La storia di Metacomet, Re Filippo

Le truppe di Hatfield si erano divise in piccoli gruppi, alcuni percorrendo una strada, altrettanti scegliendo un sentiero diverso che doveva portare al luogo dove erano stati lasciati i cavalli. Pochi uomini fortunati riuscirono a raggiungere i cavalli appena prima che i guerrieri riuscissero a prenderli. Altri coloni furono costretti a dirigersi verso casa a piedi. I guerrieri seguivano gli Inglesi, ormai nel panico, infliggendo perdite ogni volta che era possibile. Il capitano Turner venne ucciso mentre cercava di attraversare il Green River. Dei 150 partecipanti, almeno 40 furono uccisi nella ritirata. Alcuni viaggiarono separati dal corpo principale del gruppo e cercarono di trovare da soli la strada; pochi ci riuscirono, mentre molti altri non tornarono. Il corpo del capitano Turner venne trovato circa un mese dopo e venne arso sulla riva del fiume, vicino al posto dove era stato rinvenuto.
Comunque, da questo momento i coloni cominciarono a prendere il sopravvento. Le città sul fiume Connecticut controllavano i loro raccolti limitando l’estensione della terra coltivata e lavorando in folti gruppi armati per auto protezione. Springfield, Hatfield e Hadley furono fortificate e la loro milizia rinforzata, riuscendo a difendere il proprio territorio sebbene subisse diversi attacchi. Le città più piccole vennero abbandonate, in attesa di tempi migliori.


Mappa della guerra

Nello stesso tempo, dopo la disfatta alle cascate, quelli fra gli alleati di Filippo che erano stati da lui attratti nella guerra cominciarono ad accusarlo di essere l’autore delle loro sconfitte. Molti componenti delle varie tribù, infatti, si dispersero nelle varie direzioni. Gli Indiani di Deerfield furono tra i primi ad abbandonare la causa, e molti Nipmuck e Narraganset seguirono il loro esempio. Ma ancora, Filippo, sebbene non si fosse fatto vedere molto nel corso dell’inverno – e non si sa con precisione in che luogo ne abbia passato la maggior parte – non aveva intenzione di diminuire i tentativi di battere gli Inglesi. Nel mese di maggio 1676 si ritrovò a capo di una potente armata che occupava molte miglia nella direzione est – ovest della frontiera nord del Massachusetts. Un numero considerevole di guerrieri erano Narraganset, che devastavano in continuazione gli insediamenti inglesi.
Il giorno 30 maggio seicento guerrieri apparvero improvvisamente a Hatfield, invadendo la città. In brevissimo tempo incendiarono dodici abitazioni non fortificate e ne attaccarono molte che erano protette da palizzate. Gli abitanti si difesero bravamente. Nel mezzo della battaglia, mentre i cittadini si difendevano dall’attacco nelle loro abitazioni o nei posti di lavoro, un gruppo di 25 uomini provenienti da Hadley attraversò il fiume e si lanciò con animosità contro gli Indiani, aprendo un fuoco talmente micidiale che i Nativi furono costretti a ritirarsi. Presto l’intera spedizione indiana fu obbligata a tornare indietro, senza essere riuscita ad raggiungere lo scopo che si era prefissa, ossia la completa distruzione dell’intera città. Riuscirono invece a portare via un gran numero di pecore e di bovini.
Il Massachusetts e il Connecticut aumentarono le forze di difesa in questo settore del territorio, vista la determinazione dei Nativi nel devastare gli insediamenti lungo il fiume Connecticut.

