Una lapide ricorda Geronimo

Durante il colloquio, un ufficiale messicano domandò a Geronimo il perché non si fosse arreso al Messico; la risposta del lungimirante leader dei Bedonkohe fu: “perché voi ci avreste massacrati!”. Non si sbagliava. Secondo alcune testimonianze, il colloquio finì col prendere una brutta piega, poichè mancò poco che Goyahkla sparasse all’ufficiale messicano. Ma gli Americani intervennero riportando la calma. Infine, il colloquio terminò, con gli Apaches che si diressero a nord insieme gli Americani, e i Messicani che furono costretti a tornare a sud, senza “las cabelleras de los barbaros” da esibire o vendere.
Pancho Villa
Ma le guerre Apache nel Chihuahua si potevano ormai dire concluse. Tuttavia, ancora da vecchio, Geronimo non dimenticherà, ricordando sempre i Nakayè (Messicani) con odio e disprezzo: “Ho ucciso molti messicani: non so quanti, perché sovente non li ho contati. Qualcuno di loro non era nemmeno degno di essere contato. Da allora è passato molto tempo, ma ancora adesso detesto i messicani. Con me furono sempre infidi e malvagi. Ora sono vecchio e non scenderò mai più sul sentiero di guerra ma, se fossi giovane… questo mi condurrebbe nel Vecchio Messico.”
Durante i suoi ultimi anni, vennero prese numerose foto a Geronimo; queste lo mostrano triste, ma ancora con il suo odio dipinto nel volto, già crudele di per sé, o forse segnato dai tanti lutti subiti nel corso della sua vita, un’esistenza di guerra in verità. Morirà nel 1909 a quasi 90 anni di età, senza poter far ritorno nella sua terra e dopo aver visto morire quasi tutti i componenti della sua famiglia, comprese diverse altre mogli e figli, tra cui si ricorda il giovane Chappo, immortalato al suo fianco in alcune foto e morto di tubercolosi nel 1894.
La tomba di Terrazas
La fine della grande guerra contro gli Apaches coincise con un evento che sarà trascendentale: l’introduzione della ferrovia in Chihuahua. Entrambi i fattori, unitamente al prezzo della terra, bassissimo, saranno la chiave dell’immensa fortuna di Don Luis Terrazas. Ma a ben vedere anche il suo finale non sarà molto felice, poiché subì le devastazioni della Rivoluzione, nella sua figura più terrificante: quella di Francisco Pancho Villa.
Le sue infinite vacche, che prima venivano rubate dagli Apaches, vennero ora date al popolo, e le sue immense fortune espropriate. Terrazas aveva già visto morire due dei suoi figli ( dopo il suicidio di Guillermo nel 1878, Federico venne fulminato da un infermità nel 1903 ), quando ebbe la pena di veder scomparire anche il suo primogenito, Luis, che tempo prima era stato sequestrato dalle Truppe Federali di Pancho Villa. Le foto della sua vecchiaia lo mostrano sconfitto, disilluso e triste ma – al contrario degli Apaches – ebbe la fortuna di ritornare a vedere un’altra volta il cielo del Chihuahua, quello stesso immenso cielo sotto il quale gli Ndè, per secoli, avevano vagabondato in libertà. A 94 anni “Don Luis”, racconta il suo biografo, “morì nel suo letto, nella sua casa e nella città che lo vide nascere: era la mattina del 15 giugno 1923”.

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