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Altri film di John Wayne

A cura di Domenico Rizzi

Speciale a puntate: 1) John Wayne, un gigante del cinema western 2) La lunga gavetta di John Wayne 3) John Wayne: la ripresa del western 4) John Wyane, attore ormai affermato 5) Altri film di John Wayne 6) Strada aperta per John Wayne 7) Il meglio di John Wayne 8) Strade diverse 9) Alamo, un trionfo a caro prezzo 10) Uomo d’azione 11) Eroe nell’ombra 12) Gli anni del cambiamento 13) Il lento declino 14) La solitudine dell’eroe

Nel 1948 Wayne girò tre film, uno dei quali – “Il Fiume Rosso” di Hawks – fu tra le sue maggiori interpretazioni: gli altri due contribuirono comunque a mantenere viva l’immagine che il Duca era riuscito ad imporre dopo la sua interminabile gavetta.
“Wake of the Red Witch” (La strega rossa) diretto da Edward Ludwig per la Republic, con Gail Russell e Gig Young, fu la terza delle pellicole prodotte in quell’anno. Fece seguito all’uscita di un western decisamente atipico – “Three Godfathers”, I tre padrini – che Ford aveva voluto dedicare alla memoria di Harry Carey, scomparso nel ’47 e padre dell’attore Harry Carey Junior, protagonista del film insieme a John ed al bravo Pedro Armendariz, l’indimenticabile sergente Beaufort di “Fort Apache”.
Per l’ambientazione, il regista irlandese aveva momentaneamente abbandonato l’amata Monument Valley dell’Arizona a favore del Mohave Desert e della Valle della Morte della California, uno dei luoghi più aridi e inospitali del mondo.
La storia era decisamente inconsueta e racchiudeva un simbolismo biblico: tre banditi, fuggiti nel deserto dopo avere compiuto una rapina, trovano un neonato abbandonato e decidono di portarlo con sé nella loro tormentata quanto improbabile fuga. Alla fine, dopo avere visto perire i suoi due compagni, Robert M. Hightower (Wayne) riesce a raggiungere stremato una cittadina che, guarda caso, si chiama proprio New Jerusalem. L’ex bandito, riscattatosi dal suo passato, se la caverà con un anno di prigione, ma dovrà ringraziare la creatura trovata accidentalmente se la sua vita potrà riaprirsi alla speranza.
Forse Wayne non era troppo entusiasta di questa parte, perché il duro Ringo Kid di “Ombre Rosse” ed il rude cow-boy de “Il Fiume Rosso” cedevano il posto ad un individuo dal cuore tenero, che mostrava apertamente i propri sentimenti. Inoltre non si trattava del solito film in cui prevaleva il suo ruolo di uomo d’’azione. Il nuovo lavoro di Ford aveva dato all’attore la possibilità di sfoderare alcune delle qualità solitamente celate dietro la facciata del duro “frontiersman”.
“In nome di Dio” – distribuito in Italia anche con il titolo “Il Texano”, tratto da un racconto di Peter B. Kyne e sceneggiato da Laurence Stallings e Frank S. Nugent – rappresentò il complemento di un film assai importante nella carriera di Wayne, prodotto l’anno successivo e ritenuto da molti critici la vera dimostrazione della maturità dell’attore: “I cavalieri del Nord-Ovest”.


John Wayne recita ne “I Cavalieri del Nord-Ovest”

Quando lo girò, Wayne aveva 42 anni e ne erano trascorsi 22 dal suo lontano esordio nel 1927 con “The Drop Kick” di Millard Webb.
John Ford lo definì il migliore dei suoi film dedicati alla cavalleria, sostenendo di essersi ispirato per la sceneggiatura agli intensi quadri di Frederick Remington, il più grande fotografo pittorico del West. Il direttore della fotografia Winton Hoch lo prese in parola, riuscendo ad aggiudicarsi un Oscar per i meravigliosi contrasti creati sullo sfondo color porpora dei torrioni di roccia nella Monument Valley.
Invece Wayne, ancora una volta, non ottenne nulla.
Ma la sua interpretazione del vecchio ufficiale deluso alle soglie della pensione diventò una pietra miliare nella storia del cinema western.
La trama scaturiva da un breve racconto di James Warner Bellah, intitolato semplicemente “War Party”. Vi si narrava dell’estrema missione del capitano di cavalleria Nathan Brittles, un ufficiale sessantaquattrenne giunto all’ultimo giorno dei suoi 43 anni di servizio nell’esercito.
Una lunghissima carriera, costellata di spostamenti, di sacrifici, di rinunce, ma anche di amarezza e delusioni, alla quale mancava comunque il giusto riconoscimento finale. Un uomo solo, al quale un’epidemia di vaiolo aveva sottratto l’affetto della moglie e dei figli, sepolti nel cimitero militare di Fort Stark, lasciandogli soltanto un nipote invalido di guerra nella lontana Salem. “E’ una cosa sconvolgente arrivare alla fine di una vita” esordisce Bellah nella sua opera “dormire le ore buie di un’ultima notte, aprire gli occhi e capire dalle nere ombre che oscurano l’anima, che è tutto finito”.
Il film nacque come “She Wore A Yellow Ribbon” (Lei indossava un nastro giallo) titolo di una canzone che i soldati cantano durante la marcia. La distribuzione italiana, poco riguardosa dell’intrinseco romanticismo del motivo, lo ribattezzò “I cavalieri del Nord-Ovest”, escogitando un titolo che riteneva più consono ad una pellicola western. Prodotto dalla Argosy Pictures e distribuito dalla RKO, venne girato quasi interamente nella Monument Valley, nella riserva degli indiani Navajo che ormai chiamavano il regista Ford “Natani Nez”, equivalente a “Capo Bianco”. Sceneggiato dai soliti Stallings e Nugent, si avvaleva della colonna sonora di Richard Hageman, lo stesso che aveva curato il commento musicale di “Three Godfathers”.
Ancora una volta, come spesso accadeva nei western dell’epoca, il cast annoverava attori e caratteristi già popolari: Joanne Dru (Olivia) che era stata partner di Wayne ne “Il Fiume Rosso”, Andrew Mc Laglen, il burbero sergente Quincannon anch’egli prossimo al congedo, John Agar (tenente Cohill) Harry Carey Jr. (tenente Pennell) George O’Brien (maggiore Allshard, comandante di Fort Stark).
Wayne avrebbe assunto i panni del personaggio principale, Nathan Brittles, ormai rassegnato a trascorrere il resto della sua vita “ascoltando le stupide chiacchiere dei vecchi intorno al fuoco”.
Con i capelli brizzolati e i baffi grigi, lo sguardo fiero e un po’ malinconico di un uomo indomito che la vita non è riuscita a piegare, John impersonò superbamente la figura forse più drammatica della sua interminabile carriera, confermandosi il protagonista d’eccezione che Howard Hawks aveva saputo valorizzare senza le criticità di Ford. Forse quest’ultimo accusò lo smacco di essere stato troppo esigente verso colui che sarebbe diventato il suo attore prediletto, ma con questo film contribuì in maniera definitiva alla sua affermazione.