Il successivo obiettivo degli attacchi indiani fu Hadley, che venne attaccata da circa settecento guerrieri indiani. Il capo di guerra dei Wampanoag usò uno stratagemma per attirare al nord il grosso delle truppe inglesi, così, essendo rimasti i coloni senza la protezione di soldati professionisti, il 12 giugno i Wampanoag si presentarono all’estremità meridionale della cittadina, avanzando poi casa per casa. Sebbene gli Indiani mostrassero la loro solita ferocia, furono contrastati e respinti nel combattimento sulle palizzate. Rinnovando gli attacchi in altri punti, sembrava che potessero impadronirsi del villaggio. Invece vennero tenuti in scacco e respinti poi nei boschi da una spedizione di soccorso giunta da Northampton, composta da uomini della milizia e alleati Mohegan. I Mohegan, di stirpe irochese, erano acerrimi nemici delle tribù algonchine del New England. Si dice che il merito del soccorso ai cittadini di Hadley sia da ascrivere a William Goffe. Questi era fuggito dall’Inghilterra perché accusato di partecipazione nel regicidio di Carlo I. La leggenda dice che, nel mezzo della confusione della battaglia, un uomo grigio di capelli e di aspetto venerabile, il cui abito era diverso da quello degli abitanti della città, apparve e assunse la direzione della difesa. Egli schierò la gente nel modo migliore, dimostrando di conoscere a fondo le migliori tattiche militari, la condusse alla battaglia e, con l’esempio e le incitazioni, portò un aiuto decisivo. Dopo la ritirata degli Indiani, non fu più visto e nulla più si seppe di lui in seguito. Poiché è noto che, a quel tempo, Goffe e suo suocero Whalley erano nascosti in casa di un certo Russel di Hadley, si è pensato che Goffe avesse lasciato il suo nascondiglio e, visto il pericolo in cui versava la città, si fosse lanciato nella mischia per contribuire alla sua salvezza.


Il “generale” Goffe respinge gli Indiani – stampa

I Mohawks di New York, tradizionali nemici di molte delle tribù in guerra, continuarono a fare incursioni contro gruppi isolati di Nativi algonchini nel Massachusetts, disperdendone e uccidendone molti. Le zone tradizionali di coltivazione e le aree di pesca in Massachusetts, Rhode Island e Connecticut erano continuamente attaccate da pattuglie miste di coloniali e Indiani loro alleati. Ogni campo coltivato che veniva trovato era subito distrutto. Le tribù riuscivano difficilmente a trovare posti dove coltivare per ricavare abbastanza cibo o a pescare abbastanza pesce in vista dell’inverno incombente. Molte delle tribù belligeranti si diressero a nord, verso il Maine, il New Hampshire, il Vermont e il Canada. Alcune si portarono molto ad ovest, per evitare i tradizionali nemici Irochesi.
Più tardi, nello stesso mese di giugno 1676, un gruppo di 250 Indiani fu messo in fuga presso Marlborough, Massachusetts. Gruppi armati misti di volontari coloniali e Indiani alleati continuarono ad attaccare, uccidere, catturare o disperdere bande di Narraganset, Nipmuc e Wampanoag quando questi tentavano di piantare delle colture o di tornare ai loro tradizionali luoghi di residenza. I coloni garantirono l’amnistia ai Nativi delle tribù che si fossero arrese o che, se catturate, dimostrassero di non aver partecipato al conflitto. Gli Indiani presi prigionieri che si sapeva avevano partecipato agli attacchi ai vari insediamenti, venivano impiccati o portati alle Bermude in schiavitù.
Gli Inglesi avevano cominciato a capire bene il metodo di combattimento degli Indiani e adesso li attaccavano ovunque potessero trovarli. Colsero di sorpresa diversi grandi gruppi di Nativi in luoghi differenti. Cominciava ad essere chiaro che Filippo e i vecchi guerrieri avevano ragione e i giovani, torto. Molti capi erano stati uccisi. Gli Indiani non avevano riserve di granturco. Gli Inglesi devastavano ogni campo che fosse coltivato. Alla fine gli Indiani avevano perso ogni speranza. In pratica stavano morendo di fame. Gli alleati di Metacomet cominciarono ad abbandonarlo. All’inizio di luglio, in oltre 400 si arresero ai coloniali, mentre Metacomet trovò rifugio ad Assowamset Swamp, a sud di Providence, vicino a dove la guerra era cominciata.
Il capo aveva capito che la causa degli Indiani era perduta. Egli voleva vedere ancora una volta la sua vecchia casa, il posto dove aveva vissuto per sessant’anni e che ora sentiva avrebbe perso per sempre. Ormai il suo villaggio era stato devastato dalla guerra, il suo wigwam distrutto, il suo campo di granturco calpestato, la sua famiglia portata lontano da lui e i suoi amici presi prigionieri. Sentiva che la guerra era sbagliata, i suoi giovani guerrieri erano stati troppo impulsivi nel cominciarla senza una preparazione adeguata. Guardava nel futuro e lo vedeva troppo scuro per lui. La guerra invero era vicina alla fine. I Wampanoag parlavano di arrendersi e Filippo sapeva che la resa avrebbe significato la sua morte. Ma rifiutava categoricamente anche solo di pensare alla resa. Adesso Filippo non era più sicuro in nessun posto, ma il suo carattere altezzoso non cedeva alle avversità. Sebbene fosse andato incontro a ingenti perdite, e fra queste anche quelle dei suoi guerrieri più esperti, nonostante ciò sembrava più ostile e determinato che mai.


Villaggio fortificato Wampanoag

In agosto il capitano Church fece un attacco contro il quartier generale di Filippo a Matapoiset, dove uccise o prese prigionieri circa 130 guerrieri. Lo stesso Filippo riuscì a fuggire con difficoltà. Fu così precipitosa la sua fuga, che fu costretto a lasciare indietro la sua cintura di wampum, che cadde nelle mani dei vincitori insieme a sua moglie e a suo figlio. Fu poi accertato che il figlio venne venduto come schiavo, insieme a un gruppo di seguaci di Metacomet catturati. La relazione che fece Church riporta questi particolari: la guida di Church lo aveva condotto in un punto dove giaceva un grosso tronco d’albero che il nemico aveva abbattuto e posizionato attraverso un fiume. Church era giunto sulla riva, ad un’estremità del tronco, quando si avvide che all’altra estremità, dalla parte delle radici e dall’altra parte del fiume, c’era un Indiano. Immediatamente prese la mira e lo avrebbe freddato di sicuro, se uno dei suoi Indiani non gli avesse gridato di non sparare, perché pensava che fosse uno dei suoi uomini. Sentendo ciò, l’Indiano che stava dalla parte delle radici, guardò da quella parte e l’Indiano di Church, vedendo il suo volto, comprese il suo errore: in quell’uomo aveva riconosciuto Filippo. Lo stesso Indiano allora fece fuoco, ma era troppo tardi. Filippo si allontanò immediatamente dalla sua posizione, balzò sull’argine dell’altra riva del fiume e si portò fuori vista. Subito Church si pose all’inseguimento, ma non fu in grado di capire che direzione avesse preso il fuggitivo, e riuscì solo a catturare alcuni dei suoi seguaci. Da quel momento, Filippo fu inseguito molto da vicino e senza tregua: non poteva sfuggire alla sua sorte. La maggior parte dei suoi seguaci lo aveva abbandonato e fu seguito di luogo in luogo, finché si ritrovò in un antico sito vicino a Pokanoket.
Nella versione più accreditata, le circostanze della morte di Filippo vengono così narrate: avendo egli messo a morte uno dei suoi uomini perché questi gli aveva consigliato la pace, il fratello di quest’uomo, che si chiamava Alderman e aveva paura di fare la stessa fine, lo abbandonò e si recò dal capitano Church a dargli un resoconto della situazione e offrendosi di accompagnarlo al campo di Filippo. Il sabato 12 agosto, di primo mattino, Church giunse alla palude dove Filippo era accampato e, prima di essere scoperto, circondò il luogo di armati, eccetto che in un piccolo passaggio. Ordinò poi al capitano Golding di irrompere nella palude, cosa che questi fece subito, ma fu scoperto mentre si stava avvicinando e, come sempre, Filippo fu il primo a fuggire. Ma nella corsa incappò in un Inglese e un Indiano che partecipavano all’imboscata. Il fucile dell’Inglese si inceppò, ma quello dell’Indiano, che era Alderman, colpì Filippo al cuore. La notizia fu subito comunicata dallo stesso Alderman al capitano Church, che però non le diede molta importanza, concentrato come era nell’intento di sconfiggere definitivamente il nemico. Uno dei capi principali di Filippo, Annawon, aveva condotto sessanta dei suoi guerrieri in salvo da quella situazione pericolosa e, quando gli Inglesi irruppero nella palude, non trovarono che pochi Indiani, subito uccisi o catturati. Con il grande capo erano caduti cinque dei suoi più fedeli seguaci. Alla fine dell’operazione, Church comunicò alla sue truppe la gradita notizia della morte di Filippo, al che l’intera armata proruppe in tre fragorosi “hurrà!”. Il corpo di Filippo fu sollevato dal posto ove si trovava, fu decapitato e gli furono amputate le mani , mentre il corpo venne squartato e lasciato insepolto, perché fosse divorato dagli animali selvatici. La testa di Metacomet venne portata a Plymouth ed esposta in cima a un palo per ben vent’anni.