Three Godfathers

“I cavalieri del Nord-Ovest” non è il solito western pieno di scazzottate, duelli o battaglie contro gli Indiani. L’unico scontro sostenuto dai cavalleggeri si svolge verso la fine, quando la truppa di Brittles irrompe di sorpresa nell’accampamento nemico, disperdendo rapidamente la mandria dei cavalli. La ricchezza del film consiste nei dialoghi, essenziali e un po’ scontrosi, fra l’ufficiale e il suo staff, nella dura concezione dell’esistenza (“non chiedere mai scusa, è segno di debolezza”) e nella serena constatazione di un uomo che assiste alla fase conclusiva della sua vita attiva. Ma è anche uno stupendo ritratto della vita militare dell’Ottocento, reso più vibrante dal vivace contrasto di colori fra il blu delle uniformi, il giallo delle fodere dei mantelli, il rosso mattone del paesaggio in cui si muove la cavalleria.
Wayne sa mostrare ai suoi uomini la durezza del soldato, ma non resiste alla commozione quando questi gli regalano un orologio d’argento per il suo commiato, “il più bell’omaggio che il cinema ha saputo mai rendere al compimento dell’umano ciclo lavorativo” (Aldo Viganò, “Western in cento film”, Le Mani, Genova, 1994, p. 67).
“I cavalieri del Nord-Ovest” è un film perfetto sotto tutti gli aspetti.
Le sequenze di movimento, con i cavalleggeri in marcia nella vallata polverosa cui fanno da sfondo i maestosi colossi rocciosi di Castle Rock, West Mitten e Rock Door Canyon, offrono uno scorcio irripetibile del West della tradizione. Il suo protagonista, al quale la maschera da sessantenne sembra avere conferito anche i modi e la saggezza di un autentico anziano, è un uomo composto e dignitoso fino alla fine, consapevole della sorte che lo attende. Ha servito l’esercito e la patria per oltre quarant’anni, in un paese dove i militari sono considerati degli sfaccendati senza ambizioni, che si accontentano di una misera paga. Come sottolinea Warner Bellah, l’autore della storia, “Quelle facce da cinquanta centesimi al giorno le aveva viste per tutta la vita: cambiavano i cappelli, cambiava il sottomento, ma le facce non cambiavano mai.” La presenza femminile – Joanne Dru e Mildred Narwick (moglie del maggiore Allshard) è discreta e quasi impalpabile: è un tenero impatto di Brittles con il suo passato felice di marito e di padre.
Gli Indiani, come già in “Ombre Rosse”, restano ai margini della vicenda, esercitando la loro minaccia costante ed invisibile come il tempo scandito impietosamente dall’orologio di Nathan. Soltanto il vecchio capo che ammette di non avere più ascolto da parte dei giovani guerrieri ansiosi di combattere, accomuna i Pellirosse ai loro nemici bianchi. L’espressione che rivolge sconsolato al suo amico Brittles – “E’ troppo tardi, Nathan!” – mette di fronte due uomini sconfitti, perché “il compito di noi vecchi è quello di impedire le guerre”.
John Wayne
L’anziano capitano si lascia andare ad una esplosione di gioia soltanto quando viene raggiunto da un cavaliere che gli comunica – mentre è già in cammino verso occidente, dove ha finalmente deciso di andare, rinunciando alle “nebbie atlantiche di Salem” – la promozione a tenente colonnello ed il nuovo incarico di comandante degli esploratori, l’evento che gli permetterà di rimanere in servizio ancora a lungo.
L’uomo ha esorcizzato in extremis la propria morte virtuale, ma si tratta dell’euforia di un momento. Rientrato al forte, dove lo attendono i festeggiamenti, il vecchio ufficiale, abitualmente riservato e schivo, si defila con la scusa di dover prima “andare a rapporto”.
Se i tempi fossero stati più maturi per un simile riconoscimento e la critica meno avara e prevenuta, John Wayne avrebbe dovuto ottenere un Oscar perché non era stato “mai così umanamente convincente come in questo epico viale del tramonto di un individuo solitario, ma sempre alla ricerca di una comunità sociale in cui riconoscersi” (Viganò, op. cit., p. 67)
Ma forse anche pretendere qualcosa, pur avendone il sacrosanto diritto, avrebbe potuto rappresentare “un segno di debolezza”.