L’uccisione di Re Filippo

Vi è un resoconto con cui un colono, che all’epoca dei fatti aveva sedici anni ed era nipote del capitano Benjamin Church, narra con parole sue la fine di Re Filippo. Forse questo personaggio narra in prima persona e col piglio del testimone oculare anche fatti riferitigli dallo zio o da altri partecipanti alla spedizione, ma il racconto è quanto meno indicativo della mentalità e dell’atmosfera che regnava tra i Bianchi dell’epoca.
«I mesi della caccia agli Indiani erano quelli estivi, perché il letto dei torrenti si prosciugava, le abbeverate erano punti obbligati lontanissimi l’uno dall’altro, ma ben noti agli esploratori e alle guide. Così era molto più facile tendere agguati agli Indiani assetati e sterminarli. Nel 1677 gli Indiani attaccarono e distrussero il villaggio di Sudbury e mio zio ricevette l’ordine di attaccarli al più presto. Avevo appena compiuto 16 anni e per la prima volta ebbi il permesso di accompagnare i cacciatori; mio padre per l’occasione mi regalò uno splendido moschetto inglese e una Bibbia solidamente rilegata in pelle grezza. Da allora il fucile e la Bibbia mi accompagnarono sempre in tutte le mie spedizioni di caccia agli Indiani. E mi salvarono anche la vita: essendo caduto prigioniero di una banda di Sauk dovetti donarli al capo in cambio della libertà.
«Partimmo con i carri carichi di vettovaglie e di munizioni all’inizio dell’estate. Mio zio comandava un piccolo esercito, composto da 120 regolari, da un gruppo di abitanti di Bridgewater arruolatisi di fresco e ansiosi di vendicare non so quale torto fatto loro dagli Indiani, e da 30 battitori indigeni. Questi ultimi avevano il compito di individuare le bande; e poi, sparando e facendo fracasso, di spingerle verso la linea dei soldati appostati.
Dopo circa due giorni di cammino, lasciammo finalmente le coltivazioni ed entrammo nella foresta…La suggestione intraducibile di quei luoghi tanto diversi da quelli che avevo sempre conosciuto, giunse perfino a farmi concepire il pensiero che nella foresta noi Bianchi fossimo estranei e nemici, non solo agli Indiani che ci apprestavamo a cacciare, ma agli alberi, ai cespugli, agli uccelli e agli animali, che per gli Indiani invece erano compagni e amici.
«Ma i soldati e i volontari procedevano allegri e di buon passo, e questo spettacolo valse a dissipare presto i miei sciocchi timori e i miei pensieri insensati. Al tramonto, mio zio ordinava la sosta per la notte e le guide accendevano grandi fuochi, attorno ai quali gli uomini consumavano la cena e passavano poi un buon quarto d’ora a chiacchierare, a ridere, a scherzare, a raccontare episodi e avventure ormai quasi leggendari. Vivere con quei veterani e ascoltare le loro storie mi emozionava a tal punto che poi, la notte, non riuscivo a dormire e trascorrevo le ore del riposo a rigirarmi nella coperta. Se mai un ragazzo ebbe una buona scuola per diventare un esperto cacciatore di Indiani, quel ragazzo fui io.
Colono pellegrino
Al terzo giorno, poiché ci stavamo avvicinando ai luoghi dove le nostre guide pensavano che si trovassero gli Indiani, cominciammo a camminare in silenzio e con crescenti precauzioni; durante la notte, mio zio proibì che si accendessero i falò, e dormimmo tutti al freddo, senza più canti, chiacchiere e risate. Al mattino del quinto giorno di caccia, il capitano Church, che stava all’avanguardia assieme alle sue guide indiane, raggiunse il corso di un torrente lungo il quale, secondo le segnalazioni, doveva essere accampata una banda di Indiani. Appena giunto in quel luogo, il capitano Church vide un selvaggio arrampicato su albero oltre il torrente; mio zio imbracciò il fucile e l’avrebbe certamente ucciso con la sua mira infallibile, se una delle guide non gli avesse gridato di non sparare, perché forse si trattava di uno dei nostri Indiani, mandato in avanscoperta. L’Indiano sull’albero, proprio in quel momento, si guardò attorno e fu allora che il capitano Church, vedendolo in faccia, si accorse dell’errore: quell’Indiano era infatti Filippo, il maledetto cinghiale inferocito al quale da tanti giorno stavamo dando la caccia. Mio zio fece fuoco ma, ahimé, in ritardo: Filippo si lasciò scivolare lungo il tronco dell’albero e fuggì fra i cespugli presso la sponda del torrente. Mio zio, alquanto contrariato dall’incidente, decise che era il momento di allargare la battuta. Dopo aver lasciato alcuni soldati a presidiare il margine della palude dove era scomparso Filippo, il capitano Church e il signor Lowland, che comandava i volontari di Bridgewater, si avvicinarono dall’altra parte, cercando di circondare la zona.
«Erano appena giunti in posizione, che un gruppo di Indiani uscì allo scoperto, correndo velocemente. Alla vista di mio zio, del signor Lowland e dei volontari, gli Indiani scapparono, raddoppiando la velocità. Il capitano Church gridò che se si fossero arresi subito sarebbero stati risparmiati, altrimenti li avrebbe fatti uccidere tutti, visto che erano completamente circondati da uomini armati. Alle parole di mio zio, molti Indiani alzarono le mani e si lasciarono disarmare dai volontari. Purtroppo uno dei nostri riconobbe un Indiano che gli aveva ucciso un parente egli sparò a bruciapelo, uccidendolo. I volontari, credendo che il colpo fosse stato sparato dagli Indiani, aprirono subito il fuoco e tutti gli Indiani caddero, crivellati di palle. L’uomo che aveva sparato il primo colpo venne duramente punito da mio zio, che gli tolse per tre giorni la sua razione di rum: giusto castigo per la sua imprudenza.
«Poco più tardi, mentre io e molti altri nelle nostre posizioni non avevamo ancora avuto l’occasione di scaricare il fucile e fremevamo d’impazienza, mio zio e due uomini che gli stavano sempre al fianco si scontrarono con tre Indiani, due dei quali si arresero subito. Il terzo, invece, un uomo grande e robusto, con una enorme pelle di serpente a sonagli sulla testa e un aspetto molto selvaggio, fuggì e scomparve nella palude. Mio zio lo inseguì personalmente per un lungo tratto; quando lo raggiunse, gli puntò il fucile nella schiena e tirò il grilletto. Il colpo purtroppo non partì, e allora l’Indiano si voltò precipitosamente e puntò a sua volta il fucile. Ma per fortuna neppure il suo fucile sparò, probabilmente perché, come quello di mio zio, aveva l’innesco inumidito dalla brina del mattino. L’Indiano, poco coraggiosamente, voltò le terga e ricominciò a scappare; ma un piede gli rimase imprigionato in una radice e cadde a terra. Chiese pietà, lamentandosi come un agnello e bestemmiando il nome di Dio con preghiere e invocazioni cattoliche, certo apprese dai nostri mortali nemici francesi; ma mio zio, naturalmente, non lo ritenne degno di pietà e gli scaricò il fucile nella nuca, fulminandolo. Il che, se ce ne fosse bisogno, dimostra che gli Indiani, così coraggiosi e crudeli sul campo di battaglia, quando si trovano in condizioni di inferiorità diventano vili e strepitano come animali feriti.
Militare pellegrino
Il capitano, guardandosi alle spalle, vide allora correre verso di lui Totosan, un Indiano che credeva di aver ucciso in uno scontro precedente. Ma l’Indiano era stato avvistato anche dagli uomini della seconda linea, che gli spararono, salvando così la vita del capitano, sebbene egli corresse ugualmente un grave pericolo per le pallottole dei suoi che gli passarono così vicine da sentirne il sibilo.
«Ma la caccia era appena cominciata, anche se il sole era già alto sull’orizzonte e alle postazioni cominciavamo a soffrire per il caldo e per i miasmi fetidi che salivano dalla palude. Comunque, era circa mezzogiorno quando mio zio tornò verso di noi con il signor Lowland. Ricordo quello he stava dicendo al signor Lowland: “Caro amico, ho disposto i tiratori in modo che ci siano poche probabilità che quel cane di Filippo ci sfugga!”
«Proprio in quel momento una pallottola fischiò sopra le nostre teste e subito dopo, più in basso e sulla destra, cominciò a crepitare la fucileria. Sapemmo più tardi che un buon gruppo di Indiani con le loro donne avevano cercato di rompere la nostra battuta da quella parte, ma che il capitano Golding e i suoi uomini, tutti veterani, avevano potuto uccidere tutti. Poco dopo un selvaggio seminudo fu visto correre lateralmente alla nostra posizione, seguito da un ragazzo di dieci o dodici anni. Ma i nostri lo aspettavano: quando i due furono bene a tiro, un soldato inglese sparò al selvaggio senza colpirlo; cadde invece, ucciso non so da chi, il ragazzo. Fu allora che una delle nostre guide, che apparteneva alla stessa tribù alla quale stavamo dando la caccia, gridò: “E’ Filippo!” Il soldato che aveva mancato il colpo ordinò allora alla guida di sparare, cosa che l’Indiano fece non senza qualche esitazione, ma certo con cura. Infatti Filippo cadde con una pallottola nel cuore e piombò con il volto in avanti nella melma della palude. Appena caduto, altri volontari gli scaricarono addosso il fucile sprecando preziose munizioni, cosa per la quale furono rimproverati sia da mio zio che dal signor Lowland.
«Il sole era ormai quasi al tramonto quando, preannunciati dalle loro grida caratteristiche e dal suono dei corni, comparvero i battitori che avevano spinto gli Indiani alle nostre posizioni. Per evitare che qualcuno di loro venisse ferito, mio zio ordinò allora di sospendere il fuoco. Più tardi, quando tutti gli uomini si raccolsero intorno a lui, il capitano Church diede la notizia della morte di Filippo, l’assassino sanguinario che gli Inglesi chiamavano a volte “Re Filippo”, essendo egli a capo di una tribù così importante e numerosa come i Wampanoag. Alla notizia l’intera compagnia lanciò un allegro hurrah di esultanza. Poi mio zio ordinò ad alcuni Indiani di togliere Filippo dalla palude, in modo che tutti potessero vederlo. Le guide, stridendo come corvi per l’allegrezza di quel cadavere, lo presero per i calzoni e lo trascinarono all’asciutto. Il capitano Church disse quindi che, poiché Filippo aveva ucciso tanti Inglesi, doveva essere abbandonato insepolto nella palude, cibo per gli uccelli rapaci e i rettili notturni; subito dopo chiamò un vecchio Indiano e gli ordinò di tagliargli la testa e di squartarlo. Il vecchio si accostò a Filippo brandendo la scure ma, prima di farlo a pezzi, pronunziò un piccolo discorso indirizzato a Filippo, dicendogli che era stato un grande uomo, che i Bianchi avevano temuto. Mio zio interruppe bruscamente il discorso e fece eseguire l’operazione da uno dei volontari di Bridgewater. Il volontario compì rapidamente il lavoro che gli era stato ordinato. La testa di Filippo e una delle sue mani, perforata da un proiettile, furono donate da mio zio a Alderman, la guida indiana che ci aveva condotti in quel luogo.
«Quanto a me, non avevo sparato un colpo, ma la delusione non fece che accrescere il mio desiderio di partecipare alle future battute che i nostri vicini avrebbero organizzato nei boschi per ripulirli da quei selvaggi nemici di ogni civiltà e tanto privi di ogni senso di umanità».

Così morì questo capo che, considerato un selvaggio non istruito, fu senza dubbio un grande, considerate le sue risorse intellettuali e l’influenza che esercitò tra la sua gente. Se fosse vissuto in qualunque altro luogo o nazione, così combattendo per il suo paese natio, sarebbe stato considerato illustre come tutti gli eroi di ogni latitudine. Venne ingiustamente biasimato dalla gente di Plymouth per aver iniziato la guerra. Gli Inglesi pensavano che si fosse accordato con le altre tribù del New England e di New York allo scopo di scacciarli da tutto il territorio, se solo avesse potuto. Per questo gli Inglesi combatterono in modo così disperato e alla fine della guerra rimossero ogni ricordo delle tribù dal New England. E’ fuori di dubbio che in ogni caso gli Indiani sarebbero stati costretti a cedere le loro terre, prima o poi e Filippo indubbiamente lo aveva capito, ma pensava che la cosa migliore fosse la pace e lo faceva presente ai suoi seguaci. Gli Inglesi non lo sapevano e il risultato fu che Metacomet fu ritenuto responsabile di una guerra cui si era opposto fin dall’inizio.
La testa di Metacomet portata a Plymouth
La Guerra di Re Filippo si era dimostrata di importanza molto seria per le giovani colonie. Costò loro un equivalente di mezzo milione di dollari attuali e le vite di più di 600 abitanti, uccisi in battaglia o per diretta conseguenza della guerra. Furono distrutte tredici città e incendiate 600 case; difficilmente si trovò nelle colonie una famiglia che non dovette piangere la morte di un congiunto. Si è calcolato venne ucciso circa un uomo ogni undici. Ma la guerra fu ancor più disastrosa per gli Indiani: un gran numero di essi cadde in battaglia; le loro abitazioni vennero distrutte e il loro paese conquistato. Della grande e potente tribù Narraganset rimasero un centinaio di guerrieri.
Dei tanti guerrieri di Re Filippo, che erano uomini rimarchevoli, Viene spesso ricordato il possente Annawon. Al momento della morte di Filippo, Annawon era fuggito con certo numero di guerrieri. Il luogo del suo nascondiglio venne rivelato, non molto tempo dopo, da un Indiano, che era stato catturato assieme a sua figlia. Il posto si trovava in una palude appena a sud est di Rehoboth. Avuta l’informazione, il capitano Church adottò un audace stratagemma per catturare Annawon. Alla testa di un piccolo gruppo, guidato dai suoi informatori, Church nella sera si avvicinò con cautela al bordo di un precipizio roccioso, sotto il quale stava accampato il capo ed esaminò con cura la situazione: gli Indiani che c’erano, le loro armi, la loro attività (si stavano preparando per il pasto) e le eventuali difese, tutto venne rilevato dal capitano Church; e in particolare il fatto che Annawon e suo figlio stavano riposando vicino alle armi. Quando apprese dalla sua guida che non c’era modo di entrare nell’accampamento senza essere visti, eccetto che dalla parte del precipizio, decise di cercare di raggiungere l’obiettivo per quella direzione. La guida indiana e la figlia, secondo il piano concertato, con dei cesti sulla schiena come se portassero delle provviste, discesero per il pendio mentre le loro ombre nascondevano Church e i suoi uomini, che scendevano dietro di loro. In questo modo, anche se con grande difficoltà, raggiunsero tutti il fondo senza mettere gli Indiani in allarme. Tra l’altro furono coperti dal rumore fatto da una squaw che pestava del mais essiccato dentro un mortaio, quindi anche il fruscio generato dai loro saltelli di roccia in roccia non venne notato. Church, con un’ascia in mano, saltò sulle armi passando al di sopra della testa del figlio di Annawon, che si coprì con una coperta e si appiattì al suolo. Il vecchio capo emise un grido: Howah!, con il significato di Benvenuto! Vedendo che non c’era via di scampo, si rassegnò al suo destino e si coricò sul suo giaciglio, mentre gli assalitori catturavano i suoi compagni.


La cattura di Annawon – stampa

Inglesi e Indiani mangiarono amichevolmente insieme, quindi Church si coricò per riposare, perché non aveva dormito nelle trentasei ore precedenti; ma aveva la mente troppo piena di preoccupazioni per ammettere di riposarsi, e dopo poco tempo si alzò. In un’occasione, nella notte, ebbe dei sospetti sulle intenzioni di Annawon, perché questi, dopo aver tentato invano di dormire, si era alzato e si era allontanato per un po’. Quando ritornò aveva qualcosa in mano che posò al suolo (nel frattempo Church si era preparato al peggio); cadendo sulle ginocchia davanti al suo catturatore, disse: «Gran capitano, tu hai ucciso Filippo e conquistato il suo paese, per cui credo che per me e i miei guerrieri questa sia stata l’ultima guerra contro gli Inglesi. Penso che la guerra sia finita come tu desideravi.» L’involto di Annawon consisteva di regali, principalmente molte cinture di wampum, lavorate in maniera curiosa, e una coperta rossa da indossare, l’abito di gala di Filippo. Diede questi oggetti a Church, esprimendo la sua soddisfazione per aver avuto l’opportunità di fargli questi omaggi. Il resto della notte passò in conversazione, con Annawon che fece un resoconto dei suoi successi nelle precedenti guerre indiane, nelle quali egli aveva per capo Massasoit, il padre di Filippo. Si dice che Annawon confessasse di aver posto a morte molti prigionieri inglesi e di non poter negare che gli stessi erano stati torturati. In queste circostanze, considerando l’esasperazione che provavano Inglesi, era difficile aspettarsi che potessero mostrare pietà per lui. Tuttavia Church non intendeva metterlo a morte e, con onestà, intercedette anche per lui; ma non molto tempo dopo, durante una sua assenza da Plymouth, il vecchio capo venne giustiziato.

Non è difficile trovare tra gli storici e gli studiosi frasi di denuncia ed esecrazione per la condotta di Flippo e dei suoi guerrieri, a volte eccessiva e selvaggia. Indubbiamente essi erano crudeli, erano effettivamente ancora uomini preistorici. Ma si deve ricordare che, se non possono essere scusati, ci sono circostanze attenuanti che si dovrebbero considerare quando si parla della loro barbarie. L’insegnamento del Cristianesimo non attecchì quasi mai presso di loro. Non inflissero agli Inglesi torture peggiori di quelle inferte ai prigionieri delle tribù loro nemiche. In aggiunta, essi combattevano per il loro paese: erano patrioti e vedevano nel progresso e nella prosperità degli Inglesi la caduta della potenza indiana, con l’annullamento dello stesso nome di Indiano. Essi erano fratelli, mariti, che vedevano chiaramente che presto le loro relazioni familiari sarebbero state spezzate e che non ci sarebbe stata eredità per i loro figli.

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